Brulotti

A proposito di patria

 

Georges Henein
 
Mi si dice: «Se non rispetta la patria, lei è un anormale o un degenerato».
Io rispondo: «Prima di rispettare qualcosa, ci tengo a conoscere il suo contenuto. Vi prego, spiegatemi che cos'è la patria».
Qui, imbarazzo, confusione, retorica. Per gli uni la patria è il luogo, e più generalmente il paese dove si è nati. Capisco, ma allora constato che il fatto di nascere in un luogo piuttosto che in un altro è puramente accidentale, e non potrebbe bastare a determinare nell'uomo una preferenza inevitabilmente arbitraria. Se il luogo in questione ha un valore d'attrazione, lo ha per tutti e non per uno solo, lo ha indipendentemente dall'evento che crea un legame artificiale fra l'uomo e il luogo. Dal momento in cui la patria è soltanto un locale, rivendico il diritto di disprezzare questo locale, anche se fossi costretto a viverci.
Per altri la patria è il patrimonio che ci consegna una certa tradizione, affinché a nostra volta lo conserviamo e lo tramandiamo. Ora, la tradizione è uno dei maggiori ostacoli dello spirito umano. Ogni critica della tradizione è impossibile. La si accetta o la si rifiuta. Noi la rifiutiamo. E rifiutiamo contemporaneamente questo pacchetto che ci viene dato in suo nome, idee-credenze-manie nazionali, abbigliamento ridicolo e grottesco capace solo di corrompere le originalità. L'essenziale è di essere se stessi, vivi, e non di vivere secondo i morti. È nota l'immagine famosa e sempre sfruttata: «Difendiamo il suolo dei nostri padri». Ce ne freghiamo del suolo dei nostri padri, è il nostro di suolo che importa. E questo suolo è l'universo intero.
Il gruppo di “Ordre nouveau” offre una definizione di patria che richiede un esame più attento. La patria diviene «l'ambiente fisico e psicologico in cui l'uomo prende coscienza al tempo stesso della sua personalità e del mondo esteriore; essa è dunque limitata e regionale, definita dai contratti affettivi che un uomo o un gruppo di uomini possono provare direttamente». Gli autori di questa onorevole definizione non sembrano mettere in dubbio, un solo istante, il fatto che l'ambiente in cui l'uomo prende coscienza del mondo esteriore possa non coincidere con quello in cui prende coscienza della propria personalità. La conoscenza di sé deriva non dalla contemplazione di una realtà vicina, ma piuttosto da certe intersezioni rare, preziose e rapide. Nessuno sa di preciso a quale distanza troverà una immagine accresciuta di se stesso, trasparente fino all'evidenza. I nostri specchi sono contati. Si innalzano davanti a noi, di sorpresa, poi spariscono in notti insuperabili. E noi conserviamo il loro ricordo. La mia patria può essere una figura di Cina, dove coesistono miracolosamente la morte e la vita. Essa può essere il paesaggio di un sogno, ritrovato al caso della grande continuità terrestre. Può essere in parole abbastanza forti da aver resistito ai secoli e trionfato sulle distanze.
 
Per poco che si associ la patria ad una presa di coscienza essenziale, se ne fa l'eguale di un destino. E l'errore è di voler limitare questo destino, asservirlo ad un tempo e ad uno spazio nemici di tutti i passaggi. L'errore è di voler ridurre ciò che dipende dalla più perigliosa delle scelte, alla misura di una nozione ufficiale, comune e indiscussa. Non esiste una patria. Esiste la patria di ognuno, atto di purezza dovuto ad un eccesso di volontà individuale. La patria è tutto l'irriducibile che si è accolto e mantenuto in sé, è tutto ciò che si è soli a difendere. Con quale passione e quale fierezza. In questo senso, ci porta la nostra esperienza ideologica, non essendo pensabile nessun altro senso senza che sorga una serie di contraddizioni fra l'essere e l'ambiente.
A tal punto che in definitiva la patria non potrebbe avere che una esistenza astratta. Per ragioni politiche, e quindi sospette, si è proceduto ad un tentativo organizzato di concretizzazione dell'idea di patria. Favorito da certe ignoranze, questo tentativo è brillantemente riuscito ad installare una confortante e assai rispettata menzogna. La patria così come viene praticata nelle nostre società non è altro che una variante del campo di concentramento. Non inganniamoci. La patria corrisponde nello spirito umano ad un bisogno anteriore alla forma che attualmente le è prestata dai politici, ad un bisogno che sopravviverà a questa forma, al bisogno preciso e confessato di avere qualcosa di insostituibile e incondivisibile da difendere.
«Contratti affettivi...», dite voi, amici dell'Ordine nuovo. Bene. Molto bene. D'accordo. Ma allora, come osate aggiungere: «... limitata e regionale»? Il primo termine esclude il secondo. Dopo aver isolato, messo in luce il carattere originale, unico, del concetto patria, ritornate alle solite considerazioni sull'adesione dell'individuo al luogo, alla regione, al paese. Non riuscite a separare utilmente la patria-contratto dalla patria-locale. La prima ha una dignità, un prezzo, una realtà che sarebbe vano chiedere alla seconda. Nel suo dizionario filosofico, Voltaire ha smontato con facilità ed un sorriso di circostanza quella specie di idolo al ribasso costituito dalla patria-locale. Non è che un'illusione.
Illusione forse accettata, illusione omicida di certo, illusione che spetta all'uomo libero rettificare, a profitto dell'altra patria, quella che non racchiude alcun imperativo geografico, quella che non vizia nessun orgoglio imperialista, quella terra compagna dove l'idea riposa fra due tentazioni.
 
 
P.S. Ho scritto queste righe prima di aver letto il notevole articolo di Henri Nadel: «La Nazione contro la Patria» pubblicato dalla rivista Europe nel suo numero del 15 aprile. Senza schierarmi del tutto con la posizione dottrinale di Nadel, non posso impedirmi di rilevare i numerosi punti che ci avvicinano. Egli dice, per esempio: «... più un uomo è colto, meno compatrioti ha... Essa è fatta (la patria) di pezzi, talvolta molto distanti gli uni dagli altri, e che ognuno giustappone secondo il proprio gusto, secondo i casi della vita... La patria è una creazione continua. Essa non ha frontiere né nel tempo né nello spazio». 
 
[Le Rappel à l'ordure, 1935]