Brulotti

Mi piace una cifra

All'inizio degli anni 40, mentre l'intera Europa soffocava sotto il tallone di ferro del nazismo, una filosofa francese riusciva ad esprimere in poche righe la differenza che separa la resistenza nata dalla rivendicazione di un diritto da quella che viceversa è «una rivolta di tutto l'essere». Quest'ultima è come un «grido di speranza scaturito dal profondo del cuore», ma che però viene difficilmente inteso da tanto è «inarticolato». Infatti sotto il peso dell'oppressione che «rende ogni sforzo d'attenzione doloroso» gli sfruttati non interrogano se stessi, bensì «accolgono con sollievo la facile chiarezza delle cifre». Ed è proprio su questa debolezza che prospera la «sinistra farsa... recitata dal movimento operaio, con i suoi sindacati, i suoi partiti, i suoi intellettuali di sinistra». Anziché respingere ogni patto con il diabolico capitalismo, «i professionisti della parola» si limitano a mercanteggiare sul prezzo dell'anima proletaria messa in vendita.

Una ventina di anni dopo, verso la fine degli anni 50, un critico statunitense annotava che «la nostra cultura di massa è dominata dall'importanza accordata ai dati e da una corrispondente mancanza di interesse per la teoria, da una esplicita ammirazione per il fattuale e da un tortuoso disprezzo per l'immaginazione, la sensibilità e la speculazione filosofica. Noi siamo ossessionati dalla tecnica, dai Fatti, dall'informazione». Fra gli esempi a sostegno della sua tesi ne fece uno singolare: «una spiegazione della nostra passione per gli sport, in contrasto con la nostra apatia verso le arti e le lettere, può essere che la qualità della prestazione negli sport può essere determinata statisticamente». In effetti il successo popolare dello sport è andato di pari passo con la regressione generale della cultura. Perché conoscere un'opera, coglierne il significato, esprimerne un giudizio, non sono cose facili come guardare una gara in televisione. Sono conquiste strappate con lo studio e la riflessione, laddove per sapere qual è il giocatore più forte o l'atleta più veloce basta conoscere i punti segnati o i record stabiliti. Dati da memorizzare, comodi da commentare, nulla a che vedere con lo sviluppo del sapere, dello spirito critico e dell'autonomia di pensiero. Nello sport «la qualità può essere misurata in base alla quantità. Ciò è molto rassicurante e spiega perché noi prendiamo sul serio gli sport e non l'arte».
Va da sé che la «facile chiarezza delle cifre» ha maggiori possibilità di trovare consenso rispetto ad un «grido inarticolato», tanto quanto lo sport vanta più appassionati della poesia. Perché la quantità è più facilmente riconoscibile e palpabile della qualità. Lo si nota bene oggi persino dentro il movimento, quando sembra che ogni lotta intrapresa debba per forza di cose basarsi esclusivamente su dati tecnici. La critica sociale cede il posto alla confutazione peritale. Quando si prende la parola per opporsi ad un progetto del dominio, cosa si fa? Si snocciola una lunga sequela di numeri che dovrebbero dimostrare oggettivamente la nocività dell'opera, stando ben attenti ad evitare ogni considerazione singolare che potrebbe urtare chi ascolta. Per non scadere nella «ideologia», per non venir tacciati d'essere «di parte», per voler sembrare «neutri» ad ogni costo, si conteggiano con enfasi quantità di detriti, quantità di polveri, quantità di scorie... Perché 2 più 2 fa 4 per tutti, senza distinzioni; per il riformista e per il sovversivo, per il cattolico e per l'ateo, per il ricco e per il povero. Si mormora che la matematica non sia una mera opinione, ed ecco perché in questi ultimi anni gli «esperti» hanno cessato di essere (saccheggiati ma) guardati con disprezzo o perlomeno sospetto, per diventare indispensabili compagni di strada da rincorrere e sbandierare. E la cosa funziona! Funziona come funziona la tecnica.
La filosofa francese voleva dare ben altro slancio alla resistenza umana, staccandola dalle contrattazioni parziali per fondarla sull'etica. Ciò significa prestare una dolorosa attenzione al fine di dare significato a ciò che è oscuro. Si tratta di uno sforzo continuo, incerto, che rischia di ricominciare ogni mattina e la cui generalizzazione può avvenire più che altro per riverbero. Questo grido proveniente dal cuore ormai è quasi soffocato del tutto. Perché più le cifre sono facili da comprendere e più garantiscono consenso, più garantiscono consenso e più vi si fa ricorso. E più vi si fa ricorso, meno si presta attenzione al resto che prima viene emarginato, poi smorzato, infine dimenticato. Anche quando quel resto è solo la totalità dell'essere – le sue idee, i suoi desideri, i suoi sogni. A furia di parlare un linguaggio neutro si diventa neutri. Anzi, peggio. Perché i dati di per sé sono inerti, per acquisire forza devono essere posti in relazione con altri dati attraverso qualche genere di supposizione, ipotesi, generalizzazione. Devono essere tenuti assieme da una teoria. E quando ci si sforza ad accumulare questo insieme di dati, di chiare cifre, al fine di farsi accogliere dagli altri, poi ovviamente non si può rovinare tutto usando il cemento di una teoria decisamente impopolare. Meglio battere la via più semplice, puntare a mescolarli con i luoghi comuni che già riempiono le orecchie della stragrande maggioranza della gente. Come faceva quel rivoluzionario che confessava: «non cesserà mai di meravigliarmi il fatto che questi "radical" che vogliono arrivare ad "abbattere" (!) il capitalismo trovino tante difficoltà a funzionare politicamente... nei loro stessi quartieri per una nuova politica basata su di una vera democrazia».
Per funzionare politicamente – nei propri quartieri o nelle proprie comunità – meglio abbandonare vecchie idee inarticolate come l'irriducibile alterità, la conflittualità permanente o l'orizzontalità decisionale. Meglio strombazzare dati che propagandino una nuova politica (dal basso) per una vera democrazia (diretta). Meglio lasciare la difficoltà dell'essere che crea situazioni autonome per godersi la facilità dell'esserci che presenzia a situazioni altrui, sporcandosi le mani a furia di nascondere il seme della libertà sotto la neve della politica. Per baloccarsi poi nel rassicurante determinismo secondo cui «da cosa nasce cosa».
Ma dalla sudditanza alla quantità non nasce alcuna qualità. Dalla ripetizione di banalità non nasce alcuna originalità. Dall'adeguamento alla politica non nasce alcuna libertà. L'utopia coi piedi per terra è una patetica ipocrisia, tanto quanto il mercato equo e solidale. Non sarà certo l'ostentazione di buone intenzioni a trasformare una sinistra farsa in una radicale liberazione.
 
[13/11/13]