Titolo: La fabbrica di uomini
Autore: Oscar Panizza
Argomento: Miraggi
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«Spesso sono completamente sconcertato. Gli uomini intorno a me impallidiscono fino a diventare

immagini umbratili che camminano barcollando qua e là e una nuova, colorata specie umana,

comandata dalla mia fantasia, si leva dal suolo guardandomi con occhi spaventati»

Tieck


Colui che ha viaggiato molto a piedi acquista gradualmente una così grande pratica nel giudicare sia la posizione del sole sia quella dei percorsi tracciati sulle carte stradali da sapere quando deve partire da un luogo per raggiungere in modo sicuro, ancora prima del calare dell’oscurità, il villaggio o la cittadina che egli ha eletto quale ricovero notturno; a lui non capita, come successe tanti anni fa all’autore di questo racconto, quando, avendo solo da poco impugnato il bastone del viandante e vedendosi una sera sorpreso dal buio, incapace di consultare una cartina o la bussola, stava brancolando da due ore, solo soletto per la strada maestra, stanco, affamato, senza compagnia né meta. Tutto accadde nella parte orientale della Germania Centrale e non so davvero più in quale provincia o in vicinanza di quale grande città, cosa che non ha d’altronde nessuna importanza per la valutazione dei fatti che sto per narrare. Dopo essere giunto alla conclusione che il rimanere lì non portava a niente e che l’umidità del terreno impediva l’approntamento di un rifugio notturno all’aperto, mi risolsi a continuare a camminare senza posa, tentando di risparmiare per quanto possibile le mie energie, e questo sarebbe durato per tutta la notte anche se, presto o tardi la nota densità della popolazione tedesca mi avrebbe fatto imbattere in qualche insediamento umano. La mia perseveranza fu anche premiata dal successo giacché trovai quello che stavo cercando: un rifugio per la notte. Se il ricovero, tale qual era, potesse essere definito un successo o se l’autore non avrebbe fatto meglio a pernottare nel sudicio pantano della strada, potrà essere giudicato dal benevolo lettore alla fine di questo racconto, in quanto gli intricati avvenimenti di quest’unica notte saranno l’oggetto dei seguenti fogli.

Era forse poco prima di mezzanotte quando io, durante la marcia sempre con la testa china al suolo, vidi spuntare improvvisamente un edificio gigantesco e nero, distante solo pochi passi dalla strada maestra; lo stesso sembrava, per quanto si potesse discernere al buio, assai solidamente composto di possenti parallelepipedi ed era alto più piani, presentava diverse costruzioni posteriori, rimesse, edifici per macchinari, comignoli; insomma era uno spazioso impianto palesemente industriale. Non vedevo luce alcuna; ciononostante ero seriamente deciso ad annunciarmi; un viottolo leggermente coperto di ghiaia conduceva dalla strada maestra al portone d’entrata. Alcune belle costruzioni a destra e a sinistra testimoniavano un certo livello di benessere del proprietario così come il suo senso artistico e l’amore per la natura. Suonai. Uno squillo acutamente chiaro attraversò tutta la casa i cui passaggi e corridoi dovevano essere possenti, da quanto si poteva dedurre dall’eco.

«Causerà un bel disturbo!» pensai tra me e me. Ma con mia massima sorpresa sentii subito dei passi nelle immediate vicinanze; una porta fu aperta; un mazzo di chiavi tintinnò; un attimo dopo si aprì il pesante portone d’ingresso verniciato di marrone e davanti a me apparve un ometto piccolo e nero, con un viso amichevole e sbarbato, che con un gesto muto mi chiese cosa volessi.

«Mi scusi il disturbo così tardi di notte» dissi «ma di che tipo di edificio si tratta?»

«Una fabbrica di uomini».

Ora, prima di continuare, prego il lettore di non farsi distogliere da nulla, da nessuna domanda, risposta od osservazione, fosse anche la più stramba, se vuole leggere tale storia sino alla fine. Nella vita sentiamo, vediamo o leggiamo cose molto più straordinarie di quanto sembri esserlo la sopraccitata risposta, senza scappare via o chiudere il libro. La cosa fondamentale è non perdere la testa, lasciare agire tranquillamente i fatti su di noi e ricercare un’intesa. Per quanto concerne la cosa stessa, desidererei far notare che, quando in un costrutto una parola serve per commentare in modo specifico o spiegare il significato di un’altra, quest’ultima deve essere considerata per lo più in modo soggettivo, mentre la prima è scomposta nel modo migliore possibile per mezzo di una frase relativa. Non avendo nessun motivo per supporre che in questa singolare casa imperassero altre regole grammaticali, diverse da quelle applicate nel resto delle terre tedesche, intesi l’espressione fabbrica di uomini come una fabbrica in cui si fabbricano uomini. Ed era proprio vero. E ora non voglio arrestare oltre il corso del racconto e desidero ritornare a quando io stesso, muto e come rintronato da grida, stavo davanti all’ometto, incapace di formulare un solo pensiero, ancor meno di enunciare un discorso appropriato fino a quando il gentile vecchietto, per niente irritato dal mio indugio, mi invitò ad entrare con un gesto della mano. Feci quindi il mio ingresso nel corridoio e mi concentrai tanto da riuscire a dire, molto cortesemente e guardandolo negli occhi: «Intendete solo in modo figurato!? Con questo non volete dire che fabbricate uomini!?».

«Sì, produciamo uomini!».

«Fabbricate uomini? Ma cosa vuol dire?» gridai ora, agitato al massimo.

In segreto mi sorse però il dubbio che qualcosa non andasse nell’uomo o nella casa. Il vecchio sembrava non notare il mio stupore o non considerarlo per niente, anzi disse, indicando una porta di vetro dove nel frattempo eravamo giunti avanzando...

«Entri qui, la prego!».

«Uomini» gridai «non lo si può prendere alla parola, si tratta di un’immagine, di una figura retorica. Non può volere fare degli uomini come si fa il pane!».

«Infatti» gridò il vecchio ometto quasi gioiosamente e per nulla alterato, quasi nel modo con cui il custode di una galleria d’arte dice: “Sì, il famoso quadro di cui chiede si trova da noi”, «infatti, il paragone mi sembra azzeccato, facciamo uomini come si fa il pane».

Eravamo giunti in un corridoio rivestito di mattonelle in pietra; negli angoli occupati da finestre che conducevano fuori, verso il cortile, c’erano grandi sputacchiere di legno piene di morbida segatura a fiocchi; se ne poteva dedurre che durante il giorno passassero là molte persone. Tutto recava i segni della salubrità e dell’amministrazione razionale; le pareti imbiancate di fresco, la pittura semplice ma accurata. Guardai ancora una volta il vecchio; sembrava essere così lucido, diligente, benevolo; la sua età e la sua moderazione sembravano escludere ogni inclinazione alle fantasticherie o a sciocchi scherzi. Mi grattai l’orecchio per sentire se ci fosse un filtro in grado di alterare le parole e il loro contenuto.

«Uomini» dissi tra me e me. «Uomini» dissi quindi ad alta voce «voi fate; ma per cosa? A quale proposito? Ammesso che li facciate, ma perché fare uomini, quando ogni giorno ne sono generati a centinaia, gratuitamente? Di che tipo sono i vostri uomini? Com’è che vi è venuta in mente tale spaventosa idea? Chi è lei? È un fantasma rimasto al Medioevo che elabora teoremi magici di un dottor Faust che l’epoca moderna ha dimenticato da tempo? Dove sono capitato? Mi sono spinto troppo a est in una fucina magica orientale? O sono in un manicomio occidentale? Parli! Ripeta la sua risposta! Che tipo di casa è?».

Il mio accompagnatore non parve minimamente turbato dal flusso delle mie concitate domande; guardava tranquillamente il pavimento davanti a sé come se controllasse la precisione del lavoro del posatore di pietre e, con un’indifferenza che mi rese ancor più agitato e timoroso, mi disse con una certa moderazione: «Lei fa molte domande in una volta sola. Tenterò di rispondere partendo dalla fine. Ma l’avverto: vedendo e osservando durante il giro che compiremo comprenderà e imparerà di più di quanto io potrei spiegare e lei domandare. Quindi, di nuovo: questa casa è una fabbrica!»

«E fabbricate?» completai quasi fremendo.

«Uomini!».

«Uomini, uomini» disse l’uomo con calma imperturbabile. Mi immersi in una profonda meditazione che il mio accompagnatore fu tanto indulgente da non disturbare. Tutte le cento domande riferite a un costrutto come fabbrica di uomini, così improvvisamente capitato come una stella filante colpisce una persona, giravano serratamente dentro di me perché la lingua non poteva contenerle con sufficiente prontezza. Uomini, dissi a me stesso, bene! L’idea non è male; ma perché fabbricarli e con quali mezzi? Il mio accompagnatore mi prese dolcemente per il braccio e mi fece entrare nella prima sala.

«Alt! Ancora una domanda prima di procedere» gridai. «Pensano i vostri uomini?».

«No!» replicò subito con un tono di massima sicurezza e non senza un’espressione di gioiosa eccitazione, come se si fosse aspettato la domanda o fosse felice di poterla negare. «No!» gridò. «Abbiamo felicemente eliminato il problema!».

«In questo modo la vostra innovazione acquista straordinario interesse» osservai, e continuai subito: «Ho conosciuto un uomo che doveva pensare che, controvoglia, senza predisposizione, senza lavoro, era obbligato a pensare, e proprio a cose che non lui ma la sua testa voleva, quindi non per una necessità educativa esterna, ma per una spinta interna con cui egli si doveva identificare come faceva per i suoi pensieri; doveva riconoscere validità ai suoi pensieri controvoglia. Non le dico che complicazione...»

«Conosco il problema» continuò frattanto l’ometto, diventato tutto d’un tratto vivace, «conosco il problema, lo so, siamo completamente orientati verso le necessità del secolo, sappiamo qual è il punto debole della nostra razza, abbiamo i prodotti più recenti!...».

Quest’ultima espressione commerciale mi fece ritornare lucido, e quindi scoraggiato e diffidente. Entrammo in una grande sala del pianoterra da cui proveniva una calda nuvola di fumo. Tutto era ampiamente illuminato. Negli angoli c’erano vari forni sporchi, a forma di capsula, muniti di spioncini. Prima che arrivassimo al centro della sala ci raggiunse, dalla stanza adiacente, un operaio con una divisa impolverata e una lanterna in mano che, per niente stupito della mia presenza, disse: «Signor direttore, abbiamo appena tirato fuori il cinese».

«Ah» rispose il mio accompagnatore con tenerezza quasi paterna, «e il taglio degli occhi è venuto bene?».

«Un po’ vitreo!» disse l’operaio.

«Vitreo?» ripeté il vecchio ometto in modo stupito ma non scortese.

«Peccato. Fategli solo riprendere fiato; vedremo cosa si può fare con gli occhi».

L’operaio si allontanò annuendo con il capo.

«Sembra che lavoriate tutta la notte» dissi con raccapriccio per quanto avevo appena udito.

«La procedura non consente interruzioni!» replicò l’ometto.

«E sembra che non vi limitiate all’imitazione delle persone della vostra nazione o dei popoli occidentali! Il vostro operato si estende fino in Oriente!».

«Ora sono molto apprezzati!».

«Apprezzati! E che cosa intende dire con questo? Apprezzati! Non può volere dire che il suo criminoso prodotto è ben accolto dagli uomini della vecchia generazione!». E, dopo una pausa, scoppiai con nuova veemenza: «Per l’amor del cielo, mi dica che cosa vuol dire tutto questo. Non teme l’onnipotente creatore del mondo? Vuole fare concorrenza al buon Dio? Questo impudente prodotto non sembrerà una parodia? Che faccia dovrei fare imbattendomi per strada nei discendenti di due siffatte e differenti razze?! Il contrasto non deve essere maggiore e soprattutto più terrificante di quello tra un bianco e un polinesiano, entrambi creature di Dio!? Con quale sfiducia un uomo della vecchia terra deve affrontare tale nuovo essere creato artificialmente, annusarlo, tastarlo per trarre da lui segrete energie! E se la nuova razza sarà fatta secondo un piano preciso e meditatamente maturato, possiederà forse maggiori abilità di noi, sarà superiore ai vecchi abitanti della terra nella lotta per l’esistenza! Ne conseguirà un terribile scontro! La nuova razza non pensa, come menzionava lei prima, agisce solo secondo il suo specifico, in essa inoculato, impianto che si esprime meccanicamente, come può essere resa responsabile dei suoi errori?! La morale come fondamento del nostro pensare e agire decade! Nuove leggi devono essere create! Un annientamento vicendevole di entrambe le razze sarà inevitabile! Cos’ha fatto!? Cos’ha intrapreso?! Qual è il suo scopo? Una sovversione dell’attuale ordinamento sociale!».

Dopo questa nuova profusione di parole il mio accompagnatore mi guardò in modo dolce e rassicurante e dopo un po’ disse: «La nuova razza, e su questo la posso rassicurare, non si diffonderà nel mondo e non entrerà in competizione con i suoi fratelli e sorelle di nobile origine. Siederà tranquilla nel suo salone, senza pretese e modestamente. E voi, i vecchi uomini, vi sentirete entusiasti e risollevati nel contemplare allegramente questo essere brillante, nuovo di pacca. Per tale motivo le posso solo consigliare di acquistare una non modesta quantità di queste delicate creature».

«Acquistare!» replicai. «Ma in che modo?».

«Le vendiamo. Altrimenti a cosa servirebbe la fabbrica?! E di cosa potrebbe vivere, dato che la nostra razza confezionata non lavora assolutamente, non guadagna niente ed è di per sé molto cara da produrre».

Fui visibilmente tranquillizzato da quest’ultima spiegazione e quasi mi vergognai delle mie concitate domande. Avanzammo verso uno dei forni più grandi dell’angolo.

«Naturalmente» disse il mio accompagnatore «il processo è segreto! Prendiamo della terra, come il creatore della prima coppia di uomini in paradiso, la mescoliamo, la maneggiamo, le facciamo sperimentare vari gradi di calore, e io le posso mostrare tutto ciò, ma il punto principale, l’animazione e soprattutto il risveglio dei nostri uomini, è un segreto di fabbrica».

«Non desidero conoscere la vostra infernale arte» replicai. «E vorrei che anche lei non conoscesse il modo per mettere al mondo, ogni anno, forse migliaia di creature che altro non sono se non fannulloni...» aggiunsi.

«La prego, osservi almeno queste forme!» mi interruppe il piccolo direttore senza occuparsi della mia ultima osservazione.

Guardai attraverso lo spioncino. In un bagno apparentemente caldo-umido, separato dall’aria esterna, era distesa una ragazza splendida che pareva dormire, seminuda, appoggiata su un tappeto erboso artificiale, ma tutta bianca, come se fosse stata appena modellata nella creta umida, apparentemente incompleta; forme, postura, drappeggio, i piedini, le scarpe, le calze accennate, la merlettatura, tutto disposto in un’affascinante armonia artisticamente perfetta.

«Se ora vuole cambiare ancora qualcosa» disse il direttore, guardando dall’altro spioncino che egli aveva occupato, «fa ancora in tempo; ora è ancora tutto molle, modellabile, duttile; appena gli occhi sono pronti, il rossore del battito cardiaco apparirà sulle gote, la sveglierà e allora sarà troppo tardi; allora sarà quello che è, una ragazza, allegra, lunatica, civettuola, caparbia, grassa, magra, nera, bruna, con tutti i difetti di fabbrica».

Quello che mi saltò agli occhi fu che i vestiti erano saldamente connessi al corpo. Espressi il mio pensiero al direttore, osservando che per la povera creatura doveva essere difficile, a causa dell’immutabilità delle sue forme, trovare sempre i vestiti giusti.

«Non ha bisogno di vestiti» rispose.

«Come, dovete farle cambiare la biancheria!».

«Facciamo biancheria e vestiti durante l’atto creativo, una volta per tutte».

«È la cosa più pazza che abbia mai sentito! Allora create uomini vestiti?».

«Certo!».

«E gli uomini così creati rimangono vestiti per tutta la vita?».

«Naturalmente! È davvero più semplice! I vestiti fanno parte della costituzione complessiva!».

«Pensi solo alla traspirazione per non parlare di tutte le altre questioni!».

«Le abbiamo ridotte al minimo! Del resto non posso trattare più dettagliatamente questo punto, perché dovrei così parlare del più intimo nocciolo della questione, per così dire del principio vitale segreto dei nostri uomini».

Ci allontanammo lentamente dal forno; io pensieroso e quasi confuso, come sempre.

«Se il mio ragionamento è esatto» osservai infine «i principi della vostra produzione di uomini non sono così negativi. Durante l’atto creativo dotate ognuno dei vostri uomini di un preciso numero di virtù e le lasciate anche invariate».

«Naturalmente!» m’interruppe quasi focosamente il vecchio ometto, come rallegrato dal fatto che finalmente potessi comprendere il filo conduttore del suo pensiero. «Nelle attuali circostanze temporali, per l’inaffidabilità della maggior parte delle persone, per lo scetticismo, la difficoltà della scelta della professione, per la titubanza e l’indugio in tutti i campi doveva infine presentarsi la necessità di avere uomini di cui si conoscesse l’essenza, le capacità, il temperamento a cui fossero inclini e di sapere che tali capacità e temperamento rimangano inalterati. Alla nascita dotiamo i nostri uomini di una delle collezioni migliori di pregi spirituali e corporei e questi restano tali in qualsiasi circostanza. Le assicuro, detto tra noi, che i nostri uomini artificialmente creati mi sono più cari della vecchia, famosa razza umana!».

«Ma il libero arbitrio!» replicai io.

«Per gli altri è solo una chimera!» continuò a questionare l’ometto.

«Ma il dolce inganno di possederlo!».

«La mia razza non ne avverte nemmeno la perdita!».

«Ma che ne sarà dei filosofi» osservai scuotendo il capo «se eliminate il pensiero! I filosofi non riusciranno ad abituarsi al lavoro della sua fabbrica».

«Non lo diceva lei stesso, stimatissimo, un quarto d’ora fa, che il pensiero è una delle attività più seccanti per la vecchia razza?».

«Sì, sì, spesso è amara, ma comunque bella!».

«Lei è un entusiasta, un idealista privo di solidi principi affaristici!» osservò il vecchio brevemente e avanzò facendomi così capire che avrebbe gradito lasciar cadere l’argomento.

Attraversammo alcune sale in cui si sentiva odore di canfora, erbe ed essenze e dove strumenti disseminati ovunque, e dei tipi più curiosi, facevano intendere che lì si lavorava ininterrottamente con zelo. Mi meravigliai soprattutto della presenza di uno scrigno di vetro in cui si potevano vedere parti pronte del corpo, cuori, orecchie, falangi simili a malta, come plasmate in un materiale primitivo; accanto c’erano, curiosamente, anche attributi, simboli quali frecce, corone, pezzi di armi, lampi e simili. Ora si presentò però un’immagine completamente diversa: nel quinto o sesto reparto dopo la sala dei forni ci salutò un’allegra e graziosa schiera di bimbi; potevano avere otto o dieci anni; tutti con gli occhi raggianti di spavalderia e fresche gote rosse. Credevo che fossero i figli del direttore, ma poi notai che le loro espressioni erano vagamente rigide; notai anche che, mentre alcuni scorrazzavano liberi o sedevano su graziose seggioline, altri poggiavano su di un piedistallo e tutt’intorno si potevano notare iniettori per la malta.

«Ora le presento i miei bimbi!» mi si rivolse di nuovo il mio accompagnatore.

«Cosa?» gridai sgomento. «Sono proprio i suoi figli?».

«Ebbene sì!» rispose lui un po’ seccamente.

«I suoi figli, intendo da lei generati?» completai vivacemente.

«Non secondo il metodo tradizionale, si tratta del mio prodotto; ma è del tutto uguale; questi sono perfino più belli!».

«Per l’amor di Dio» replicai «come le è venuto in mente di fare anche dei bambini artificiali?».

«La grande miseria dei nostri matrimoni attuali mi ha condotto a tale idea».

«Cosa, non vorrà mettere in discussione la nostra attuale genia umana e la sua prole?!».

«Volevamo solo apportare alcuni miglioramenti!».

«Apportare alcuni miglioramenti alla stirpe umana?! Non percepisce ciò che di orrendo, di inaudito, sta nella frase che lei pronuncia con tanta freddezza?».

Alzò le spalle.

«Alza le spalle? Vuole quindi spezzare il legame morale che esiste tra genitori e figli?».

«Questi saranno comprati molto volentieri» rispose con calma imperturbabile il vecchio, accennando ai suoi prodotti.

«Su quali vie trascina la stirpe umana!» continuai con grande eccitazione. «Cosa ne direbbe Hegel?! Non sa che Hegel ha considerato l’intera progenie umana dai tempi più antichi fino ai giorni nostri come incessante manifestazione “dell’idea assoluta” e per precauzione ha continuato i suoi calcoli fino al termine del diciannovesimo secolo, quindi stabilendo per gli uomini una traiettoria sicura della realizzazione morale e spirituale! Cosa direbbe dei suoi criminosi tentativi di sostituire la stirpe umana con una artificiale, derubata del suo libero arbitrio?!».

«Non possiamo avere riguardo per i concorrenti!».

«Hegel non era un concorrente! E non era un fabbricante! Gli fu sufficiente fissare il mondo, la natura e gli uomini nelle loro manifestazioni più pregnanti e trasporli in un sistema meditato in cui tutto sembra essere sorto per necessità...». Continuai in questo stile affettato ancora per un po’ di tempo, ma osservai presto che il mio accompagnatore, disinteressandosi completamente delle mie elucubrazioni, grattava attorno a uno dei grembiulini dei bimbi dove il colore era diventato un po’ opaco.

«Vede qui, stimatissimo,» iniziò dopo un po’, come se le cose precedenti non fossero state assolutamente dette «un ulteriore processo di sviluppo dei nostri prodotti; se ovviamente non si può ancora parlare di vita, tutto appare già vivace, brillante, quasi pulsante. Per quanto riguarda la forma, a questo punto è già tutto completo e immutabile. Le qualità che queste graziose creaturine hanno in sé, nel caso il mastro abbia trascurato qualcosa, non possono più essere accresciute; ma quelle che ci sono rimangono invariate; restano anche a quel livello; di questo delizioso senso infantile godrà tutta la vita; su questo ho imparato qualcosa da Fröbel (1). Osservi quest’occhio blu. Siamo famosi soprattutto per gli occhi dei bimbi».

Non commentai quelle spiegazioni blasfeme. Uscimmo dalla sala che non si affacciava più sullo stesso corridoio. Dal corridoio giungemmo quindi a svariate stanze a volta, chiuse a doppia mandata e in modo sicuro con porte di ferro, da dove proveniva un concitato rumoreggiare e sfrigolare. Alcuni operai, a due a due, ci attraversavano spesso il cammino, di gran fretta e con fronti luccicanti, portando grossi pesi avvolti in un lino piegato, da cui spesso uscivano piagnucolii.

«Qui, prego, non si soffermi» osservò il vecchio, guardandomi acutamente negli occhi «e non si guardi intorno; questa è quella parte della fabbrica che è in continuo funzionamento e in cui una porta lasciata inavvertitamente aperta potrebbe farle facilmente perdere i sensi. Diamo piuttosto un’occhiata alla sala magazzino, dove si trovano i miei uomini finiti».

Camminammo a lungo uno accanto all’altro. La sala magazzino si trovava in uno degli edifici posteriori. Tutti i reparti della fabbrica erano collegati gli uni agli altri da passaggi coperti, evidentemente per renderli il più protetti possibile dagli influssi delle condizioni atmosferiche. Ovunque si respirava un’aria vegetale, calda e impregnata di vapore. I bimbi non volevano uscirmi di mente. Del resto, ci si poteva rassegnare al pensiero che restassero bambini. Era una pazza idea di questo essere che voleva migliorare la razza umana; proprio come si dà la grappa ai cagnolini e ai fantini perché rimangano piccoli. Ma il difettare di ogni apparato morale, la meccanicità del loro ridere e della loro tenerezza infantile, la mancanza di ogni tendenza educativa, in poche parole, la non sussistenza di un fondamento morale in base al quale i bimbi chiedono: Perché?, Per quale motivo?, in base a cui distinguono il bene dal male, era per me, un protestante, qualcosa d’insopportabile.

In considerazione del fatto che non ci fosse molto da offendere in quest’anima da bottegaio di direttore dissi senza preamboli: «Può mai permettere, signor direttore, così a cuor leggero, che quei bimbi che abbiamo visto nell’ultima sala si rovinino così tanto?».

«Non si rovinano» disse molto tranquillamente «finché non cadano nelle mani di una maldestra donna di servizio!».

«Non intendo questo» replicai nervosamente «intendo dire, non ha pensato di instillare una scintilla di morale in queste povere creaturine? E, dato che costruisce tutto in modo così meccanico e rigido, dove ha impiantato nei piccoli il fondamento morale? Nella testa? Nel petto?».

«Ah, mio caro signore, è difficile; nessuno se ne accorgerebbe! A prescindere dal fatto che siamo felici, quando ci riesce, di costruire apparentemente la nostra razza in modo che si distingua come una stirpe di uomini gentile e nobile».

«Uomini gentili e nobili!» ripetei io. «Se solo fosse questo l’obiettivo a cui miriamo! Uomini onesti e onorabili, non è molto di più? Sì, vede, signor direttore, se avesse avanzato in quella direzione» parlavo molto vivacemente e continuavo a gesticolare con la mano destra «se avesse creato uomini dotati di impulsi prevalentemente etici, come posso dire, una razza morale che, sulla base di un istinto anche se costruito e rinsaldato in seguito, potesse comportarsi solo in modo morale, allora la rispetterei; una razza che potesse mostrare il suo bianco stemma morale e costituisse agli occhi dei suoi fratelli e sorelle dominati da esigenze carnali un fulgido esempio...».

«Non sarebbe per niente commerciabile!».

«Non fa niente, il governo dovrebbe comprarsela a proprie spese, proprio come si acquistano quadri meravigliosi e li si espone pubblicamente perché siano imitati. Pensi che tipo di progresso per lo sviluppo etico della nostra stirpe umana, la cui morale si trova attualmente già in cattive condizioni!».

«Lei è un idealista» osservò brevemente il vecchio, «quindi non la posso seguire; prendo il mondo così com’è; eravamo felici di avere imitato gli uomini così come li vediamo andare in giro ora. Le assicuro che non è stato un compito per niente semplice; ci ha angustiato molto e vi abbiamo investito molto denaro!».

Questa espressione mercantile mi ridusse di nuovo al silenzio. Sentii lo spaventoso baratro che ci divideva. Questo speculatore voleva più di ogni cosa guadagnare con i suoi uomini. Tutto il resto era secondario per lui. Continuammo a procedere in silenzio.

«Non concepisco solo una cosa» ripresi dopo un po’ di tempo, «se vuole fare degli uomini deve anche avere precise cognizioni di anatomia e psicologia. Prometeo fece degli uomini da una specie di sudiciume originario, ma Pallade Atena insufflò in loro la vita. Cos’ha lei che le permette di fare a meno dell’ausilio divino?».

«La chimica e la fisica ci consentono di passare sopra ad alcune cose!».

«Bene, le leggi naturali ci sono note, oggigiorno, in un grado stupefacente; ma come applicare le stesse in un corpo umano in cui predominano condizioni diverse da quelle vigenti nella disorganizzata natura? Prenda solo le complicate sensazioni che sono presenti in un petto umano, come...».

«Le riproduciamo tutte!» se ne usci l’ometto, ridiventato vivace.

«Ma come?» replicai io. «Per esempio, come costruite le sensazioni estetiche? Secondo Herbart (2) o Lotze (3)?».

«Sono amburghesi? O di una ditta berlinese?».

«Non sono né amburghesi né berlinesi,» dissi io infuriato «sono filosofi tedeschi che hanno stabilito per tutti i tempi i principi fondamentali della psicologia, al di fuori dei quali il manifestarsi delle sensazioni nell’uomo risulta impossibile!».

«Lei si immagina la fabbricazione dell’uomo come qualcosa di troppo difficile, stimatissimo!» replicò un po’ imbarazzato il vecchio.

«Troppo difficile?» gridai, mezzo sconcertato da questa espressione triviale e mi fermai in mezzo al corridoio, costringendo così il mio accompagnatore ad affrontarmi. «Certo, se lei sottrae all’uomo il suo prezioso patrimonio, il pensiero e i sentimenti!».

«I bimbi che ha visto hanno per caso sul busto teste di legno?» chiese ora il vecchio anche in tono irritato.

«No, devo ammetterlo, mi ha colpito la loro verosimiglianza, la loro freschezza, ma...».

«Ma cosa? Non deve dimenticare che per una fabbricazione modificata anche le condizioni di produzione devono essere adeguate! Quello che i suoi signori Lebert e Kotze, o come si chiamano, che io originariamente ho considerato una ditta concorrente, hanno scritto nei loro libri, può essere valido per la vecchia stirpe di uomini, ma non per la mia razza industriale!».

Quella obiezione era esatta, eccetto che per l’offesa arrecata ai miei filosofi preferiti. Iniziai a riflettere. Continuammo entrambi il nostro cammino lentamente, immersi nei nostri pensieri. Alla nostra destra rumoreggiavano e ronzavano macchine e mantici.

«Ma» ripresi dopo un po’ di tempo, «senza volere conoscere i suoi segreti di fabbrica, lei deve avere un metodo preciso per fare esprimere i processi dell’anima nei suoi uomini».

«Li facciamo fissi!».

«Fissi?».

«Sì, fissi!».

«Cosa significa fissi?».

«Eravamo inclini a volere che un preciso genere di sentimenti che domina un uomo si manifestasse sempre nella stessa direzione, nello stesso modo, con la stessa sfumatura, e in questo modo evitare che oscillazioni negative, il viavai dei sentimenti e degli sforzi, l’indecisione...».

«Lei è proprio uno strano fabbricante. È in queste cose che risiede il fascino della vita, nel fatto che il nostro impulso di volontà sia il risultato di motivi e inclinazioni contraddittori, oggi così, domani cosà, e l’io spettatore di tale conflitto. Questo è ciò che chiamiamo vita...».

«Ma ha una serie di inconvenienti come conseguenza! All’affievolirsi dell’entusiasmo segue il disgusto, alla cessazione del piacere l’indifferenza, poi l’odio...».

«Bene, ma proprio questo cambiamento...».

«Questo cambiamento è il motivo della nostra attuale incostanza; dobbiamo ottenere la stabilità!».

«Ma così crea una razza schiava indegna del nome “uomo”!».

«Ma è molto apprezzata!» disse il vecchio molto brevemente e fiutò un po’ di tabacco.

«Apprezzata? Da chi, poi?».

«Dai nostri clienti!».

«Sì, avete degli acquirenti formali per la vostra schiatta?».

«Schiatta? Signore mio, la prego!».

«Va bene, allora, per la sua specie?».

«Certo! Chi sosterrebbe, altrimenti, i costi di produzione?! Solo da poco abbiamo spedito alla contessa Čičkov (4) una cassa con...».

«Cassa? Sì, imballate i vostri uomini come merce in pezzi?».

«Oh, la nostra razza è indifesa e docile: ha bisogno solo di uno spazio preciso; deve sempre avere le stesse dimensioni perché possa compiere gli specifici gesti che le sono stati assegnati; tutto il resto è indifferente; a dire il vero, si deve fare attenzione in ferrovia; in più noi spediamo soltanto a spese e rischi a carico dei nostri clienti».

«Oh» replicai io con indignazione,«perché non lasciate che libere creature di Dio...».

«Vi prego, signore mio» mi interruppe il mio accompagnatore un po’ sfacciatamente «sono le mie creature!».

Iniziai ad avere le vertigini; questo contrasto tra due razze di uomini, questo procedimento sconsideratamente diabolico di un matricolato speculatore; l’eventuale lotta se avesse sciolto i suoi uomini-macchina, come cani, contro l’antica, nobile, ma forse non così abile stirpe fatta a immagine di Dio; e quest’uomo che mi stava accanto e fiutava tabacco; questa costellazione che si dipingeva nel mio intimo mi occupò i pensieri; mi premetti le mani sulla fronte e cominciai a vacillare.

«Dove sono capitato?» gridai quasi in un accesso di disperazione. «Via da questa spaventosa casa, da questa tana di assassini, da questa morte di tutto ciò che è bello e nobile!» e corsi avanti come un cieco, ignaro della direzione.

«Si fermi, caro mio» gridò il piccolo direttore ansimandomi dietro «faccia attenzione, che qui c’è il mio cinese!...».

Mi voltai. Sulla parete c’era una creatura tremante, lucida, in abbigliamento estremamente ricco, con gli occhietti strizzati e tagliati che allungava e ritraeva ininterrottamente la rossa lingua a punta.

«Da dove è saltato fuori?» chiesi un po’ più lucido.

«È appena uscito».

«Dalla Cina?».

«Dal forno!».

«Sì, ma non è autentico?».

«Sì, certo, intendo dire che è uno dei miei prodotti; è riuscito splendidamente!».

Mi ero un po’ tranquillizzato, l’attacco era passato; ma decisi di non affrontare più nessuna discussione.

«Qui di troviamo all’entrata dell’esposizione dei nostri uomini finiti!» disse il vecchio ometto e aprì la porta a battenti che conduceva a una grande sala. Entrammo. Vi era raccolta una luccicante società; signore e signori di tutti i ceti, parzialmente seduti, in piedi o adagiati su comodi cuscini; i visi erano un po’ smaltati; alcuni sollevavano stancamente gli occhi; tutti erano racchiusi in enormi casse di vetro; molti erano seduti insieme ad altri, in gruppi, e sembravano chiacchierare; altri ridevano; alcuni scherzavano e saltavano; ma il gesto pareva come irrigidito in un preciso momento e il movimento congelato; tristezza, una tristezza inesprimibile era dipinta, nonostante la mimica vivace, su tutte le facce; una stirpe stanca di vivere che non poteva toccarsi come voleva, ma aspettava la chiavetta che la caricasse; tutti i movimenti umani, i complimenti, gli affetti, le alchimie spontanee degli incontri, delle posizioni, erano raffinatamente scimmiottati. Erano rappresentati tutti i costumi, tutte le mode, tutti gli accessori, tutti i simboli.

«La maggior parte di loro si trova qui in uno stato simile al sonno» osservò la mia guida. «Quando riceviamo un ordine si compiono in primo luogo altri ritocchi e controlli».

Non diedi risposta, deciso a non lasciarmi più andare. Silenzioso attraversai queste fila freddamente irrigidite; quasi intristito dall’esistenza infelice che qui conduceva una razza di uomini obbligati e una vita di rappresentanza, mi fermai davanti a una giovane graziosa ragazza. L’avevo presa inizialmente per una domestica che dovesse spolverare quella sala luccicante; aveva un cestino in mano con dentro un telo blu e un mazzo di chiavi da cui, sotto, risaltava per il biancore un delicato lavoro all’uncinetto; il suo comportamento, il suo vestito, denunciavano decenza e grazia; si intravedeva un abito corto a fiori da cui si discostava leggermente una piega, come casualmente, e il bianco orlo della sottogonna; le calze, di un bianco accecante, si infilavano in leggere scarpe nere con la fibbia; un grembiulino a punta accennato, una cuffietta con fiocchi rosa; due occhi splendidamente azzurri, che fino a quel momento avevano guardato nel nulla, si girarono improvvisamente verso di me quando mi fermai davanti a lei.

«Bellissima bambina» sussurrai delicatamente «ti potrei amare, ti potrei offrire tutto, con te potrei dimenticare lo scambio tra specie umana vera e artificiale, che mi sono entrambe invise. E tu» continuai «saresti capace di ricambiare il mio amore...?». In quel momento chiuse le palpebre riccamente adorne di ciglia e su entrambe le gote apparve un inequivocabile, quasi eccitato, rossore. Mi spaventai e indietreggiai; dietro a me stava il direttore che si era avvicinato strisciando silenziosamente e rideva come belano le capre.

«Mostruoso fabbricante!» gridai. «Ha perfino rubato il rossore della vergogna, la più profumata e pura di tutte le sensazioni umane, per imitare la razza di uomini del buon Dio!» e me ne andai precipitosamente, in preda al disgusto. Sentivo che il mio attacco di prima si sarebbe ripetuto.

«È solo cocciniglia!» gridò il piccolo, arido ometto, ansimandomi dietro. «È solo cocciniglia!».

All’uscita investii quasi un secondo cinese, simile a quello che era all’entrata. Irrefrenabilmente attraversai tutti i corridoi passando davanti a tutte le sale rumoreggianti e vaporose; il direttore mi seguiva a fatica; tutto era ancora illuminato e tuttavia si vedeva che il mattino stava spuntando imperioso. Presto fui costretto a procedere più lentamente.

«Non vuole proprio comprare niente?» sentivo già da lontano la voce del vecchio. «Non vuole portare con sé alcuni dei miei uomini?».

«No» replicai collerico «voglio andarmene da questa casa, non voglio più avere niente a che fare con il suo criminoso prodotto!».

All’entrata della casa ci incontrammo al grande arco della porta.

«Un marco» cicalò il piccolo direttore. «Un marco, un marco» continuò come un automa messo in funzione «la visita della fabbrica costa un marco!».

Estrassi il borsellino e pagai. «Ancora una domanda, prima che ci separiamo» dissi. «Lei, direttore, fa parte della razza umana naturalmente prodotta o di questa razza artificiale, gessosa, rigida da magazzino, dipinta?».

«Ha ragione» iniziò e sembrò prenderla alla larga verso un excursus più lungo «mi sono profondamente immedesimato nella mia razza industriale, quindi per quanto riguarda la sua domanda...».

«No!» gridai. «Non voglio sentire più niente!». E mi precipitai verso la porta.

Un vento mattutino freddo, pungente, mi investì. Ero sfinito da quella notte insonne, ancor più da quel che avevo vissuto. Il sole non era ancora sorto, ma sembrava volesse diventare una giornata splendida. Mi affrettai ad allontanarmi da quel terribile luogo. E avevo anche fame. Non avevo idea alcuna di quanto potesse essere distante il paese seguente. Quando abbandonai il cammino di ciottoli e mi trovai di nuovo sulla strada statale, mi guardai intorno ancora una volta, per osservare quella casa straordinaria. Credetti di cadere all’indietro per il terrore: là al pianoterra e su tutto il primo piano stavano in fila centinaia di quelle persone bianche e meravigliose, con i loro vitrei occhi estasiati e le dita giallognole, che si accalcavano alle finestre e mi guardavano, pareva con scherno. Distolsi lo sguardo e mi affrettai ad allontanarmi dalla tremenda casa. Ma, come succede, le impressioni vivaci e inquietanti si concentrano spesso in noi fino a farsi concrete e a diventare discorsi, azioni, suoni. E mi sembrò di essere perseguitato, mentre procedevo sveltamente, dal discorso di tale vitrea società:

«Guardate, se ne va. Guardate, è uno della strana razza con sangue in corpo e che pensa. Vedete come cammina, come si muove, come può assumere differenti posizioni; guardate solo il suo viso, come muta. Ora ride, ora ritorna serio. Queste singolari creature sono come di gomma, possono mettersi in qualunque posizione, sentire dentro di loro ogni sentimento; allora il loro viso cambia e guizza e schiocca le labbra e diventa rosso come la porpora e bianco come il gesso, guardate solo come cammina, come i tubi di lana delle gambe, che sono solo guaine per nascondere il fatale movimento, dondolano avanti e indietro; una razza preziosa! Dovete vedere come se ne vanno per la strada e si fanno l’occhiolino, poi si fermano improvvisamente, guardano attraverso una grande lastra trasparente e leggono titoli di libri, come poi a un tratto si irrigidiscono e strabuzzano gli occhi e tutto il loro aspetto tradisce che nel loro intimo si sta verificando un terribile cambiamento; la loro testa inizia quindi a pensare e il rosso succo corporeo è fatto affluire con la rapidità del vento tramite un sistema di tubi; devono quindi pensare cosa la loro testa vuole e sentire cosa prescrive loro una palla rossa di gomma che hanno nel petto, e muoversi, come entrambe vogliono; come poi saltano e schioccano le labbra e girano il collo e come sfrecciano di qua e di là e sporgono il petto e soffiano e s’inchinano nuovamente, è troppo spassoso...».

Corsi il più velocemente possibile, mi sentivo a disagio; nonostante il freddo vento mattutino, dalla mia fronte cadevano gocce di sudore simili a perle. Il sole doveva essere già sorto. In lontananza si vedeva una fortezza brillantemente colpita dal sole e presto, all’altezza di una curva del cammino, vidi che davanti a me si estendeva una graziosa cittadina, con chiese e giardini. Mi sembrò di ritornare al mondo dopo un’orrenda gita nel regno delle ombre, era come se per la gioia l’avessi potuto stringere al cuore in tutta la sua miseria. E non avevo fatto che cento passi che vidi un solerte contadino con il rastrello sulla schiena venirmi incontro. Lo vedevo bene, era un uomo come me; creato in modo naturale; non era di una razza artificiale; poi talvolta estraeva la pipa dalla bocca, si toccava il cappello, guardava per aria, osservava il vento, aveva soprattutto movimenti molto naturali.

«Mio caro amico» dissi, quando giungemmo l’uno accanto all’altro «non mi può dire che tipo di casa è quella là dietro, a circa cento passi dalla strada maestra?».

«Ah Gesù mio!» gridò l’uomo, in cui riconobbi immediatamente un rappresentante del più caro dei popoli tedeschi, quello sassone. «Egregio signore, sì che glielo posso dire, è la famosa fabbrica reale sassone di porcellane di Meißen!».


***


1 Fröbel Friedrich Wilhelm August (1782-1852), pedagogo tedesco, allievo di Pestalozzi per cui l’educazione moderna si basa sul riconoscimento dei bisogni particolari del bambino. Ha creato il concetto di «giardino per bambini» ed ha sviluppato giochi per infanzia chiamati «i regali di Fröbel».

2 Herbart Johann Friedrich (1776-1841), filosofo tedesco contrario all’idealismo, psicologo e fondatore della pedagogia come disciplina accademica. Sosteneva che il compito di un’educazione formale e rigorosa fosse quello di sviluppare le potenzialità presenti in ogni bambino mettendole al servizio della società, trasformandolo in un cittadino produttivo.

3 Lotze Hermann (1817-1881), filosofo e logico tedesco. Laureato in medicina, esperto di biologia, sosteneva che il mondo fisico fosse governato da leggi meccaniche.

4 Čičkov era il nome del protagonista del romanzo Le anime morte, celebre opera di Nikolaj Gogol. Čičkov è un proprietario terriero in viaggio per affari, ovvero per comprare “anime”, le “anime morte” dei contadini deceduti dopo l’ultimo censimento e che quindi risultano ancora in vita per la burocrazia.


[1890]