Brulotti

Come sono le nostre mani?

Talvolta il caso ci regala coincidenze che fanno pensare. Lo scorso 9 dicembre era il giorno in cui l'Italia si sarebbe dovuta fermare «come segno di Rivoluzione contro il sistema». Una scadenza indetta da un Movimento dei Forconi preoccupato esclusivamente per i redditi calanti di «famiglie e imprese» e davanti cui persino i massacratori celerini si son tolti il casco in segno di rispetto. Quel giorno le manifestazioni, i blocchi, gli scontri persino, non hanno turbato solo l'ordine delle piazze ma anche le coscienze di molti sovversivi, aprendo alcune discussioni tuttora in corso fra favorevoli e contrari ad imbracciare – se non proprio abbracciare – lo strumento notoriamente usato per spalare letame.

Ma anche l'indomani, 10 dicembre, rappresentava a modo suo una data importante. Ricorreva infatti il 500° anniversario della redazione de Il Principe di Niccolò Machiavelli, opera celebre perché affronta un classico della filosofia politica – la questione del rapporto fra politica ed etica. In un passo divenuto celebre, l'ex segretario della Repubblica fiorentina spiegava i motivi per cui «è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità». Sebbene le interpretazioni del libretto di Machiavelli accumulatesi nel corso degli anni appaiano talvolta divergenti, di fatto viene considerato all'origine del pragmatismo politico, cioè di quell'agire basato più su questioni pratiche che su princìpi etici o ideali.
Ebbene, dopo cinque secoli di storia, Machiavelli ne esce fresco come una rosa sulla punta degli attuali rebbi. Il Principe non deve farsi trattenere dai princìpi, deve saper sporcarsi le mani. È questo il parere degli aspiranti consiglieri di Stato e di contro-Stato. Va da sé che, volendo rimanere nel solo letamaio di sinistra, l'odierno diverbio sarebbe facilmente risolto. Perché è evidente la povertà delle argomentazioni usate da chi in passato non si è fatto scrupolo nel diventare consigliere di una ministra per bacchettare chi oggi vorrebbe dare consigli a camionisti e piccoli imprenditori. Più che un dibattito critico fra prospettive opposte, a noi sembra più una disputa su chi sia il più realista del reame: è meglio porgere i propri occhiali a chi sta nel Palazzo ma in odore di sinistra o a chi sta nella Piazza ma in fetore di destra?
Come abbiamo già avuto modo di dire, una simile diatriba non suscita in noi particolare entusiasmo, giacché entrambe le parti partono dal medesimo presupposto: il predominio della politica sull'etica. Anch'esse, come già Machiavelli, operano un rigido dualismo fra la «città celeste» dell'etica e la «città terrena» della politica, nella certezza che ciò che è giusto esista in un assoluto fuori dalla storia, poiché non è e non si può realizzare in questo mondo dove predomina il relativo, il contingente, il corruttibile. Questo mondo che è il regno della merda. Non a caso, «E chissà quanta altra merda vedremo, con l’intensificarsi della crisi. Benvenuti nel deserto del reale! Ma è qui, in questo deserto, che dobbiamo organizzarci» è la constatazione che qualche attuale aspirante consigliere del contro-Stato andato sul terreno a fare «inchiesta militante» sbatte in faccia a qualche altro aspirante consigliere del contro-Stato rimasto alla larga.
Mmm... la merda, la merda dei rapporti umani reali, quella che va spalata con i forconi e che sporca inevitabilmente le mani... Si tratta di una metafora purtroppo cara anche a molti nemici di ogni autorità, i quali la usano ogniqualvolta devono giustificare il motivo per cui fanno il contrario di quanto affermano. Ma chi e cosa ci ricordano questa metafora? Ecco, ci siamo! Ma il buon vecchio Jean-Paul Sartre! Proprio lui, che ha dato il titolo «le mani sporche» ad un'opera teatrale del 1948. In essa cosa diceva Hoederer, il capo rivoluzionario in cerca di un realistico accordo coi suoi nemici, al giovane Hugo? «Come tieni alla tua purezza, ragazzo! Come hai paura di sporcarti le mani. Ebbene, resta puro! A che cosa servirà e perché vieni tra noi? La purezza è un'ideale da fachiri, da monaci. Voialtri, intellettuali, anarchici borghesi, vi trovate la scusa per non far nulla, restate immobili, stringete i gomiti al corpo, portate i guanti. Io, le mani, le ho sporche. Fino ai gomiti. Le ho affondate nella merda e nel sangue. E del resto? Credi proprio che si possa governare innocentemente?».
Il personaggio di Sartre si poneva la stessa domanda di Machiavelli e, in fondo, si dava la medesima risposta. Politico è colui che accetta realisticamente il fatto che fare la cosa efficace non sempre è sinonimo di fare la cosa giusta. E che ciononostante non si tira indietro. Crediamo proprio che si possa fare la rivoluzione innocentemente? No? E allora tanto vale afferrare un forcone ed iniziare a indugiare nella merda, dalla Val Susa a Niscemi passando per Roma. E chi rifiuta di sporcarsi le mani lo fa solo per preservare la propria «purezza» ideologica, misera scusa per non fare nulla e restare nell'immobilismo.
Quante volte lo abbiamo sentito dire? Quante volte lo sentiremo dire?
Secondo Machiavelli bisogna spostare l’attenzione dal cielo limpido dell'idea alla terra fangosa del fatto, nella convinzione che il bene comune possa essere realizzato qui, in questo mondo, in questa vita. Per chi crede nella «città celeste» i fatti di questo mondo, in sé relativi e contingenti, non possono in alcun modo fornire il modello dei propri valori. Un comportamento etico è indipendente dagli effetti positivi o negativi che seguono nella realtà pratica. In questa prospettiva, ciò che conta non è tanto il risultato quanto la tensione.
A Machiavelli ed ai suoi nipotini questo altrove non interessa, puzza di religione. Loro sono mondani, sono concreti. Mettono da parte ogni preoccupazione per la «città celeste» della trascendenza, sostituendola con la «città terrena» dell'immanenza. Il sommo bene si identifica per loro con la salute della (libera) repubblica. Se in questo mondo può realizzarsi la realtà del bene comune, bisogna dedicare allora tutte le energie al buon successo di questo fine. Ma ciò significa spostare il metro di valutazione dell'agire, passando dalla tensione al risultato. Tutti protesi all’avvento del bene comune in terra, al cui successo occorre tutto subordinare. È l’urgenza di veder realizzato il loro ideale nel mondo che porta l'antico segretario fiorentino e molti attuali sovversivi a valutare l’azione umana in funzione del risultato. Il solo dovere è realizzare il bene comune nel mondo, non fuori dal mondo: con tutti i mezzi, anche con quelli «cattivi».
Sì, perché nella misura in cui servono a promuovere il bene comune in terra, i mezzi cattivi vengono trasvalutati. Questo atteggiamento viene sintetizzato nella celebre formula del «fine che giustifica i mezzi» (secondo l'Hoederer sartriano, «Tutti i mezzi sono buoni, quando sono efficaci»). Per realizzare un fine buono si può ricorrere anche a mezzi cattivi. I malvagi non si possono sgominare con una rosa: se si vuole veramente toglierli di mezzo, occorre combatterli usando le loro stesse armi, senza esclusione di colpi. «O si accetta questa logica o si resta impotenti di fronte alla spregiudicatezza dei furfanti e si è responsabili del loro trionfo. Chi ha paura di sporcarsi le mani, lascia sporcare il mondo», annotava uno studioso (per altro fascista) del segretario di Stato fiorentino.
Questa ferrea logica ha da sempre fatto breccia nella testa dei sovversivi autoritari, immancabilmente pronti a farsela con ministri, parlamentari, magistrati, imprenditori ed altri furfanti se le dinamiche delle lotte reali lo richiedono (è così che si dice, vero?). Ma purtroppo essa ha trovato posto anche nel cuore di molti anti-autoritari.
Se in passato l'esempio più celebre e imbarazzante è dato da un Juan Garcia Oliver, che da bandito anarchico è diventato ministro della giustizia della rivoluzione spagnola del 1936, nel presente la si ritrova in chi la mescola alla sua variante moralizzatrice trasmessa da certi preti di sinistra. Fra anarchici – storicamente più attenti alla coerenza tra mezzi e fini – è meglio evocare l'impegno attivista a fin di bene rispetto ad una ragion di Stato sinonimo di male. Il riferimento (inconscio) è quindi più vicino ad un don Primo Mazzolari, o ad un don Milani, che si chiedevano: «A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca?». Per non parlare di chi, premuroso di ottenere consenso dando risposta a strazianti bisogni collettivi, si ritrova a ripetere quanto già sostenuto dal fondatore della Caritas Diocesana di Roma Luigi Di Liegro: «Non si può amare a distanza restando fuori dalla mischia, senza sporcarsi le mani, ma soprattutto non si può amare senza condividere». Qui, come si vede, si ostenta un nobile darsi da fare ad un pragmatico cinismo.
È significativo il fatto che alle Mani sporche dello stalinista Jean-Paul Sartre abbia risposto all'epoca il libertario Albert Camus con I giusti (1950). Quest'opera teatrale, ambientata nella rivoluzione russa del 1905, narra il tormento etico di Kaliayev che rinuncia ad attentare alla vita del granduca Sergio, come stabilito con altri compagni, per non coinvolgere due bambini presenti. Dopo aspre discussioni, l'azione verrà ritentata e compiuta in condizioni più ottimali dallo stesso Kaliayev a cui, una volta arrestato, verrà proposto di aver salva la vita in cambio di una delazione. Kaliayev rifiuterà e salirà sul patibolo. «Noi non siamo di questo mondo, noi siamo dei giusti».
Comodamente sospeso a metà fra becero opportunismo politico e nobile impegno altruistico, il concetto di sporcarsi le mani cova nella sua ambivalenza una pura menzogna e si rivela una autentica cartina tornasole. La menzogna, ricorrente in bocca a personaggi di partito, è quella secondo cui non è possibile agire senza venir meno (prima o poi) ai propri valori. Questa menzogna politica viene ripresa e ripulita dagli uomini di Chiesa, che vorrebbero farla diventare una verità attivista. Per questo motivo basta udirla per riconoscerli, gli uni o gli altri. Ma l'acqua delle pie aspirazioni non riesce a purificare del tutto il liquame delle grette ambizioni. Contro una ambivalenza che è ipocrita ambiguità, meglio ricordare che di fatto l'immobilismo caratterizza chi rifiuta di agire, non chi cerca di agire a modo proprio. Non esiste nessun predominio della politica sull'etica, o viceversa. Esistono scelte individuali – nonostante le apparenze, lo sono anche quelle che per farsi forza si travestono da strategie collettive – che denotano l'orizzonte verso cui si tende.
Perché la scelta di campo non è affatto sinonimo di scelta di letamaio. Nel corso della rivoluzione spagnola sia un Jaime Balius che un Juan Gracia Oliver hanno agito e quindi, in senso attivista, si sono sporcati le mani. Oltre che con il sangue dei fascisti, con quello degli stalinisti il primo, con l'inchiostro dei decreti ministeriali il secondo. Il primo ha messo in atto le proprie idee contro l'autorità, il secondo le ha rinnegate. Il primo ha cercato di materializzare la propria teoria brandendo il drappo nero delle cattive passioni, il secondo ha cercato di idealizzare la propria pratica indossando i guanti bianchi delle buone intenzioni.
Inutile affannarsi a tirare in ballo le contraddizioni della vita reale. Non confondiamo incidenti di percorso con scelte deliberate. Scivolare sulla merda, capita. Rigirarsi dentro no, a meno che non si decida espressamente di farlo.
 
[10/1/14]