Brulotti

Sindromi

Ormai sono dappertutto. Sono uomini e donne, ricchi e poveri, governanti e governati. Sono belli e brutti, di destra e di sinistra, riformisti e sovversivi. Una vera pandemia che non fa distinzioni, che non guarda in faccia a nessuno. Chissà se il dottor Kurt Goldstein si era mai interrogato sugli aspetti futuri che avrebbe assunto la patologia di cui egli riscontrò per primo le avvisaglie nel lontano 1908. Lui la chiamava «sindrome della mano aliena», o «sindrome della mano anarchica» (sic!). 

Più tardi, sull'onda del successo del film di Stanley Kubrick nei primi anni 60, sarebbe stata battezzata anche «sindrome del dottor Stranamore». Detto in parole povere, una mano non è più sotto il controllo del cervello e si comporta come se appartenesse a qualcun altro. Ricordate Peter Sellers nella celebre pellicola? La sua mano sinistra doveva bloccare continuamente la mano destra, pronta a scattare per fare il saluto nazista nonostante la volontà dichiarata del suo portatore. Una mano non sa e non è d'accordo con quello che fa l'altra. Possibile?

Questo bizzarro disturbo del comportamento si è sviluppato all'inverosimile, assumendo tratti grotteschi quanto orribili, non appena è venuto a contatto con un'altra patologia appartenente alla stessa specie: la cosiddetta sindrome di Zelig. Anche qui c'è un noto riferimento cinematografico. Non ci è dato sapere se Woody Allen conoscesse l'opera di Kurt Goldstein quando, nel 1983, mise in scena la fantasiosa vita di Leonard Zelig, uomo affetto da un curioso disturbo psichico: la mancanza di una propria memoria lo spingeva ad assumere di continuo e in modo convincente l'identità di chi gli stava di fronte. Una sorta di trasformismo psicologico (e non solo) involontario che lo rendeva di volta in volta giocatore di baseball in mezzo a campioni di baseball, trombettista nero in una banda di jazz, pellerossa tra i pellerossa, ebreo fra gli ebrei, nazista in mezzo ai nazisti, eccetera. 
Zelig è l'essere-camaleonte, dipendente dall'ambiente in cui si trova e lesto nell'imitare i gesti dei suoi interlocutori pur di farsi accettare. Come è stato fatto notare, la sua peculiarità è la totale e onnipervasiva immersione in un dato contesto, come se perdesse la capacità di mantenere costante la propria individualità per adattarsi alla situazione circostante. E, di fronte al susseguirsi di nuove situazioni a cui adeguarsi per esserne sempre all'altezza, Zelig usa inconsciamente una formidabile arma di difesa contro il suo involontario trasformismo: cancella totalmente dalla memoria il ruolo che ha appena sostenuto non appena s'immedesima in quello nuovo.
Il disturbo della mano che non sa cosa fa l'altra, descritto da Goldstein e che tanto stupore provocava in chi ne era affetto, nel corso del tempo ha trovato finalmente in Zelig la quiete di un nuovo equilibrio. Non attraverso il ripristino del controllo della mente sugli arti, bensì nel suo esatto contrario: il disturbo è infatti dilagato nella psiche. Oggi, è la mente stessa che di volta in volta non sa cosa ha appena fatto.
A ben pensarci Zelig è il perfetto riflesso e prodotto di quest'epoca che ha fatto della flessibilità il suo valore ideale e del precariato la sua condizione di vita. In fondo è stato lo stesso sviluppo del capitalismo ad introdurre con forza la flessibilità lavorativa, ovvero «il concetto in base al quale un lavoratore non rimane costantemente al proprio posto di lavoro a tempo indeterminato, ma muta più volte, nell'arco della propria vita, l'attività occupazionale e/o il datore di lavoro». È perciò la logica del profitto a pretendere l'abbandono delle «identità» stabili, a dare il via libera ad un perenne trasformismo. Per far accettare questa mutazione, del tutto insensata se guardata con gli occhi del passato, si è cercato di presentarla sotto le attraenti sembianze dell'evoluzione, dell'accrescimento, se non addirittura dell'avventura. Basta coi lavori ripetitivi e quindi noiosi! Lavoratori, cambiate spesso mansioni, vi scoprirete arricchiti di nuove esperienze!
Questo ritornello, leggermente modificato, risuona con pari ipocrisia anche in chi invita gli esseri umani ad abbandonare ideologie ripetitive e quindi noiose, a cambiare spesso opinione, per arricchirsi così di nuove esperienze. Trasformismo che mira in realtà ad abolire ogni differenza, a cancellare ogni incompatibilità, a conciliare ogni alterità, sostituendo la cattiva contraddizione (che bolla opportunisti e voltagabbana) con la buona giustapposizione (che illumina spiriti liberi e originali). È solo una coincidenza il fatto che la comparsa di Zelig sia pressoché contemporanea all'apparizione nel linguaggio di «guerre umanitarie» o «banche etiche», espressioni che a loro volta tendono a neutralizzare i contrari, a pareggiare le opposizioni? Difficile crederlo.
Oggi Zelig è dappertutto. E dappertutto spiccano le sue caratteristiche: scaltrezza, inganno, mimetismo, ipocrisia, menzogna. Se il mondo che ci domina e ci soffoca ce ne dà quotidianamente numerosi esempi, il sottomondo in cui (sopra)viviamo... pure. Anche qui è infestato ormai da camaleonti a due piedi: conciliatori del petizionismo con l'azione diretta, anti-autoritari fautori della non-orizzontalità, amici di delatori benefattori di detenuti, poeti di corte teorici del sabotaggio... Tutti Zelig, occasionalmente anarchici fra gli anarchici, saltuariamente antifascisti assieme agli antifascisti, momentaneamente democratici in presenza di democratici, temporaneamente comunisti in mezzo ai comunisti. A seconda dell'aria del tempo sono pronti a citare Bakunin o Blanqui, ad ammirare Di Giovanni o Ocalan, a rincorrere Bonanno o Scalzone. Nell'era di Facebook e di Twitter, anche loro amano condividere. Ecco perché non ci trovano nulla di strano in una «massa critica», e ancor meno in una «libera repubblica».
Inutile tentare di discutere con Zelig-il-camaleonte, tanto non capirebbe. Non solo la sua mano destra non sa cosa fa quella sinistra, ma il suo colore del presente non ha memoria di quello del passato. O, per lo meno, così (si) dice. Per cui, se criticato per le sue capriole, Zelig si stupisce, si indigna, si arrabbia pure, pronto a giurare che non è vero nulla. Alle sue spalle, c'è un intero mondo a sostenerlo. Resta il fatto che la sua parola, fosse anche la più splendente, possiede non solo la leggiadria, ma soprattutto la durata di una farfalla: vive lo spazio di una giornata. Talmente inattendibile che non vale la pena ascoltarla.
Davanti a Zelig ed al suo inarrestabile proliferare vengono in mente le parole di un libro antico, celeberrimo best-seller internazionale: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Apocalisse, 3:15-16).
 
[25/11/13]