Intempestivi

10, 100, 1000 Nassiriya

Una data fa da spartiacque. Dal 12 novembre 2003 la popolazione italiana si è ulteriormente spaccata in due.

C’è una maggioranza che ha pianto la morte dei diciannove militari saltati in aria nell’attentato avvenuto a Nassiriya: un lutto nazionale, secondo giornalisti ed istituzioni. A morire tragicamente, in quella terra lontana, sono stati i “nostri ragazzi”. Italiani, come noi, che vivevano accanto alla nostra porta di casa, mangiavano lo stesso nostro cibo preferito, tifavano per la nostra stessa squadra del cuore. Morti, uccisi barbaramente da stranieri, dalla lingua incomprensibile, dai costumi sconosciuti, dai gusti discutibili. Le loro bare ricoperte dallo straccio tricolore, le lacrime dei loro familiari, filmate e mostrate infinite volte nel tentativo di suscitare unanime cordoglio. Eppure c’è anche — una minoranza, certo! — chi non ha pianto affatto, anzi, ha esultato alla notizia dell’attentato. E da allora continua a gioire ogniqualvolta un militare italiano viene messo nell’impossibilità di proseguire le proprie “missioni” all’estero.

Nel primo caso, quei morti sono connazionali caduti nell’adempimento del proprio dovere. Nel secondo caso, sono semplicemente degli invasori che hanno fatto la fine che meritano tutti gli invasori di questo mondo; ecco perché qualcuno non esita a gridare durante le manifestazioni, o a vergare sui muri, il suo appassionato auspicio: 10-100-1000 Nassiriya.
La maggioranza lacrimosa, quella infarcita di amor patrio(t)tardo, lo considera un oltraggio, una vera e propria bestemmia. Per la minoranza gaudente, quella solidale con le popolazioni bombardate, è quasi un’ovvietà: dopo aver ascoltato per anni il ritornello sulla Repubblica nata dalla Resistenza, che la Resistenza è sinonimo di bene, che solo la Resistenza ci ha dato la libertà, come si può condannare la Resistenza degli altri? Qual è la differenza fra chi è insorto, armi in pugno, contro l’invasore nazista e chi sta insorgendo, coi medesimi strumenti, contro l’invasore yankee? Non è somma ipocrisia festeggiare ogni 25 aprile per poi piangere ogni 12 novembre? Un riferimento alla Resistenza ritenuto intollerabile dai portavoce della maggioranza lacrimosa, consapevoli che nel cosiddetto immaginario collettivo la Resistenza è un valore sacro e intoccabile. E per questa ragione devono assolutamente dissolvere ogni preteso legame fra quella lotta condotta contro l’esercito tedesco e i suoi alleati in Italia, e l’attuale lotta contro l’esercito statunitense e i suoi alleati in Iraq. Ma per farlo devono riuscire a imporre la loro interpretazione del concetto di Resistenza. Nei paesi europei in cui si è combattuto il nazismo, pur con le debite differenze la Resistenza ha presentato alcune caratteristiche comuni, prima fra tutte la lotta di liberazione nazionale contro l’esercito straniero, contro l’invasore. E poi — oltre alla difesa della “nazione” dall’occupazione, dal conseguente controllo politico e dallo sfruttamento economico —, in barba al totalitarismo si è prepotentemente affermato un comune contenuto ideale: la difesa della dignità umana.
In perfetta sintonia, chi nega che oggi in Iraq sia in corso una guerriglia partigiana è costretto a sostenere che l’esercito degli Stati Uniti e i loro alleati stanno esportando l’acqua benedetta della democrazia in un paese in preda all’oscurantismo politico e religioso. I soldati statunitensi sbarcati a Baghdad vanno paragonati ai soldati statunitensi sbarcati ieri in Normandia: dopo aver liberato le popolazioni locali dalla dittatura di Hitler e Mussolini, oggi le stanno liberando dalla dittatura di Hussein o dei talebani. Ragion per cui, chi si oppone alla loro avanzata non può essere considerato un resistente erede dei partigiani, bensì un oppressore erede dei fascisti. E a sostegno di tale tesi, ai portavoce della maggioranza lacrimosa non resta che sbandierare accanto allo straccio a stelle e strisce la barbarie messa in atto dai ribelli iracheni — mostrati nell’atto di mozzare teste —, la loro soggezione ai leader fondamentalisti della regione, il ruolo giocato al loro interno dai sopravvissuti dell’antico regime.
Nata come fenomeno che si può definire spontaneo — da atti volontari o dalla presa di coscienza di individui e di piccoli gruppi decisi a ribellarsi all’occupazione —, alla Resistenza hanno contribuito, in maniera e circostanze diverse, da un lato gli ufficiali e i soldati che non accettavano la disfatta, dall’altro la popolazione che istintivamente reagiva all’occupante, allo straniero. La Resistenza non ha mai avuto una identità comune, uniforme. Al suo interno erano presenti tensioni di varia natura: fra chi si trovava in esilio e chi sul campo, fra l’elemento più “politico” e quello più “militare”, fra chi si limitava ad essere un patriota e chi auspicava anche un effettivo cambiamento sociale. E c’erano contrasti anche nel modo di concepire la stessa resistenza armata.
In una Polonia già spartita nel 1939 fra la Germania e l’Unione Sovietica ci furono due resistenze, due governi, due eserciti; in Jugoslavia ci fu una guerra civile fra il “serbo” colonnello Mihajlovic, sostenuto dal governo in esilio a Londra, e lo stalinista Tito; in Grecia la liberazione coincise con la nascita di un’aspra guerra civile. Come si vede, anche nella vecchia Resistenza — quella ufficialmente riconosciuta — non mancavano di certo le spaccature, i conflitti e le ambiguità. Ed anche allora assunse fin da subito i tratti della guerra civile. Come sta accadendo in Iraq. È certo arduo stabilire a favore di cosa si stiano battendo i resistenti iracheni, considerata la loro eterogeneità. Meno problematico è capire contro chi si stanno battendo: le truppe statunitensi ed i loro alleati, considerati nemici dalla quasi totalità della popolazione.
A differenza di quanto accadde durante la seconda guerra mondiale, quando era in atto uno scontro fra potenze occidentali, le cui popolazioni condividevano grosso modo gli stessi valori culturali, oggi assistiamo all’invasione pura e semplice di un altro paese da parte delle forze occidentali. Ecco perché, se per la popolazione italiana sopraffatta dal nazifascismo i militari statunitensi erano “liberatori”, è impensabile che oggi accada lo stesso per gli iracheni: sanno perfettamente che dietro alla sbandierata libertà occidentale da esportare si nascondono beceri interessi economici da sfruttare.
Ma facciamo un passo indietro, al lontano 1991.
La lacrimosa maggioranza non sa, o finge di non sapere, che all’epoca della prima “guerra del golfo” c’era stata in Iraq la più grande insurrezione della storia moderna. L’invasione del Kuwait, col conseguente intervento delle forze alleate occidentali, aveva esasperato molti soldati dell’esercito iracheno, i quali avevano deciso di disertare e di ribellarsi a Saddam Hussein. Insieme a buona parte della popolazione, del sud e del nord del paese, si erano sollevati contro il tiranno. È per questo motivo che Hussein non venne rovesciato all’epoca, per consentirgli di reprimere una insurrezione generalizzata il cui esito non sarebbe stato controllabile. Il Dipartimento di Stato statunitense aveva deciso che in fondo una dittatura era accettabile, l’anarchia no: meglio un Hussein al potere, che nessun potere. Nel 1991 le forze occidentali guidate dal governo degli Stati Uniti presieduti da Bush padre, si ritirarono per consentire a Saddam Hussein di massacrare la popolazione irachena insorta contro la sua dittatura. Ed ora, dopo dieci anni di embargo che hanno seminato morte e sofferenza fra gli iracheni, adducendo il pretesto di inesistenti “armi di distruzione di massa” e contro il parere delle stesse Nazioni Unite, il governo degli Stati Uniti vorrebbe dare ad intendere che ha inteso portare la libertà agli iracheni attraverso massicci bombardamenti. Come dovrebbero essere accolti i soldati statunitensi e i loro tirapiedi alleati? Come prodi e valorosi salvatori, o come ipocriti e brutali invasori? Vogliamo domandarlo agli abitanti di Falluja, dove centinaia di persone sono state massacrate per rappresaglia, per vendicare i tre mercenari statunitensi uccisi in quella città? Vogliamo chiederlo alle migliaia di civili rinchiusi e torturati ad Abu Graib? Ma spostiamoci pure in Afghanistan, dove i vecchi alleati degli Stati Uniti — i talebani — sono di colpo diventati l’incarnazione del male: le cose non cambiano poi molto. È evidente che, finché combattevano l’egemonia sovietica nella zona, l’assenza di democrazia o il loro fondamentalismo religioso o il loro disprezzo per le donne... erano tutti dettagli trascurabili.
Ebbene, se il contenuto ideale della resistenza in questi paesi è alquanto dubbio (a parte quello minimo: buttare fuori le truppe degli invasori), è indiscutibile quello delle forze alleate, che si battono per imporre il totalitarismo della merce e del denaro. La macchina propagandistica dei paesi occidentali può anche ripetere senza sosta i consueti ritornelli sulla democrazia da esportare o sulla pace da edificare. Ma è ormai chiaro quali sono i valori che mira a diffondere e proteggere: quelli del libero mercato.
Quanto ai “nostri ragazzi”, che secondo la retorica nazionalista dovremmo sostenere — oltre ad accettare scodinzolando basi militari statunitensi e NATO sulla nostra terra —, è impossibile dimenticare che la loro permanenza in Iraq si è espressa dando il meglio di sé con gli arresti degli oppositori del regime di Saddam e nella protezione dei giacimenti di petrolio di Nassiriya in concessione all’Eni. E che poi hanno proseguito «annichilendo» gli insorti, ovunque gli sia stato ordinato di farlo.
Essi sono quindi a tutti gli effetti degli invasori, mercenari stranieri che impongono i propri voleri alla popolazione locale con la forza armata. E a Nassiriya, il 12 novembre 2003, come tali sono stati trattati.
 
[Machete, n. 1, gennaio 2008]