Brulotti

Solo una triste necessità?

Vernon Richards-Ugo Fedeli
 
Riproponiamo una discussione vecchia di sessant'anni, ma purtroppo sempre giovane, il cui titolo originario era La guerra e gli anarchici. Vecchia nel suo oggetto, non certo nelle sue argomentazioni. Se la necessità pratica di fermare il nemico spinge ormai solo i partiti di sinistra a giustificare i bombardamenti, questa stessa necessità pratica viene puntualmente invocata per giustificare ogni abbandono (momentaneo e tattico, naturalmente) dei propri principi di fondo. Concessione che, passo dopo passo, diventa un abito mentale, una abitudine, un metodo, in grado di giustificare qualsiasi cosa. Una volta accettato il contrasto tra fine da raggiungere e mezzi da impiegare, tutto diventa possibile. Anche un sincero e benintenzionato sostegno alla guerra, appunto.
Per la cronaca, ricordiamo che nel 1933 Rudolf Rocker – la cui posizione durante la seconda guerra mondiale servì da pretesto a questa discussione – condannò duramente l'incendio del Reichstag ad opera di Marinus Van der Lubbe, a cui imputò la disfatta del proletariato tedesco, e teorizzò per il movimento la ritirata provvisoria in attesa dell'imminente (?) caduta di Hitler.
 
 
Libertarian [Vernon Richards]
 
Nella quinta puntata del suo studio su Rudolf Rocker, La sua opera e il suo pensiero, Ugo Fedeli traccia, sull'atteggiamento del Rocker di fronte all'ultima guerra, un quadro che non può passare inosservato.
Egli tenta l'impossibile: cioè di riconciliare il consenso di Rocker alla seconda guerra mondiale con la dichiarata sua lunga vita di «atteggiamento antimilitaristico»; di riconciliare la sua spiegazione che «nessuna guerra fu capace fino ad oggi di risolvere problemi d'importanza decisiva, bensì furono sempre causa di nuove complicazioni e frequentemente di catastrofi anche maggiori» con la sua opinione che «ritenevo necessario che [la guerra all'hitlerismo] fosse portata a fondo». Una tale posizione è analoga a quella di quei pacifisti prebellici d'Inghilterra e di Francia che abbandonarono il loro pacifismo quando scoppiò la guerra! E dire francamente questo non significa "attaccare" il compagno Rocker o minimizzare il suo contributo alla lotta rivoluzionaria internazionale, come l'inequivocabile posizione di Rocker contro l'atteggiamento pro-guerra di Kropotkin nel 1914 non significava un attacco all'immenso contributo di Kropotkin al pensiero anarchico.
Dire come fa Fedeli che «la posizione del Rocker era chiara e precisa» è semplicemente errato. Quando Kropotkin diede il suo consenso alla prima guerra mondiale, parlò di più grandi e migliori cannoni e si rammaricava di essere troppo vecchio per potersi unire ai soldati sulla linea del fronte. Ma Rocker che sostenne una guerra in difesa della «civiltà e della cultura», secondo Fedeli, esorta nello stesso tempo i lavoratori a rifiutarsi di prendere le armi! Non so quale esattamente sia l'attuale posizione del Rocker, ma se, come Fedeli scrive: «tutta la sua opera è rimasta lineare e conseguente», allora logicamente Rocker appoggerebbe con tutto il cuore lo sviluppo delle armi atomiche e della bomba all'idrogeno, in quanto servono a difendere quei valori che, secondo lui, giustificavano «la guerra all'hitlerismo» nel 1939, contro ogni possibile nuovo attacco delle potenze dell'altro lato della Cortina di ferro. Tuttavia in un articolo sulla Responsabilidad del Proletariado ante la Guerra (Cenit, dicembre 1952) egli fa ancora appello ai lavoratori perché smettano di fare cannoni. E se i lavoratori delle cosiddette democrazie seguissero il suo consiglio mentre quelli dei paesi totalitari non lo facessero? Che cosa avverrebbe? Lungi dal credere che il pensiero del Rocker sia «chiaro e preciso» o «conseguente» direi che nella terminologia orwelliana sarebbe classificato come bispensiero.
Un'ulteriore illustrazione di questa confusione si può trovare nel numero di Volontà citato dove a pag. 120 I. Gonzales, riferendosi ad un atteggiamento della mentalità ancora prevalente nel movimento anarchico, dice che Rocker l'ha chiamata «maledizione del praticismo», mentre a pag. 118 Fedeli rimanda all'opuscolo di Rocker Zur Betrachtung der Large in Deutschland che sottolinea «le ultime posizioni del Rocker, tendenti a richiamare tutti alla necessità di dedicarsi a qualche cosa di pratico e di immediatamente realizzabile».
Quali siano i propositi del Rocker, Fedeli non lo dice ma non sappiamo se egli ne parlerà in una puntata seguente; intanto è importante che il perno dei suoi propositi sia conosciuto perché egli, in quest'opuscolo, accentua l'importanza dei consigli locali (Gemeinden) che, secondo quello che egli afferma, non sono quasi più dominati dallo Stato centralizzato, e la necessità per gli anarchici di giocarvi la loro parte così come nel Movimento cooperativo, le Organizzazioni sindacali ecc. Egli dichiara, infatti, che «come movimento noi dobbiamo cercare un'Anchluss ovunque possiamo trovarla...».
Per alcuni compagni le vedute espresse in quest'opuscolo sono lontane dall'essere un esempio della sua «opera lineare e conseguente». Infatti un militante del movimento anarchico e del movimento rivoluzionario sindacalista di Germania, Willy Fritzenkotter, le ha esposte in questi termini: «I miei amici ed io stesso vediamo nell'opuscolo che Rocker intende aiutarci, e noi lo ringraziamo molto per la sua buona volontà, ma rifiutiamo il suo opuscolo dal principio alla fine. Se seguissimo il suo consiglio e le opinioni espresse nell'opuscolo, sarebbe la nostra liquidazione, almeno per il presente. È un enigma che un uomo con una così grande esperienza, come quella del Rocker, possa darci un consiglio simile e abbia espresso simili opinioni. Se noi lo seguissimo, una parte della sua stessa opera perseguita durante un'intera vita sarebbe annullata. Egli deve essere male informato. Quel che diceva dei comuni è tutto senza senso, a questo proposito non vi è stato cambiamento, perché avrebbe dovuto esserci un cambiamento? Rocker dovrebbe conoscere meglio i suoi avversari...
L'opuscolo del Rocker non ci farà mai del bene, ma ci ha recato già danno per le discussioni infuocate che ha provocato. Il mondo di oggi non ha tempo per le confusioni, e in questo paese meno che altrove» (lettera pubblicata su Freedom, 20 settembre 1947).
Ma lo scopo di queste mie note non è quello di lanciare un attacco personale a Rocker. Sono stato mosso a commentare l'interpretazione del compagno Fedeli sull'atteggiamento di Rocker dinanzi all'ultima guerra, perché forse può far meglio comprendere, penso, la reale crisi del movimento anarchico internazionale. Il che significa che la lotta è tra quel che è vero e quel che è conveniente, tra ciò che è morale e ciò che è realizzabile; tra ciò che è giusto e ciò che è una questione di convincimento ma, mi affretto ad aggiungere, senza per questo arrivare al cieco fanatismo di una religione. Ma si tratta del convincimento di menti aperte ad ogni argomento, che vogliono ascoltare tutti i punti di vista, che vivono nel mondo di oggi soggetti alle sue influenze, che gioiscono per ciò che è bene e soffrono per quel che è dannoso; che comprendono la condotta dell'uomo, che capiscono che nulla è assoluto.
Con tale approssimazione si vede che l'umanità è composta da individui ognuno con una personalità, con difetti e virtù, che all'occorrenza difenderanno la loro libertà ma che rispetteranno anche quella degli altri. «L'unità morale della comunità è stata sempre un pretesto per ogni dittatore dai giacobini a Hitler. La libertà genera il dissenso e il dissenso generale la libertà. Questa è la loro grande virtù» (Times Literary Supplement, 4 giugno 1954).
Questo ridurre l'umanità all'individuo non incoraggia, come qualcuno può credere, l'angusto egoistico accostamento ai problemi sociali. Vero sarebbe il caso contrario. Essere consci dell'unicità di ognuno è, al tempo stesso, essere consci della forza di ognuno e della pochezza di ognuno. Quando Rocker, ed altri intellettuali sparsi nel mondo, davano il loro consenso alla seconda guerra mondiale parlavano apertamente in nome dell'umanità e «della civiltà e della cultura». In realtà essi parlavano in nome dei loro valori personali, esprimevano le loro proprie personali paure e aspirazioni, dimentichi del fatto che la vasta maggioranza di milioni di persone era del tutto indifferente ai loro valori, alle loro paure e aspirazioni, perché molto più interessati al problema elementare dell'esistenza.
Io non nego la validità e la nobiltà dei valori del Rocker; sarò anzi così presuntuoso da dire che trovo che i suoi valori sono anche i miei. Perché se la scelta è il campo di concentramento, il lavoro forzato o il forno crematorio da una parte, e la guerra mondiale dall'altra, la mia ragione, guidata da quegli stessi valori che condivido con Rocker, sceglie quest'ultima (ciò che come individuo, tuttavia, farei di fronte a queste alternative non ha valore per questa discussione poiché se le mie azioni fossero in conflitto con la mia ragione, ciò rivelerebbe semplicemente la mia debolezza di carattere, una debolezza molto umana).
Cosa sono questi valori? Essi non si fondano sulla santità della vita umana, e riconosco anche che la mia invocazione alla rivoluzione sociale implica un'accettazione del fatto che essa può comprendere l'uso della violenza, per lo meno in difesa dei compiti della rivoluzione.
Essi si basano sul fondamentale diritto che l'individuo ha di determinare egli stesso le cause per cui vi parteciperà. Come anarchico non ho diritto di obbligare i miei compagni a combattere e morire per i valori per i quali mi batto io, per quanto validi e benefici possa crederli per l'umanità.
Indipendentemente che la guerra possa essere giustificata come arma valida nel perseguimento di valori positivi, io credo che gli anarchici devono rifiutarla recisamente, per il fatto che la guerra moderna può essere combattuta solo con coscritti. Forzare la gente a combattere per la libertà è, come Malatesta e molti altri anarchici hanno ben messo in chiaro, una contraddizione in termini. È la contraddizione degli anarchici spagnoli che nel 1936 rifiutarono di «imporre una dittatura anarchica» mentre parteciparono ad un governo che introduceva le coscrizione militare!
Io penso che noi dobbiamo anche riconoscere il fatto che come anarchici la nostra sfera di attività è necessariamente limitata, che soffriremmo più disfatte che vittorie, che il progresso sarà lento.
Infatti dipende dalla misura in cui le nostre idee vengono accettate o rifiutate dalla massa del popolo. Non si può sfuggire a ciò, perché se credessimo che come minoranza potessimo imporre le nostre idee alla maggioranza, raggiungeremmo questo scopo solo con l'uso della coercizione, proprio coi molti metodi che condanniamo nei partiti politici e nei governi, e così facendo ci confonderemmo con loro. Negheremmo e rifiuteremmo le basi su cui la filosofia anarchica è stata costruita.
Io credo che il nostro tempo (e quando dico questo sono conscio dell'espansione del totalitarismo e della minaccia della bomba all'idrogeno) lungi dall'essere tempo per compromessi, richiede, al contrario, intransigenza da parte degli anarchici e di tutti i rivoluzionari. Facciamo tutto quanto possiamo per rafforzare le nostre idee, per quanto piccola o apparentemente inefficace possa apparire quest'attività. Però, piuttosto che seguire i consigli disperati di Rocker e dei suoi amici, io preferirei il silenzio.
 
**
 
Ugo Fedeli
 
Per diverse  ragioni, che è superfluo qui ricordare, ho letto con molto ritardo l'articolo del compagno Richards su La guerra e gli anarchici, e quindi è anche con ritardo che posso rispondergli.
Conviene subito dire che, per un argomento dell'importanza di quello prospettato (la guerra e gli anarchici) e non per il suo lato polemico contro posizioni del passato, ma perché tende a fissare nuove posizioni di fronte agli avvenimenti che ci si possono presentare, non è certo una settimana o anche un mese di ritardo che può levare e interesse e importanza.
Il problema posto è troppo importante e grave perché possa perdere di attualità nel corso di un mese o anche due. L'essenziale mi pare invece sta nell'arrivare ad intavolare una vasta discussione che porti a chiarire veramente alcune prese di posizione ed atteggiamenti di fronte a questo problema.
Per bene mettere a fuoco le questione e quindi poterla esaminare con ampiezza sarebbe indispensabile chiarire alcuni punti, che non sono affatto secondari, se pure qualcuno sussidiario, e primo fra tutti – dopo un ampio esame della situazione politico-sociale attuale del mondo – tirare in chiaro se veramente un conflitto mondiale, nelle condizioni attuali, è inevitabile. È indubbiamente un vasto lavoro che non dovrebbe essere trattato o risolto seguendo i luoghi comuni, ma senza preoccupazioni preconcette bisognerebbe seguire il filo dei fatti e delle situazioni e, in base alle constatazioni, tirare una prima conclusione. Fissata come punto di partenza l'analisi della situazione odierna, si dovrebbe vedere quindi quali sono le forze politiche-sociali e quelle militari in presenza, che dovrebbero portare, non questa o quella nazione, ma l'umanità tutta, ad un nuovo conflitto, tenendo conto delle nuove condizioni e della potenza degli armamenti attuali. Perché sarà dalla conoscenza di questi elementi e dal gioco contrastante delle diverse forze che potremo determinare la nostra posizione e le possibilità di azione in una situazione catastrofica quale quella che uscirebbe da un nuovo conflitto mondiale.
Mi pare che così dovrebbe essere posta la discussione, se si intende invogliare chi ha delle idee da esporre a farlo, senza timori e senza preoccupazioni. Il pretendere di limitare a priori la discussione, per una ragione qualsiasi, significherebbe stroncarla, renderla inutile.
Anche se la situazione odierna è in continua evoluzione e tutte quelle che si vanno presentando sono estremamente fluide, è indispensabile fissarne il più chiaramente possibile una nostra. Però per una discussione del genere è indispensabile la libertà.
Or non è molto Rudolf Rocker mi scriveva, pieno di amarezza, commentando il mio studio sulla sua vita e il suo pensiero: «Una vera discussione sopra i grossi problemi del tempo è oggi quasi impossibile, perché quello che qui si chiama Mac Cartismo, anche da noi ha trovato una larga diffusione. È sufficiente chiamare “revisionista” o “riformista” o anche peggio, un uomo, per risparmiarsi qualsiasi altro argomento. Questo è evidentemente troppo comodo». C'è indubbiamente molta amarezza, per l'intolleranza di qualcuno, nelle parole di Rocker, ma purtroppo contiene una parte di verità. C'è tra di noi un'intolleranza che viene forse dalla passionalità che si porta in tutte le cose, riguardanti soprattutto le nostre idee, ma è un male che si può e dobbiamo eliminare, se vogliamo far scaturire veramente qualche cosa di utile dalle discussioni intraprese.
Fatto questo preambolo, che mira più che altro ad eccitare una approfondita discussione su un argomento già abbordato qua e là da molti ma non ancora portato a fondo, devo dire che la ragione che ha mosso il Richards a scrivere, è un'altra. Egli voleva dimostrare, tenendo presente che il Rocker di fronte alla lotta contro l'hitlerismo aveva affermato ripetutamente che era necessario portare a fondo tale lotta, che era sbagliato da parte mia, o almeno esagerato, affermare che la «posizione del Rocker era chiara e precisa».
Anche se qui è solo indirettamente che vi entra il problema degli anarchici di fronte alla guerra – per spiegare tutto bene è necessario prendere il discorso un po' più per le lunghe. Per il Rocker, come per ogni scrittore che ha scritto molto e nelle più svariate condizioni ed occasioni, per comprenderlo bene bisogna rifarsi a tutta l'evoluzione del suo pensiero e mai attenersi ad un attimo o ad una espressione soli di esso.
Rudolf Rocker fu sempre – e qui veramente c'è stata chiarezza e precisione – per la partecipazione a tutte le lotte del popolo, anche quelle tese alla conquista dei «semplici miglioramenti di paga» e non poca della sua attività, soprattutto in Germania nel primo immediato dopoguerra, mirava a convincere molti anarchici che era un male trascurare la lotta per la soluzione dei problemi quotidiani presi com'erano dalla lotta per il «tutto», e che in definitiva il «tutto» lo si conquista solo se si è riusciti a conquistare il «particolare» e il dettaglio. Ed egli sostenne sempre che questa lotta minuta che si svolge nei campi più svariati è essenziale alla vita ed al miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici, e quindi è una leva necessaria per il progresso delle lotte a venire che devono portare verso la realizzazione dell'ideale.
Un suo libretto, sul quale mi sono abbastanza soffermato e di cui ho sottolineata l'importanza, segna l'inizio di una direzione di lotta, se non nuova, certamente diversa da quella che alcuni anarchici seguivano. Parlo dell'opuscolo Der Kampf ums Taegliche Brot (La lotta per il pane quotidiano), che è del 1925.
In questa opera egli si sofferma in modo tutto particolare sulla necessità di partecipare a quella lotta minuta di ogni giorno, così tanto e sempre trascurata. Alla lotta che ogni giorno le masse operaie devono svolgere per la conquista del loro pane, che sono «la leva necessaria per ogni progresso, il calore necessario, indispensabile per la maturazione delle masse lavoratrici alla rivoluzione sociale».
Ed allora od in quella occasione, criticando l'opera soprattutto della socialdemocrazia che aveva snaturato, colla sua politica, la rivoluzione in Germania, indicava che uno dei compiti della rivoluzione tedesca sarebbe stato quello di spezzare i grandi latifondi, fonti d'influenza politica e finanziaria degli Junker, veicolo della reazione prussiana e militarista. Certo che se uno giudica da un punto di vista generale della lotta per il tutto, avrebbe potuto affermare che è inutile sottolineare questo episodio della lotta, perché la lotta per il tutto implica la lotta per la parte.
Ma il Rocker sostiene che questa, e soprattutto la critica dell'azione dei socialdemocratici tedeschi, non era certamente posta come «fine ultimo» della lotta, ma solo come una di quelle fasi della vasta lotta quotidiana, che assicura col pane la libertà. E precisando ancora meglio il suo pensiero, il Rocker, nel medesimo libretto critica anche parte degli anarchici, ammonendoli che «uno dei mali più gravi, nei quali si dibatteva il movimento anarchico d'allora, risiedeva nella mentalità diffusa di elevare a principio l'abbandono completo di ogni lotta per il miglioramento economico e politico, ritenendo tali lotte, nel seno della società capitalista, completamente prive di efficacia, e che quindi, anche gli operai se ne dovessero completamente disinteressare». Diceva sempre, parlando della situazione e delle condizioni del 1925, che in quasi tutti gli ambienti di estrema sinistra non si faceva che parlare di «lotta per il tutto», e si considerava ogni partecipazione alle lotte per uno scopo pratico e immediato come una lotta di riformisti creante false speranze nelle masse che a poco a poco sarebbero andate dimenticando il loro scopo rivoluzionario ultimo. E subito rispondeva che tali obiezioni erano basate su due fondamentali errori. Primo, quello di ritenere che ogni miglioramento nella società attuale è opera contro-rivoluzionaria e che di conseguenza va scartato. Il secondo errore aveva le sue radici nella falsa concezione che ogni miglioramento nell'esistenza del proletariato nella società capitalista è impossibile, in quanto gli aumenti di paga trascinano inevitabilmente con loro un aumento dei prezzi, e che il capitalismo è obbligato dalle leggi stesse a mantenere la paga alla media della necessità della vita. E vi diceva ancora: «Vi sarebbe anche un terzo errore di non minore importanza, e cioè, la convinzione che nella miseria si irrobustisca lo spirito rivoluzionario». A questi errori, concludeva, che si poteva riparare con la lenta ma continua lotta di ogni giorno, quella stessa lotta che lentamente ma chiaramente ci ha fatto avanzare sulla via del progresso. Perché è il progresso che maggiormente ci fa lottare per nuovi ed ulteriori progressi sempre tesi verso lo scopo finale.
Questo argomento, che ogni miglioramento delle condizioni e dell'esistenza dei lavoratori rappresenta sempre un elemento di progresso, è ripreso ed affermato a più riprese nell'opera del Rocker, e non solo in quella degli anni del primo dopoguerra, ma in tutta la sua opera egli se ne è sempre preoccupato, e forse più che mai ha usato accenti molto vivi per ricordarla, quando la lotta per la libertà, la lotta dura, spaventevolmente dura contro l'hitlerismo si prospettava senza una vera soluzione, se non ci fosse stato un termine a tutto il fenomeno nazi-fascista. Perché anche in questo caso si ripetevano le medesime parole, si prospettavano le medesime lotte, si commettevano i soliti errori, e Rocker ribatteva nuovamente il suo punto di vista. Egli non si accontentava di sapere e di dire che lottando per l'anarchia si lotta automaticamente contro il fascismo, ma ripeteva che era necessario rimanere a fianco delle masse nella lotta quotidiana contro il nazismo, perché nessun'altra lotta era possibile, nessun progresso realizzabile, se innanzi tutto non si sgominerà l'hitlerismo, il totalitarismo. La lotta per il tutto è importante, ma non può essere possibile che come coronamento di tutta una serie di lotte parziali, e in quel momento quella che primeggiava e premeva su tutte era la lotta contro il fascismo e l'hitlerismo.
Si dirà, ma nel caso concreto della guerra, qual è stata la posizione del Rocker?
Mi permetto di stralciare da una sua lunga lettera, che segnò la ripresa delle nostre relazioni interrotte dal fascismo e dalla guerra, nella quale, rispondendo ad una mia domanda sul suo atteggiamento di fronte all'ultima guerra, mi rispondeva: «La mia posizione di fronte alla guerra era molto semplice, ed io mantengo ancora oggi questa posizione. La guerra era in atto e né noi né qualunque altra forza poteva ostacolarla. Appunto perché il caso portò la mia culla in Germania e io sapevo di preciso che gli assassini del terzo Reich avevano nella maniera più perfida provocata la guerra, mi auguravo di pieno cuore che i cannibali in camicia marrone fossero battuti. Non perché i rappresentanti delle democrazie mi fossero diventati più simpatici ma perché una vittoria di Hitler e dei suoi criminali avrebbe annientato fino all'ultimo tutti quei privilegiati che i popoli di Europa con fatica avevano conquistato negli ultimi duecento anni. Quello che perde la cognizione della proporzione fino al punto da gettare tutto in una pentola, non deve rimanere meravigliato se alla fine tutto il mondo si rivolge verso lo stato totalitario.
Nell'ultimo volume delle mie Erinnerungen (Memorie) ho esposto questo mio pensiero ampiamente più di quanto possa fare in qualche riga. Avrai la possibilità così di conoscere con precisione le mie idee. Quasi tutti i compagni tedeschi condividevano questa mia opinione, e ne sapevano il perché».
Bisognerebbe ora ritornare forse al mio preambolo, se si vuole riuscire ad intavolare una discussione che sia profittevole alla chiarezza e delle idee e delle posizioni nostre di fronte all'eventualità di un nuovo conflitto. Certo, innanzi tutto mi premeva dimostrare che le idee espresse dal Rocker, senza esagerare come fa in un punto del suo scritto il Richards, durante la lotta contro il nazismo non sono sorte e sviluppate in quella contingenza, o in quella contingenza si sono esasperate, ma erano sue da lungo tempo e le aveva già esposte molte volte. Esse tendevano a presentare o a dibattere una questione che si è presentata moltissime volte, quella riguardante la lotta per l'assoluto, la formazione di un mondo completamente nuovo, o per il relativo, per la lotta di ogni giorno, che pur avendo di mira il fine, si occupa e si preoccupa anche delle questioni relative al momento. E in verità nel sostenere la seconda non vi era rottura nel suo modo di pensare, né vi era mutamento di vedute generali né di tattica, ma tutte queste si svolgevano nel filo tracciato già nei momenti in cui accentuò la sua partecipazione al movimento operaio e ne aveva fatto un problema di tattica generale. E a proposito di tattica generale, mi chiedo se piuttosto non sono qui ripresentate alcune delle idee generali che animava anche quel gruppo stesso che con Kropotkin, Grave, Paul Reclus, ecc., i firmatari del famoso manifesto detto degli «intellettuali anarchici», scritto e pubblicato nel febbraio del 1916, e nel quale fra l'altro si sosteneva che: «Noi anarchici, noi antimilitaristi, noi nemici della guerra, noi partigiani appassionati della pace e della fraternità dei popoli, non ci siamo posti dalla parte dei resistenti e non abbiamo creduto dovere separare la nostra sorte da quella del resto della popolazione». Perché allora, come nel caso Rocker, è evidente il contrasto fra l'assoluto dello scopo finale che si vuole raggiungere, e i mezzi relativi della lotta giornaliera, che formano i due poli della lotta generale, e che ha caratterizzato soprattutto il pensiero e l'opera del Rocker dal 1919 a tutt'oggi. Nel Rocker il principio si rileva indubbiamente meno, perché egli aveva sempre proposto queste idee e metodi per le lotte economiche dei lavoratori, per la conquista del loro pane quotidiano, e non ancora per quelle politiche, e certamente esse risultarono più chiare, più profonde, direi quasi più contraddittorie, quando, davanti all'imperversare della furia nazista, egli dirà e sosterrà la necessità di adottarle per la lotta politica. Allora lui pure arriverà a dire, pressappoco, seppure con altre parole ma nel medesimo senso, che non può credere suo dovere separare la sua sorte da quella di tutto il resto della popolazione rimasta sotto  il giogo nazista; ed inciterà questa, e cercherà di convincere tutti gli altri, che la prima lotta, quella veramente essenziale, sarà di combattere ed abbattere il nazismo e il totalitarismo; di convergere insomma tutte le forze nella lotta, contro questo immenso dettaglio della lotta generale, per poter meglio preparare la lotta per il futuro.
Questo è il problema che ritorna e si pone nuovamente, e se noi vogliamo tirare con profitto da una tale discussione un utile generale, così come proponevo nel mio esordio, fermiamoci ed approfondiamo la discussione, mantenendola sempre elevata, facendo astrazione del «caso personale», approfondendo tutti gli aspetti della situazione e le conseguenze che ne possono derivare. Solo così ne potrà scaturire una posizione chiara.
 
 
[Volontà, anno VIII, n. 4 del 15 agosto e n. 8 del 15 dicembre 1954]