Intempestivi

La torta intera

 

Dallo sciopero selvaggio all'autogestione generalizzata – un sogno che ha titillato molti sovversivi del passato, e che sta titillando anche molti sovversivi del presente. Dopo gli autisti dei trasporti pubblici di Genova, quelli di Firenze; dopo Firenze, l'Italia? Che esempio straordinario sarebbe. I lavoratori che, vessati dalle brame padronali e stanchi dell'impotenza sindacale, scavalcano i loro inutili rappresentanti per riunirsi finalmente in assemblea e decidere da soli in quale energica maniera costringere i padroni a... rispettare il loro diritto a briciole di sopravvivenza.
Perché, per quanta retorica si possa fare sulle forme assunte da queste lotte, resta comunque il problema del contenuto. E non si tratta nemmeno del limite delle rivendicazioni riformiste. In fondo, anche la rivolta di Haymarket del maggio 1886 (quella dai cui tragici esiti è nata la festa dei lavoratori) prese il via dalla richiesta di una semplice riduzione dell'orario lavorativo. Quelle centinaia di migliaia di lavoratori statunitensi entrati in sciopero mica esigevano la rivoluzione. A fronte di uno sfruttamento brutale, che all'epoca arrivava a una media di dodici ore al giorno, si batterono per ottenere un miglioramento, per le otto ore di lavoro. Ma questo accadeva nello scorso millennio.
Oggi, a Genova come a Firenze, i lavoratori incrociano le braccia e sfidano la legge, non per migliorare la propria condizione, non per venire sfruttati di meno, no. Lo fanno soltanto per non peggiorarla, per evitare uno sfruttamento ancora maggiore, per conservare la miseria che è stata loro concessa e che oggi vedono messa in discussione. Col coltello puntato alla gola, lottano per mantenere una mera sopravvivenza.
Ora, di fronte a questo terribile mutamento di prospettiva che annichilisce ogni tensione utopica, che si fa? Lo si ignora per esultare davanti a una vittoria che si limita a confermare la vecchia sconfitta? Ci si dà qualche pacca sulle spalle, in preda all'idiota beatitudine dell'ottimismo, al grido che «la lotta paga»? Si preferisce omettere il piccolo e trascurabile dettaglio della rinuncia ad una vita da vivere e da godere, per concentrarsi sull'effetto benefico di simili successi, sul loro contagioso attivismo, sul fatto che serviranno da sprone ad altri sfruttati per una difesa vigorosa del proprio sfruttamento?
Bisognerà pur decidersi. O ci si affida al consolante ottimismo del determinismo, quello secondo cui basta mettere in moto il giusto meccanismo per ottenere i risultati sperati, oppure si è costretti ad affrontare le difficoltà insite in un volontarismo che oggi non ha molte ragioni per gioire. O si pensa che il trionfo dell'immaginario statale in tutti gli sfruttati non costituisca alcun problema, essendo del tutto momentaneo, facilmente scalzabile da qualche giornata di passione, oppure lo si considera uno dei più urgenti nodi da sciogliere. O si ritiene che lo sciopero selvaggio sia per sua essenza un'arma della rivoluzione (capace di trascinare le masse dalla rassegnazione servile all'ardire rivoltoso), oppure si constata come esso possa cadere in mano alla controrivoluzione – dato che oggi non viene brandito per lavorare di meno, ma di più, da chi magari vuole solo «continuare ad esistere come azienda unica del trasporto pubblico locale su gomma».
Inutile consultare il passato, non può fornire risposte sul presente. In passato, le scintille delle rivolte potevano ben essere banali, dato che era l'aria stessa ad essere carica di tensioni sovversive. Oggi, l'aria è carica solo di banale cittadinismo (il che spiega perché le scintille talvolta possano anche essere di natura sovversiva). Basti pensare alla Val Susa, dove anni di aspro conflitto contro lo Stato non hanno ancora messo radicalmente in discussione nella stragrande maggioranza dei suoi abitanti la necessità dello Stato. Dopo soprusi, umiliazioni, scontri, pestaggi, denunce, arresti e detenzioni, sono ancora pronti a salutare il deputato leale, il sindaco fedele, il magistrato equo. Chi pensa che una certa pratica reale ed una certa esperienza diretta siano sufficienti per passare dall'autorità alla libertà farebbe bene a ricordare quel certo Giovanni Nicotera che, da compagno d'armi di Carlo Pisacane nella spedizione di Sapri, diventò ministro degli Interni pronto a portare la banda del Matese davanti al plotone di esecuzione.
Mezzi e fini, forma e contenuto, teoria e azione: solo riscoprendo l'importanza di queste congiunzioni si potrà finalmente uscire da sotto il tavolo, dove cadono le briciole, per allungare le mani sull'intera torta.
 
[8/12/13]