Contropelo

Marx e lo Stato

André Prudhommeaux
 
La concezione marxista dello Stato, per il suo fondamento d'osservazione e per le idee che accoglie, appartiene ad un momento storico e ad un dominio geografico ben determinato: l'Inghilterra del XIX secolo.
Per spiegare e chiarire le lotte politiche che Marx, emigrato a Londra, aveva sotto gli occhi (lotte tra proprietari terrieri e capitalisti, o capitalisti ed operai; pro o contro il suffragio universale, o le tariffe doganali sul grano) questa teoria poteva anche essere sufficiente. Poteva, in una certa misura, applicarsi alla monarchia censitaire di Luigi Filippo, ma non all'analisi delle grandi rivoluzioni e contro-rivoluzioni francesi del 1489-1815, analisi che Marx non ha mai tentato.
Quanto alla descrizione dei rapporti di potere in seno alla Francia del Secondo Impero, della Germania di Bismarck, e della Russia Zarista, in Marx non era che frammentaria e in completa contraddizione con la sua teoria centrale. Lo stesso è per l'interpretazione – molto meno marxista che bakuninista – che Marx ha dato della Comune, come forma di organizzazione rivoluzionaria.
Il marxismo ignora le società contadine, feudali, monarchiche, teocratiche, schiaviste, ecc.; almeno la loro descrizione scientifica non ha niente in comune con le logomachie marxiste che qualche volta hanno tentato di attribuire loro. Oggi lo Stato totalitario moderno – figlio del Marxismo – in quanto movimento religioso irrazionale – sfugge totalmente all'analisi del marxismo come strumento di conoscenza. Per comprendere qualche cosa del mondo politico in cui viviamo, la sua teoria ufficiale, imprestata per il 90 per cento dal marxismo, è assolutamente inefficace. La critica di questo mondo politico non può essere presa che dall'elemento della società che è in contrasto con esso e in rivolta cosciente contro di esso: cioè dalla teoria anarchica dello Stato.
Queste conclusioni escono chiare dalla lettura di un libro pubblicato recentemente in Francia, «La tragedia del marxismo» di Michel Collinet. L'autore è uno storico avveduto, militante comunista e socialista per venticinque anni, e al quale la guerra di Spagna – tra l'altro – ha aperto gli occhi. Riscoprendo Proudhon e Bakunin, questo profondo conoscitore dell'opera di Marx ha trovato risposta ai problemi di oggi e lo spietato volume che egli consacra a liquidare le illusioni del suo passato, nell'età dei suoi primi capelli bianchi, è un atto di coraggio e di dirittura intellettuale, di cui bisogna apprezzare tutto il valore. Noi anarchici abbiamo da imparare molto da simili conversazioni, e ciò per una ragione troppo mal conosciuta nei nostri ambienti: molto spesso, anche noi dobbiamo riscoprire l'anarchismo, ed in particolar modo la teoria anarchica dello Stato.
La quasi liquidazione dell'anarchismo nel sindacalismo rivoluzionario, al principio del XX secolo, ha spezzato le tradizioni più solide del pensiero proudhoniano e bakuninista; ha sostituito questo pensiero con un «economicismo» a buon mercato che non era altro che un marxismo ignorante di se stesso, imbastardito e volgarizzato all'estremo (1) per reazione contro una filosofia concreta della rivoluzione. Da allora quello che fu offerto sotto il nome di anarchismo, dagli eroi della tribuna, dai dialettici delle riunioni pubbliche, non era che l'ombra del grande pensiero vivo dei primi internazionalisti.
Purtroppo questa semplificazione operaiolaista, capace di ispirare delle lotte violente, ma non di apportare una chiarezza qualsiasi nei cervelli, è ancora diffusa nei nostri ambienti. Ed è solo da poco che si è prospettato un ritorno alle veri sorgenti della concezione anarchica dello Stato.
Questa concezione illumina la nostra situazione con una chiarezza quasi insostenibile; chiarisce tutti i precedenti storici attraverso i tempi, e tutte le analogie scientifiche nello spazio, in un modo potentemente rivelatore. Essa è veramente la filosofia della nostra epoca e dell'insieme del divenire umano vista attraverso questa epoca.
Con un solo colpo essa riduce allo stato d'incidente, di episodio eccezionale, il capitolo della storia umana, che è servita da punto di partenza a tutte le teorie storiche-politiche del marxismo. Ma è proprio là che interviene, dopo la tragedia del marxismo, il dramma dell'anarchia. Perché sono finite le illusioni ottimiste concernenti il progresso necessario, immanente, inevitabile delle forze della libertà! Lo stesso liberalismo borghese, con la sua fede nell'iniziativa individuale e nella proprietà individuale, sembra un fragile feto alla deriva, in un processo di alienazione generale, di centralizzazione, e di mistificazione religiosa, in cui l'umanità si dibatte da secoli e che tende alla definitiva abdicazione umana!
Il marxismo mentre costruiva un mondo di schiavi conservava la fede nel carattere transitorio di ogni imposizione e pretendeva ciecamente «seguire le vie della storia verso la libertà» (2). L'anarchismo sotto la sua forma rinnovata, non alimenta nessuna illusione del genere a proposito dell'evoluzione generale attuale. Sa che la grande svolta è da farsi; sa che la corrente umana, da cento anni, si precipita verso la servitù di Stato con tutto il peso di una forza elementare, secondo la legge della maggiore pendenza. Sa, pure, che la Rivoluzione è, per ogni uomo, come per ogni collettività, la scelta della soluzione più pericolosa e più difficile; quella che implica il più grande sforzo e che ha sotto un punto di vista strettamente determinista meno probabilità di realizzarsi.
Esiste un punto morto davanti al quale si fermano parecchi spiriti «emancipati». Si fermano inerti di fronte alla situazione resa chiara dall'analisi anarchica. Si accontentano dell'atteggiamento disperatamente contemplativo del moralista, o della spensieratezza semi-cinica di chi sa sbrogliarsi! E credono d'incarnare la filosofia dell'ora! In realtà sono rimasti a mezzo cammino nell'abbandono della teoria marxista in fallimento. Hanno conservato il fatalismo storico. Essere fatalisti significa attribuire necessariamente allo sforzo umano quel carattere perverso (nocivo a se stesso) che riconosciamo alla servitù volontaria dell'uomo davanti allo Stato – mentre questa servitù volontaria, visto la bivalenza essenziale dei rapporti effettivi, può anche cambiarsi in rivolta volontaria, non solamente in qualche uomo, ma in tutti. Credere che la storia lavori necessariamente contro l'uomo, dopo aver creduto che lavorava per l'uomo – è fare un atto di religione verso una potenza sociale extra-umana che nega ed annienta la possibilità di farsi una coscienza anarchica.
Secondo Marx giovane hegeliano (L'ideologia tedesca, 1845-1846) l'esistenza dello Stato è un «triplice» risultato della divisione del lavoro. Economicamente, la divisione del lavoro subordina gli individui produttori ad un insieme più vasto e che a ciascuno di essi appare come una realtà o autorità estranea. Socialmente, la divisione del lavoro genera l'esistenza delle classi che s'impongono a ciascuno individuo come «condizioni d'esistenza predestinate». Politicamente, infine, la divisione del lavoro suscita la contraddizione di interessi particolari e collettivi alla quale deve rimediare l'illusione dell'«interesse comune». Da cui lo Stato:
«L'interesse comune prende come Stato una forma indipendente, distinta degli interessi particolari e collettivi, in quanto che comunità illusoria».
Non si può dunque, secondo Marx, abolire lo Stato senza rinunciare dapprima alla divisione del lavoro sociale, base dell'esistenza delle classi.
Come abbiamo visto, lo Stato per Marx risulta dal carattere pluralista della società, dalla diversità dei compiti produttivi e delle sorgenti di consumo che vi si presentano, e, per conseguenza, dagli antagonismi tra gli interessi economici coscienti degli individui e delle classi.
La società così divisa è definita da Marx borghese e lo Stato non è per lui nient'altro che «la forma d'organizzazione che i borghesi si danno all'esterno e all'interno in vista della garanzia reciproca delle loro proprietà e dei loro interessi».
Lo Stato dunque non è «nient'altro» che il sistema capitalista moderno, nell'Inghilterra del 1848.
Il giovane Marx non si cura di quello che può essere lo Stato dei faraoni o degli incas, lo Stato greco e romano, lo Stato ebreo, calvinista o gesuita, lo Stato delle grandi monarchie storiche, lo Stato giacobino o napoleonico, ecc.
Nella società non vede che rapporti di interessi economici, che forme di imprese più o meno rimuneratrici, ed al fattore utilitario ne ricava la struttura sociale. Le classi più produttive dominano le altre dall'alto della loro tecnica superiore e l'insieme non ha altra misura comune che lo scambio o il danaro.
A questo proposito Collinet nota molto giustamente che il manifesto Comunista non contiene nessuna analisi seria della nozione di Stato. Vi è detto semplicemente, ad un certo punto, che «il governo moderno non è che una delegazione che gestisce gli affari comuni di tutta la classe borghese».
Collinet constata: «Cosa curiosa, lo Stato è ridotto qui al solo governo, e questo invece di governare... gli uomini, è promosso da Marx al rango di amministratore degli affari comuni. L'espressione è così vaga da chiederci se Marx ha ripreso volutamente dai saint-simonisti ciò che rappresentava per essi non il termine iniziale ma quello finale dell'evoluzione del sistema industriale: l'amministrazione delle cose al posto del governo!» (3).
In realtà Collinet considera come ipotesi più probabile che Marx abbia adottato semplicemente l'altra grande concezione utopista borghese: quella del governo minimo, del governo a buon mercato, dello Stato gendarme, del quale «settant'anni prima Adam Smith limitava il ruolo a quello di garante dei contrasti tra particolari (al che, per un liberale perfetto si riducevano, senza dubbio, gli «affari comuni» della classe borghese!» (4)
«L'insufficienza dello schema espresso dal manifesto è evidente» dice Collinet, «se ci si riferisce al colpo di Stato per mezzo del quale si terminò la crisi del 1848. Ed anche nel 1856 la scoperta essenziale che gli avvenimenti del 1851 provocano nella sociologia di Marx, è che la dominazione economica e la dominazione politica di una classe non coincidono esattamente». Questa era una distinzione di Proudhon (5) che aveva perfettamente compreso che la borghesia non può e non vuole mai, in quanto classe economica occupata d'interessi profani, essere politicamente dominante. La sua preoccupazione è, sia di minimizzare i poteri dello Stato quando si sente minacciata da esso, sia di rinforzarlo per mettere al riparo dietro di esso la sua irresponsabilità politica, in caso di gravi crisi sociali; essa può influenzare i poteri dello stato, minarlo o corromperlo, può adorarlo in un Napoleone, subirlo in un Robespierre, identificarlo in se stessa con un Luigi Filippo, ma non può identificarsi con esso.
Sotto l'influenza dei fatti, Marx ammette «l'indipendenza dello Stato bonapartista» che ha in comune con la borghesia, classe economicamente dominante, una certa «maniera comune di pensare» – la paura. Mentre lo Stato si atteggia a «benefattore patriarcale di tutte le classi» costituisce effettivamente «uno spaventoso corpo parassita che ricopre come di una membrana il corpo della società e ne tura i pori» (6).
Ma questa dominazione dello Stato sulla borghesia, secondo Marx, è la borghesia che l'ha voluto. «È essa che si era indignata della lotta – puramente parlamentare e letteraria – condotta in favore della dominazione della sua stessa classe e che aveva tradito i capi di questa lotta; è essa che sacrificava il suo stesso interesse generale di classe, il suo interesse politico, ai suoi interessi più ristretti e più disonesti»; è essa, infine, che per mezzo dell'organo del partito parlamentare dell'Ordine, «aveva dichiarato la dominazione politica della borghesia incompatibile con la sicurezza e l'esistenza della borghesia, distruggendo con le sue proprie mani, nella lotta contro le altre classi della società, tutte le condizioni del suo regime, del regime parlamentare» (7). Mentre Marx le fa un rimprovero violento per la sua vigliaccheria.
Che cosa resta della teoria del governo di classe? Poca cosa. ma che cosa Marx ha edificato per rimpiazzarla? Niente. ossia, nient'altro che un mito, secondo cui la borghesia, presa dal panico, volontariamente si sarebbe castrata politicamente, conducendo la lotta «contro le altre classi, per l'abolizione del suo stesso potere» (sic).
Perché non ammettere piuttosto che non c'è e che non c'è mai stato un potere di classe e che Bonaparte «sentinella dell'ordine» aveva su Thiers e Berryer «anarchici» borghesi – secondo L'Economiste del 29 novembre 1851 (8) – la superiorità di aver compreso questa fondamentale verità sociologica?
La teoria di Marx sullo Stato, scossa profondamente il 18 Brumaio, doveva morire sotto i colpi del fascismo leninista mussoliniano e hitleriano. Tuttavia recentemente un conferenziere anarchico parigino, infarcito ancora della scolastica di classe di cui il movimento operaio ha subito l'impronta, definiva il fascismo come l'avvenimento politico del grande capitale, ispirandosi ad un libro trotskista su questo soggetto (9). Tant'è la persistenza dell'errore commesso nel 1846 da un uomo giovane che non conosceva la società che attraverso i libri, e del quale, in cent'anni, si è fatto l'idolo e l'oracolo degli aspiranti al quarto Stato.
Gli scritti della vecchiaia di Marx e di Engels non offrono che dei tentativi insufficienti di riconciliare la teoria del Manifesto con quella del 18 Brumaio.
Nel 1881 Engels, in un libro specialmente consacrato al problema dello Stato (10) ritorna alla teoria dello Stato nato dalla divisione del lavoro con l'apparizione delle classi (cacciatori, pastori, lavoratori, ecc.). Afferma vagamente che la classe più progredita diventa, generalmente, sfruttatrice e di conseguenza, generalmente, politicamente dominante, senza spiegare in modo più concreto la legge formulata, né le sue eccezioni.
Non si «spiega» l'antagonismo essenziale della società civile e dello Stato scrivendo, per esempio, che «la borghesia ha preferito comperare la sua emancipazione sociale graduale al prezzo di una rinuncia immediata del suo potere politico» (11) o che «lo Stato è un potere proveniente dalla società, ma che vuol situarsi al di sopra di essa, liberandosene di più in più» (12).
Ciò che manca alla teoria marxista dello stato è, evidentemente, un'analisi psicologica dell'autorità, senza la quale è impossibile comprendere il processo di formazione delle caste, il carattere religioso del potere politico, e la natura dei suoi rapporti con la società «laica» o «profana» dei semplici interessi umani.
Lo Stato, lungi dal costituire un «apparato» al servizio della società di classi è, invece, una istanza sacra che si serve della società e dell'uomo individuo, come un apparato di esecuzione, imperfetto, sterile passivo e si arroga su essi tutti i diritti.
Non serve a niente ricondurre lo Stato – emergenza sociale di ciò che è sacro – alla nozione estremamente vaga, di classe o di professione burocratica avente degli interessi profani particolari.
«La gente che vi è nominata – scrive Engels – costituisce un nuovo ramo della divisione del lavoro in seno alla società: Acquista così degli interessi distinti, degli interessi dei suoi mandatari: si rende indipendente nei loro riguardi, ed ecco lo Stato» (13).
Se quella è l'ultima parola del marxismo non è neppure la prima parola dell'anarchismo così, come vedremo, in una rapida esegesi delle affermazioni essenziali del pensiero libertario.
 
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(1) Vedere, per esempio, la diatriba di Monatte contro Malatesta al Congresso Anarchico Internazionale d'Amsterdam (agosto 1907)
(2) Questa fede, o piuttosto questa illusione, esiste ancora se non nell'apparato staliniano, almeno nei circoli esterni al partito e nelle opposizioni più o meno libertarie, luxemburghiste
(3) La tragedie du Marxisme
(4) La tragedie...
(5) P.F. Proudhon, L'idea generale della rivoluzione nel XIX secolo
(6) K. Marx, Il diciotto Brumaio di Luigi Napoleone Bonaparte
(7) K. Marx, Il diciotto Brumaio...
(8) K. Marx, Il diciotto Brumaio...
(9) D. Guérin, Fascismo e grande capitale
(10) Engels, Origine della famiglia, della proprietà e dello Stato
(11) Engels, Introduzione alla guerra dei contadini
(12) Engels, Origine della famiglia, della proprietà e dello Stato
(13) Engels, Lettera a Conrad Schmidt (1890)