Brulotti

Bocca d'oro

 

È già stato detto. Anche la notte è un sole. Anche l'assenza di mito è un mito: il più freddo, il più puro, il più vero. Il denudamento perfeziona la trasparenza, la sofferenza precisa la gioia. L'assenza di Dio non è sinonimo di chiusura, se non per le menti sciocche. Di fatto, apre all'infinito. Come diceva con assennatezza un papa, l'essere umano è assetato d'infinito: se non lo trova nella religione, rischia di cercarlo nell'utopia. Chi, avvezzo agli stomaci occidentali, è pronto ad irridere la materialità di una simile constatazione, farebbe bene a pensare alla facilità con cui dall'altra parte del pianeta si passa dall'incanto estatico alla sommossa furiosa. 
C'è una via di mezzo che protegge l'ordine della religione contro il disordine dell'utopia, il mito. Il mito è quella realtà che non è realtà, è quell'utopia che non è utopia. Il mito accompagna sempre la rivolta, ma non si sa se nelle vesti di complice o di guardiano. Nel millennio scorso la sovversione si esprimeva principalmente attraverso teorie, oggi prende forma di letteratura. La retorica era solo un fiore per adornare ed abbellire il tronco robusto ma grezzo dell'albero teorico. Oggi è tutto ciò che ne rimane. 
Pigrizia della mente? Una teoria va esaminata e analizzata prima di essere approvata o confutata. Una teoria – brutta bastarda arrogante! – esige un parere, un giudizio di merito. Bisogna penetrarla, comprenderla, riflettere, per esprimersi in proposito. Troppo difficile. Una letteratura, invece, si conclude con una semplice impressione. Tutta un'altra cosa, diciamolo. La prima pretende concentrazione, alla seconda basta l'abbandono. La prima è elitaria, la seconda popolare. Non è mica un caso se negli ultimi anni la critica radicale è stata spazzata via dalla mitopoiesi. I sovversivi del terzo millennio leggono romanzi, non trattati.
La mitopoiesi è la creazione di miti, di narrazioni, di racconti. Nell'interpretazione dell'antropologia culturale, è il processo di formazione ideologica con cui si attribuisce a fatti reali o alla loro narrazione un valore fantastico di riferimento culturale e sociale. Ma anche politico. Il mito fornisce coesione ad una comunità attraverso la creazione di un linguaggio comune per nominare cose e comportamenti. Dirige l'energia ed ispira un'azione che vada oltre lo stato di cose presenti. Genera l'entusiasmo necessario ad imprese ardite, contrastando la paura.
Ma dopo decenni di perdita del linguaggio e di erosione del significato, cos'è accaduto? Che a furia di far crescere edere sulla nostra foresta di sogni e pensieri, gli alberi ne sono rimasti soffocati. Oggi si ha un bel frugare in mezzo ai petali, difficile che spunti il legno al di sotto. E quando accade, spesso è marcito: tutti quei fiori non lo hanno fatto respirare.
Quando Georges Darien pubblicava Il Ladro nella Parigi del 1897, trovava in Alexandre Marius Jacob il suo miglior lettore. La fantasia si incarnava nella realtà. Viceversa, oggi, è assai più facile assistere alla realtà che si sublima nella fantasia. Gesti simbolici considerati azioni dirette. Scontri di piazza descritti come sommosse. Lotte sociali che appaiono semi insurrezioni. Dopo Hegel a Cuneo, è la volta di Bakunin (o Blanqui, o Mao, o Durruti, o Giap, fa lo stesso) a Venaus?
In mezzo a questo annusar di efflorescenze, dove finisce l'incoraggiante mitopoiesi e dove inizia la consolante autosuggestione? Come distinguere chi racconta favole magiche da chi, semplicemente, la racconta su? Vien da sorridere a pensare ad un Camillo Berneri che s'illuminava davanti ad un conferenziere che affrontava la guerra in Libia «con il Manuale di statistica del Colajanni alla mano». Da bravo positivista, invocava l'oggettiva chiarezza dei numeri contro la singolare oscurità dei sentimenti. Ma se la padella scotta, bisogna per questo gettarsi nella brace? Perché viene assai meno da sorridere nel riflettere sull'attualità delle altre sue considerazioni al riguardo: «Prato ondante al vento della parola, la folla accoglie il fondiccio di torbidumi ideologici, si compiace delle cascatelle di metafora più o meno barocche, si meraviglia della fluidità dell'eloquio, si lascia impaniare dalle civetterie del gesto e dei toni. Ma finito il discorso-spettacolo, non rimane, nei cervelli, che qualche vaga immagine fumosa di tutti quei razzi e di tutte quelle girandole. Alla domanda dell'assente: “Che cosa ha detto?” non vi è altra risposta: “Ha parlato bene”, ché altra risposta non è possibile. Involontaria, e di frequente incosciente, ironia in quel: “Ha parlato bene”. Il Crisostomo piazzaiolo ha parlato non con aurea bocca bensì con bocca dorata; è stato facondissimo alle orecchie quanto infecondo alle menti. Ha seminato vento, che sulle folle sarà tempesta ieri, oggi e domani; e fino a quando gli idoli della piazza non saranno abbattuti dalla fame di dimostrazioni, dall'attenzione critica e da una saggia ironia. Allora non sarà, nell'agorà, folla di orecchie bensì dialogare di uomini pensanti».
La folla di orecchie ci circonda, pronta a ondeggiare di qua e di là davanti a chi parla bene e in tono accattivante. Ma non c'è traccia di dialogo fra esseri pensanti, tutt'al più qualche soliloquio... Eppure, tra il mito consolatorio e l'impossibile utopia, non abbiamo dubbi sulla scelta, per quanto impopolare essa sia.
 
 
[13/12/13]