Brulotti

Compagni, se voi sapeste…

Lo scorso primo maggio a Milano è successo qualcosa. Ma cosa, nessuno lo ricorda più tanto bene. Un fatto ormai esiste solo in quanto notizia, e le notizie sono come i pesci; dopo due giorni puzzano. Se non si vuole gettarle nella spazzatura, se si vuole venderle e consumarle, bisogna coprirle con una plastica in grado di conservarle. Solo che poi non si vede più il fatto, e nemmeno la notizia, si vede solo la plastica. Plastica di fatto, che quindi diventa a sua volta notizia. E così via all’infinito…
Funziona un po’ come i forum in rete, avete presente? Si comincia con un articolo sulla crisi economica in Grecia e si finisce per discutere sulla vera ricetta dello zaziki. Allo stesso modo, le notizie dei fatti del primo maggio a Milano — i disordini in occasione dell’apertura dell’Expo — hanno attirato l’attenzione di tutti per poche ore, trascorse le quali si è iniziato a discutere se il rolex fosse vero oppure falso, o se per pulire i muri fossero più efficaci le spugnette o la spazzola. Un paio di giorni, sono bastati solo un paio di giorni all’incirca ai media per digerire quella giornata. Come se non fosse mai esistita.
Invece alla Messinscena (perché il Movimento ormai è morto e sepolto, inutile continuare a prenderci in giro) ci sono voluti ben due mesi per organizzare una iniziativa di due giorni — che si terrà a Milano i prossimi 26 e 27 giugno, al Teatro Verdi — i cui spettatori potranno forse scoprire «cosa è successo veramente». Perché «necessita capire». E per capire, cosa c’è di meglio di un bel dibattito fra «voci culturalmente non omologate», il tutto «senza necessità di trovarsi d’accordo, senza bisogno di un progetto comune, senza coazione a ripetere copioni»?
Ecco, poche righe e già iniziamo a grattarci. Maledetta allergia! È più forte di noi, non riusciamo a fare a meno di leggere il significato delle parole, di pensare alla prospettiva che evocano, anziché scorrere fra le lettere e bearci appena si configurano. Esistesse un Movimento ci sarebbe un dibattito fra compagni, fra sovversivi, o come si preferisce dire, in cui tutti potrebbero partecipare a pari titolo. Ma, poiché esiste solo una Messinscena, ecco qui la lista degli attori che interverranno ad esibirsi non a caso sul palco di un teatro per portare un po’ di cultura nella testa vuota degli zotici. Se la locandina riporta i nomi — per dio! — è perché sono attori noti, bravi, pedigree-dotati. Applaudiamoli, dunque.
Il primo è Bifo. Già, roba da non credere. Fu lui a dare vita al riflusso, al recupero culturalista del movimento del 77, al punto che quelli di Insurrezione lo presero più volte di mira giungendo a diffondere un falso del suo giornale. Da allora non si è mai smentito (ricordate il suo fervore anti-talebano contro quei compagni che avevano protestato per la morte di Sole e Baleno?). Il secondo è Roberto Ciccarelli, il cui cervello da filosofo è talmente infuriato da fare il giornalista per il Manifesto. Il terzo è Giorgio Cremaschi. No, non è un omonimo, è lui, proprio lui, il sindacalista ex presidente del Comitato Centrale della Fiom. Chissà se è stato invitato perché, a differenza di molte altre volte, dopo i fatti del primo maggio non ha dato addosso ai nerovestiti oppure perché sempre nella stessa occasione ha sostenuto che «la distruzione del mondo dei partiti di massa, del potere sindacale, dei diritti certi e dello stato sociale è stata una catastrofe». Il quarto è il Duka, affabulatore delle edizioni Agenzia X che co-promuovono questa iniziativa e forse solo per questo incluso nell’elenco. Il quinto è Luca Fazio, anche lui fa il giornalista per il Manifesto ed a suo dire gli anarchici sono stupidi vigliacchi che asfaltano il movimento (m-a-g-a-r-i). La sesta è Cristina Morini, scrittrice e giornalista, laureata in scienze politiche. Già alla corte di Toni Negri a UniNomade, sta lanciando da tempo occhiate sempre più languide ai colleghi saggisti del Comitato Invisibile. Il che spiega meglio la sua presenza. La settima è Letizia Mosca, la voce più sciocca di Radio Popolare, “Titti” di soprannome e di intelligenza. Nonostante anni di ascolto, davvero, pensando a lei non viene in mente nulla. L’ottavo è Giuseppe Pelazza, avvocato. Un leguleio ci vuole sempre, anche solo per perorare il «diritto di parola» del silenzio. Il nono è Marco Philopat, uno dei co-promotori del convegno, affetto in gioventù dalla “rogna” della autoproduzione punk è guarito grazie ad un balsamico contratto con la Einaudi e ad un percorso da «libero professionista». Il decimo è Paolo Ranieri, che deve aver dimenticato proprio tutto del suo passato da comontista per essere finito qui in mezzo a fare il saltimbanco. Speriamo almeno che ci arrivi sbronzo e litigioso. L’undicesimo ed ultimo nome sulla locandina è la primadonna, il cui nome scriviamo non senza una certa ripugnanza: Oreste Scalzone. Ex portaborse di Toni Negri, ex leader di Potere Operaio, ex accattone di amnistia e desistenza… Una vita intera dedicata alla più logorroica rappresentazione, che se non ha sottomano qualche uomo di potere (da Longo a Mitterand passando per Zangheri) si rivolge indignato a qualche donna di potere («signora Finocchiaro!»). «Bastonabile fin dal 1974» ci diceva di lui un vecchio compagno, incredulo che un simile figuro possa ancora circolare «tra i compagni».
Non crediate che sia un piacere anche solo pensare a simile putridume. Ce lo risparmieremmo più che volentieri. Il fatto è che i suoi schizzi arrivano fino a noi. E questo perché da anni, da molti anni, non pochi kompagni ci sguazzano dentro spargendolo da tutte le parti. Altrimenti lo ignoreremmo volentieri. Ci troviamo perciò costretti a ripetere alcune banalità su questa iniziativa, ennesima testimonianza di quel trionfo del dialogo democratico al quale il Potere (e il relativo contro-potere) sempre più incessantemente chiama. Tutti seduti sullo stesso palco, le differenze diventano via via sfumature e in nome di una pretesa sostanza anti-ideologica (che si è rivelata nuova e più totalitaria ideologia) ci si sente, ognuno al proprio posto, quasi dalla stessa parte: quella della intelligenza condivisa.
È evidente che, nel partecipare a simili iniziative, si può dire qualsiasi cosa (anche la più radicale e provocatoria): l’importante è che si parli. Cosicché il pensiero democratico di sinistra, al pari di quello sovversivo e insurrezionale, possa trasformarsi in opinione. E l’opinione è un pensiero disarmato ed impotente. Con questo non si intende dire che non si dovrebbero conoscere i contributi all’analisi provenienti da altri lidi. Solo che un conto è la conoscenza delle tesi altrui — cosa che andrebbe coltivata, sia come stimolo sia come prevenzione — un altro è il loro pubblico confronto e dibattito il quale rimane pur sempre una forma di riconoscimento. La logica del confronto, del “mettiamo a fianco le varie voci e vediamo cosa ne viene fuori”, ronza solo nelle teste di aspiranti direttori, ops, scusate, coordinatori del coro vogliosi di un pubblico in platea. È il punto d’incontro fra Politica e Spettacolo. Altro che una rivolta nera, anonima, senza leader né rivendicazioni.
Vero è che questa iniziativa è all’altezza della stagione programmata dall’italica Messinscena, la cui ribalta fa spazio a delatori mentre il suo dietro-le-quinte regge lo scenario. Che uno come Bifo (che anni fa presentò a Bologna una rivista della Nuova Destra), o uno come Scalzone (talmente distante dalla luce dei riflettori e delle telecamere da correre in televisione anche quando devono metterlo a democratico tele-confronto con i fascisti), vadano a far capire cosa è successo a Milano lo scorso primo maggio assieme a sindacalisti e caca-inchiostro vari, ci sembra del tutto coerente. Dopo tutto la Messinscena è anche la scena della Messa, dove i siam-tutti-fratelli si stringono la mano in segno di pace, amen. Non a caso a promuovere questa due giorni è soprattutto chi una ventina di anni fa tentò di organizzare un convegno per mettere a confronto centri sociali, amministrazioni comunali ed imprese. Necessitava capire come fare lavorare i perditempo che animavano quegli spazi. All’epoca gli andò male, quasi tutti si infuriarono. 
Ma da allora è passato un millennio ed oggi, dopo che l’amnesia più opportunista ha spazzato via ogni memoria e dignità, il disgustoso minestrone alla milanese fatto con avanzi di maiale e verdure avariate troverà senz’altro i suoi gaudenti clienti.
 
 
[21/6/15]