Brulotti

Le università nemiche del senso?

Radovan Ivsic
 
Nel modo più sorprendente, il XX secolo si apre su uno sfondo di rivolta attraverso una esplosione o un fuoco d'artificio della poesia. Un'alta marea di nuovi poeti, che si chiamano futuristi, dadaisti, surrealisti, irrompe da tutti i lati. In Europa, in America, in Russia, alcuni giovani, senza preoccuparsi del loro avvenire, si lanciano nell'ignoto, a volte a rischio della propria vita.
Tutto il contrario sembra caratterizzare la fine di questo secolo che, in mancanza di meglio, si definisce talvolta post-modernista. Definizione vaga per nascondere il vuoto generato dalle infatuazioni e dalle mode disparate che furono lo strutturalismo, il formalismo, la semiotica, la testualità, il neofemminismo... È evidente che la poesia ne è assente, anche se non si contano più le innumerevoli raccolte di versi ripetitivi instancabilmente pubblicate nel corso di questi anni mediocri, benché in fondo non abbiano interessato nessuno. Nulla di sorprendente allora nel fatto che si legga sempre meno né che editori e librerie lamentino un calo di vendite dei libri. L'autentica invenzione, la vera novità, il mai visto, lo «scarto assoluto» che costituisce l'essenza stessa della poesia, tutto avviene come se oggi non se ne avesse più voglia. Del resto, si potrebbe dire la stessa cosa a proposito delle arti plastiche e del teatro. Senza partire da questa constatazione, non mi sembra possibile interrogarsi sul senso della letteratura oggi.
Ma come si è arrivati a questo punto? Beninteso, sarebbe sorprendente che questa disfatta della poesia non sia ad immagine di tutto il resto in un mondo in cui si assiste a una distruzione galoppante della natura e in cui si vive sotto la minaccia di una apocalittica guerra nucleare, sempre possibile anche dopo l'implosione dell'Unione sovietica. Tuttavia se si guardano più da vicino recenti mode intellettuali quali lo strutturalismo, la semiotica, ecc., ci si accorge che sono tutte di origine universitaria, cosa che le differenzia essenzialmente dai movimenti poetici di inizio secolo inventati e lanciati da poeti isolati o riuniti da una stessa rivolta, ma innanzitutto indipendenti da qualsiasi forma di potere.
Per prendere un esempio nella poesia croata, i due giovani appassionati che l'hanno profondamente segnata all'inizio del secolo, Antun Gustav Matoš e Janko PoličKamov, erano solitari senza raccomandazioni. Al servizio di nessuna università, di nessuna istituzione né di un’accademia. Ma sono stati dei creatori di senso facendo volare in frantumi i significati convenzionali del mondo che avevano attorno. D'altronde avrebbero potuto mantenere lo stesso ardore e lo stesso anelito libertario se avessero dovuto conformarsi alla nuova buona creanza accademica?
Me ne rendo conto, mi si potrebbe replicare che a prima vista, tenuto conto dello stato del mondo, le università forse non costituiscono il principale pericolo che minaccia la poesia. Non esistono la censura, le grandi potenze del denaro, gli Stati polizieschi, le religioni con i loro integralisti e fondamentalisti? Tanto più che lo statuto delle università nel mondo è assai vario. Alcune appartengono allo Stato, altre sono private, alcune godono di più autonomia rispetto ad altre. Probabile, ma questo è non vedere come esse siano implicitamente solidali e collegate le une alle altre, in quanto tutte economicamente dipendenti dall'establishment, qualunque sia il potere in carica. Lo si voglia o no, esse sono a tal punto intrecciate alla società da non poter che riflettere e alimentare l'ideologia dominante. E come potrebbero non veicolare tutto ciò che minaccia la poesia, essendo la loro nuova utilità quella di farla con mezzi sofisticati?
Eppure questo pericolo universitario è sfuggito a lungo alla vigilanza dei poeti. Il fatto è che si tratta di un fenomeno relativamente recente. All'inizio del secolo, gli studi universitari si limitavano ad esplorare la storia letteraria, guardandosi bene dall'interessarsi alle opere contemporanee. Il contrario di quanto avviene oggi, dove si può vedere la facoltà mescolarsi ogni giorno un po' di più all'attualità letteraria per intromettersi nei dibattiti che talvolta essa stessa ha suscitato, in altre parole per imporre un senso alla letteratura. Tanto e così bene che l'autorità reale pazientemente acquisita dall'università, ad esempio con la scoperta e la decifrazione di testi antichi, si trova ormai utilizzata per regnare, dall'alto delle sue mostruose cattedre di teoria della letteratura, su una parola condannata ad esserne solo l'illustrazione. Cosa che, naturalmente, non potrebbe impedire il sorgere di una parola vivente, se le case editrici non si rimettessero sempre più agli universitari per fare antologie, per scrivere biografie, per scegliere libri da pubblicare o tradurre. Ne consegue una normalizzazione, una standardizzazione che con il pretesto di un’oggettività scientifica scarta sistematicamente le voci minoritarie, riducendo a nulla lo spazio in cui queste potrebbero sbocciare. Si potrebbe vedervi pure una deliberata strategia per ostacolare l'avvento del senso poetico che rimette in discussione tutti gli altri. Al punto da domandarsi se il senso della letteratura oggi riconosciuta non sia quello di servire catastroficamente questo stato di cose, sia non opponendosi ad esso che facendo da mosca cocchiera per non lasciare apparire nulla.
All'inizio del secolo, i poeti non avevano ancora identificato l'università e i suoi professori come nemici. Raramente li hanno considerati un bersaglio, ad eccezione di Antonin Artaud o di René Crevel, che fin dagli anni venti aborrivano in maniera visionaria la genia professorale. Bisognerà addirittura attendere mezzo secolo perché negli Stati Uniti un misterioso personaggio, attorno agli anni settanta, dichiari guerra a certi professori – essenzialmente genetisti ed informatici – accusandoli di essere i peggiori agenti della nostra società industriale e non esitando a spedire loro delle bombe artigianali ma talvolta mortali. D'altronde è per questo che l'FBI, che per diciotto anni lo ha braccato senza successo, lo ha soprannominato Unabomber – dove «un» sta per università. Quando alla fine è stato arrestato, dopo la pubblicazione nei maggiori giornali americani del suo manifesto «La società industriale e il suo avvenire», ottenuta dietro promessa di cessare la sua attività di “terrorista”, si è venuto allora a sapere che si trattava di un brillante matematico il quale, prima di scomparire senza lasciare traccia, era stato uno dei più giovani professori nominati a Berkeley. Il suo nome è Theodor Kaczinsky ed è appena stato condannato all'ergastolo in attesa di un altro processo in cui rischia la pena capitale.
Il “terrorismo” non porta da nessuna parte, d'accordo. Unabomber non se l'è presa con i professori di letteratura, d'accordo. Non si diceva nemmeno poeta, d'accordo. Ma quale autentico poeta non potrebbe riconoscersi nella sua esecrazione degli usurpatori di senso?
 
[18 maggio 1998]