Brecce

La rivolta di Los Angeles

Il contesto di un sollevamento proletario

 
 
Il 29 aprile 1992 iniziò a Los Angeles quello che doveva diventare uno dei più importanti sollevamenti urbani del secolo negli Stati Uniti. L’esercito federale, la Guardia nazionale e le forze di polizia giunte da tutto il paese ci misero tre giorni a ristabilire l’ordine. Nel frattempo, gli abitanti di L.A. si erano riappropriati di milioni di dollari in merci e avevano distrutto proprietà del capitale per un valore superiore al miliardo di dollari.
 
Al di là delle immagini
Poiché la maggior parte delle informazioni che abbiamo sulla sommossa ci sono pervenute dai media capitalisti, è necessario valutare le distorsioni create. Proprio come durante la guerra del Golfo, i mass media hanno dato l’impressione di una totale immersione nella realtà mentre di fatto fabbricavano una versione falsificata degli avvenimenti. Ma, se durante la guerra del Golfo si sono prodigati in uno sforzo concreto di disinformazione, a Los Angeles la distorsione non è stata tanto prodotta dalla censura, quanto causata dalla totale incomprensione dei media di fronte a questa insurrezione proletaria.
Il pestaggio di Rodney King nel 1991 non era un incidente isolato e, se non fosse stato filmato, sarebbe passato inosservato — perduto nella logica della repressione razzista della polizia che caratterizza così bene il dominio capitalista in America. Ma, dal momento in cui questo accidente quotidiano è stato segnalato all’attenzione generale, ha acquisito il valore di un simbolo. Mentre il flusso dell’informazione televisiva annegava l’avvenimento nel corso dell’interminabile procedimento giudiziario, gli occhi degli abitanti di South Central [quartiere di L.A.] e non solo restavano fissi su un caso che focalizzava la loro rabbia nei confronti di un sistema di cui il calvario di King era la perfetta illustrazione. In tutto il paese, ma soprattutto a L.A., si sentiva e ci si aspettava che, qualsiasi fosse stato il risultato del processo, le autorità avrebbero tastato la rabbia popolare. Per gli abitanti di South Central, l’incidente King non è stato che una molla. Essi ignorarono gli appelli televisivi dell’interessato per fermare la sommossa, perché non era lui la causa. La ribellione scoppiò contro il razzismo esercitato giorno dopo giorno nelle strade e contro la repressione sistematica nelle metropoli, contro la realtà del razzismo quotidiano del capitalismo americano.
Una delle risposte preconfezionate dei media a situazioni del genere è di etichettarle come «rivolte razziali». Una simile caratterizzazione andò ben presto in frantumi a L.A., come annotò “Newsweek” in uno dei suoi resoconti sulla ribellione: «Malgrado giovani neri in collera che gridano: “Uccidiamo i bianchi”, gli ispanici e anche alcuni bianchi — uomini, donne e bambini — si unirono agli afro-americani. La prima preoccupazione della folla era la merce, non il sangue. In un ambiente di festa, i saccheggiatori si impadronirono di merci costose che erano improvvisamente diventate “gratuite”. La maggior parte dei negozi dei neri, così come quelli dei bianchi e degli asiatici, andarono in fumo». Quelli di "Newsweek" si rivolsero anche ad un "esperto" — un sociologo dell’urbanesimo — il quale dichiarò: «Non è stata una rivolta razziale, bensì una rivolta di classe».
Leggermente imbarazzati da questa analisi, interrogarono «Richard Cunningham, 19 anni, un impiegato dal pizzetto curato»: «Se ne fregano di tutto. La verità è che fanno festa. Hanno voglia di vivere come la gente che guardano in televisione. Vedono gente che possiede grandi case antiche, belle macchine e tutta l’apparecchiatura hi-fi che desiderano e, ora che è gratuito, se la prendono». Eppure il sociologo glielo aveva spiegato — una rivolta di classe.
A Los Angeles,  la composizione della sommossa riflette quella dei quartieri coinvolti: ispanici, neri e qualche bianco, tutti uniti contro la polizia;. Delle prime cinquemila persone arrestate, i Latinos poveri erano la maggioranza, più numerosi dei neri, e i bianchi costituivano solo una decima parte.
Di fronte a simili fatti, i media ebbero notevoli difficoltà ad incollare l’etichetta «rivolta razziale». Ebbero più successo nel presentare ciò che stava accadendo come violenza cieca e attacchi insensati delle persone contro la propria comunità. Non è l’assenza di logica in questa violenza che i media non amavano, ma è ben la logica che l’ha ispirata. Gli obiettivi più comuni erano i giornalisti e i fotografi, anche se neri e ispanici. Perché i rivoltosi hanno attaccato i media? Quelle carogne fanno correre un reale pericolo di identificazione ai rivoltosi, con le loro foto e i resoconti. E l’incredibile diluvio di «coperture» della ribellione faceva seguito ad anni di totale indifferenza nei confronti delle persone di South Central, a parte il presentarle come criminali o drogati.
Ma i tre aspetti fondamentali della ribellione sono stati il rifiuto della rappresentazione, l’appropriazione diretta della ricchezza e gli attacchi alla proprietà; gli insorti li hanno praticati tutti in modo deciso.
 
Il rifiuto della rappresentazione
Mentre la sommossa del 1965 si era limitata al quartiere di Watts, nel 1992 i rivoltosi hanno ampliato notevolmente il raggio della propria lotta. Il loro primo obiettivo era quello di superare i loro «rappresentanti». I dirigenti neri — politici locali, burocrati dei diritti civili ed organizzazioni religiose — avevano fallito nella loro funzione di controllo della propria comunità. Altrove negli Stati Uniti, questa cricca è riuscita in larga misura a stornare la rabbia dei rivoltosi, riuscendo a bloccare il contagio della ribellione. Ma la lotta si era diffusa — benché i disordini negli altri agglomerati non abbiano conosciuto l’intensità delle sommosse di L.A., dove i rappresentanti, eletti o autoproclamatisi tali, vennero superati, non potendo fare nulla. I rivoltosi hanno mostrato lo stesso disprezzo per i propri «leader» dei loro predecessori di Watts. I progressi ottenuti nel corso degli anni da una parte di neri, la loro posizione di mediatori tra la «propria» comunità e il capitale e lo Stato — tutto ciò si rivelò irrilevante. Mentre i leader della comunità nera si sforzavano di trattenere gli abitanti, «i leader delle bande, brandendo spranghe di ferro, bastoni e mazze da baseball, esortavano le teste calde a non saccheggiare i loro stessi quartieri, ma ad attaccare i ricchi quartieri occidentali».
 
Attacchi contro la proprietà
Gli insorti usavano i telefoni cellulari per ascoltare la polizia. Le autostrade che tanto avevano fatto per dividere le comunità di L.A. vennero usate dai rivoltosi per estendere la lotta. Gruppi di neri e di ispanici percorrevano gran parte della città in auto, incendiando i bersagli — i magazzini e i luoghi dello sfruttamento capitalista —, mentre altrove si formavano ingorghi attorno ai centri commerciali via via che venivano liberati del contenuto. È stata, non solo la prima sommossa multietnica degli Stati Uniti, ma anche la prima rivolta in automobile. La polizia è stata completamente superata dalla creatività e dall’ingegno dei rivoltosi.
 
L’appropriazione diretta
«Il saccheggio, che distrugge all’istante la merce in quanto tale, rivela anche ciò che la merce in definitiva implica: l’esercito, la polizia e gli altri distaccamenti specializzati del monopolio statale della violenza armata». Una volta che i rivoltosi ebbero cacciato la polizia dalle strade, il saccheggio fu chiaramente un aspetto determinante dell’insurrezione. La ribellione a Los Angeles è stata una esplosione di rabbia contro il capitalismo, ma anche un’irruzione di ciò che avrebbe potuto prenderne il posto: la creatività, l’iniziativa, la gioia.
«Saccheggiatori di ogni razza erano padroni delle strade, dei magazzini e dei negozi. Qui, adolescenti biondi riempivano i loro furgoni di materiali hi-fi. Là, alcuni filippini ammucchiavano guantoni da baseball e scarpe da tennis nella loro vecchia bagnarola scoppiettante. Madri di famiglia ispaniche, accompagnate dai bambini, curiosavano nelle vetrine spalancate dei piccoli centri commerciali e dei negozi di abbigliamento. Vi si vedeva anche qualche asiatico. Mentre il saccheggio a Watts era stato furioso, disperato e astioso, questa volta il clima era piuttosto quello di una festa scatenata».
La riappropriazione diretta delle merci (definita in modo denigratorio «saccheggio») rompe il circuito del capitale (lavoro-salario-consumo) e simili azioni risultano inaccettabili tanto quanto uno sciopero. Del resto è vero che, per gran parte della classe operaia di L.A., una rivolta sui luoghi di produzione è impossibile. Tra il desiderio costante di una «bella vita» fuori portata (le merci che non possono avere) e la contraddizione inerente alla più semplice merce (il valore d’uso di cui hanno bisogno è sempre colpito da un prezzo), essi sperimentano le contraddizioni del capitale, non nella sfera della produzione alienata, ma in quella del consumo alienato; non nel lavoro, ma nella circolazione delle merci. [...]
 
Razza e composizione di classe
Dunque, persino “Newsweek”, voce della borghesia americana, dovette concedere che quanto successo era una «rivolta di classe» e non una «rivolta razziale». Ma, nell’identificare gli avvenimenti come una ribellione di classe, non dobbiamo negare la presenza di aspetti «razziali». La cosa più importante in queste sommosse è che si estesero a tal punto che le divisioni razziali presenti all’interno della classe operaia americana vennero superate nell’atto della rivolta — ma sarebbe ridicolo affermare che l’aspetto razziale fosse assente. Ci furono in effetti degli incidenti «razziali»: ma in cosa questi sono stati espressione del conflitto fra le classi? Tra la folla che ha scatenato gli eventi all’incrocio delle strade di Normandia e di Firenze, alcune persone si sono accanite su un camionista bianco, Reginald Oliver Denny. I media, approfittando di quel pestaggio, lo avevano trasmesso in diretta allo scopo di alimentare la paura che i neri dei quartieri centrali ispirano alla periferia bianca. Ma questo incidente era significativo? L’analisi dei morti registrati durante il sollevamento dimostra che non lo era. 
Vediamo quindi come la guerra di classe si esprime in modo «razziale».
Negli Stati Uniti le classi dirigenti hanno sempre incoraggiato e manipolato il razzismo, a partire dal genocidio dei nativi americani, passando per la schiavitù dei neri, fino all’uso permanente dell’etnicità per dividere la forza lavoro. L’esperienza della classe americana nera è in gran parte quella d’essere stata cacciata dal proprio impiego dalle ondate successive di nuovi immigrati. Mentre la maggior parte delle minoranze che hanno cominciato ad occupare i gradini più bassi del mercato del lavoro si è in seguito elevata nella società americana, i neri sono stati costantemente superati. Ancor peggio, il conseguente razzismo è servito a soffocare la coscienza di classe degli operai bianchi.
A Los Angeles, in particolare, gli abitanti di South Central costituiscono uno dei settori più marginalizzati della classe operaia. La strategia del capitale nei confronti di questi settori è unicamente repressiva, una repressione condotta dalla polizia — una soluzione di classe. Ad ogni modo, il LAPD (Dipartimento di Polizia di Los Angeles) è composto essenzialmente da bianchi e le sue vittime sono soprattutto neri o ispanici («persone di colore», per parlare il "politicamente corretto"). Contrariamente alle altre città, dove la natura razziale del conflitto è mascherata dal successo dello Stato nella politica di reclutamento di un gran numero di neri nelle forze di polizia, a Los Angeles la strategia razzista di divisione e di argine si rivela un po’ di più ad ogni confronto fra la popolazione e il LAPD — una soluzione razziale.
Poiché i neri e gli ispanici di L.A. sono emarginati e oppressi per via del colore della loro pelle, non è affatto sorprendente che, nell’esplosione di rabbia di questi poveri contro i loro oppressori, il colore della pelle abbia potuto servire da criterio per identificare i nemici, così come è stato fatto contro di loro. Quindi, anche se la sommossa non fosse stata che una «rivolta razziale», si tratterebbe comunque di una rivolta di classe. È importante notare anche fino a che punto i partecipanti abbiano saputo superare gli stereotipi di razza. Mentre gli attacchi contro la polizia, la riappropriazione e gli attacchi contro la proprietà, erano considerati utili e necessari da quasi tutti i partecipanti, è evidente che gli attacchi contro individui in base al colore della loro pelle non furono né tipici del sollevamento, né largamente sostenuti. Nel contesto razzista dell’oppressione di classe a L.A., sarebbe stato sorprendente se non ci fosse stato un elemento razziale presente nella rivolta. Ciò che sorprende e gratifica è vedere fino a che punto ciò non sia avvenuto, è la maniera in cui gli insorti hanno eluso le strategie razziste di controllo. [...]
 
Composizione di classe e ristrutturazione capitalista
La classe operaia americana è divisa fra salariati e non-salariati, colletti blu e bianchi, lavoratori immigrati e nazionali, garantiti e precari; ma in più è divisa secondo dei criteri etnici che spesso riproducono tali distinzioni sociali. Inoltre queste divisioni sono divisioni reali in termini di potere e di rivendicazioni. Non possiamo coprirle semplicemente con un appello all’unità di classe o attraverso la credenza fatalista che, finché la classe operaia non sarà unita dietro a un partito di tipo leninista, o ad una qualsiasi avanguardia, sarà impossibile attaccare il capitale. Nella situazione americana, così come in molte altre zone del conflitto di classe planetario, è necessario utilizzare la nozione dinamica di composizione di classe, piuttosto che una nozione statica di classi sociali.
La rivolta di South Central a Los Angeles e le azioni che ne scaturirono attraverso tutti gli Stati Uniti hanno dimostrato la presenza di un soggetto proletario antagonista all’interno del capitalismo americano. Una presenza occultata da un duplice processo: da un lato la coscienza di classe — quella dell’opposizione al capitale — di numerosi lavoratori americani è falsata dal sentimento, assai esteso, di appartenere alla «classe media»; dall’altro un'importante minoranza, circa un quarto della popolazione del paese, è stata ricomposta in masse di lavoratori sottoqualificati ed esclusi, sotto l’etichetta di «sotto-classe» (underclass), dall’appartenenza alla società. L’invenzione di una simile categoria sociologica trova la propria base materiale nel fatto che alcuni strati «privilegiati» del proletariato beneficiano di un crescente accesso ai prodotti «di lusso», mentre gli strati «sfavoriti», esclusi da ogni consumo diverso dalla pura sussistenza, sono ridotti alla disoccupazione, agli impieghi precari o al lavoro nero.
Una simile strategia comporta dei rischi per il capitale: mentre il settore integrato è tenuto in riga dalla forza bruta dei rapporti economici, assecondato dalla paura di sprofondare nell’esclusione, gli esclusi per cui il sogno americano è diventato un incubo devono essere governati con l’uso della pura repressione poliziesca. In un simile contesto repressivo, la guerra contro la droga è servita da pretesto a misure che minacciano sempre di più i «diritti civili» che la società borghese, specialmente in America, si è incaricata di promuovere nel mondo intero. [...]
 
Nota sull’architettura ed i postmodernisti
Si dice che Los Angeles sia la «città del futuro». Negli anni trenta la visione modernista degli interessi commerciali prevalse e la rete tramviaria di L.A. — uno dei migliori sistemi di trasporto urbano del paese — venne sradicata e sostituita dalle autostrade. Fu a Los Angeles che Adorno e Horkheimer tracciarono per la prima volta il quadro melanconico della coscienza sussunta dal capitalismo e dove in seguito Marcuse definì l’uomo «unidimensionale». Più recentemente, Los Angeles ha ispirato la moda del postpensiero. Baudrillard, Derrida e altre lordure postmoderniste e poststrutturaliste, hanno tutti visitato la città e vi si sono esibiti. Baudrillard vi scoprì addirittura «l’utopia compiuta».
Gli adulatori «postmoderni» del capitalismo adorano l’architettura di Los Angeles, le sue autostrade senza fine e il suo centro ristrutturato. Scrivono panegirici allo spazio sublime all’interno dell’hotel Bonaventura, a 200 dollari la notte, ma tacciono a proposito della distruzione dello spazio pubblico che avviene al di fuori. I postmodernisti, tutti felici di estendere questo termine dall’architettura all’intera società e persino all’epoca stessa, sono riluttanti ad approfondire la loro analisi dell’architettura anche solo di un centimetro al di sotto della superfice. Gli edifici «postmoderni» di Los Angeles sono stati costruiti grazie al flusso di capitali principalmente giapponesi. Downtown, il quartiere degli affari, è diventato il secondo centro finanziario delle sponde del Pacifico dopo Tokio. Ma la sua ricomposizione urbana è avvenuta a scapito degli abitanti dei quartieri poveri. Tom Bradley, vecchio sbirro e sindaco dal 1975 al 1993, ha giocato a meraviglia il ruolo di figura di punta nero della ristrutturazione capitalista di L.A. Ha sostenuto la massiccia operazione di risviluppo del centro cittadino, avvenuta unicamente a beneficio del commercio. Nel 1987, su richiesta della camera di commercio della città, ha ordinato la distruzione degli accampamenti di fortuna dei senzatetto (homeless) installati sui marciapiedi della città; a Los Angeles, la cifra stimata dei senzatetto è di 50.000, 10.000 dei quali bambini. In tutto l’agglomerato, la pianificazione della città ha comportato la distruzione degli alloggi e dei posti di lavoro per operai, al fine di fare piazza pulita per lo sviluppo dell’attività commerciale impegnata dal capitale della zona Pacifico — a Los Angeles il capitale internazionale assedia la classe operaia.
Ma i postmodernisti non hanno nemmeno avuto bisogno di guardare i retroscena di questo processo, poiché basta dare una occhiata a queste nuove costruzioni per coglierne la natura violenta. Ciò che caratterizza l’architettura di Los Angeles è la sua militarizzazione. L’urbanesimo a Los Angeles è prima di tutto una questione di polizia. La caratteristica dominante dell’ambiente di L.A. è la presenza di barriere di sicurezza, di tecnologie di sorveglianza — lo spazio è poliziesco. Gli edifici pubblici, come i centri commerciali o le biblioteche, sono costruiti come fortezze, circondate da alte mura di sicurezza e dotate di telecamere di sorveglianza.
A Los Angeles, «sul versante cattivo della postmodernità, è possibile osservare una tendenza senza precedenti ad integrare la pianificazione urbana, l’architettura e l’apparato poliziesco in un solo ed unico sforzo di sicurezza totale» (Davis, Città del quarzo). Così come Haussmann aveva ridisegnato Parigi dopo la rivoluzione del 1848, costruendo viali che permettessero di utilizzare l’artiglieria contro la folla, gli architetti e gli urbanisti hanno ricostruito L.A. dopo le sommosse di Watts. Lo spazio pubblico è stato chiuso allo scopo di abolire la strada per abolire la folla. Una simile strategia non è tipica di Los Angeles, ma qui essa sfiora l’assurdo: la polizia cerca così disperatamente di «abolire la folla» che ha addirittura preso una misura senza precedenti, quella di abolire i gabinetti pubblici. Attorno alle sedi di uffici vengono disegnati musei e «micro giardini pubblici» paesaggistici all’interno dei parcheggi, al fine di permettere agli impiegati di andare dall'automobile al lavoro o al negozio senza esporsi ai pericoli della strada. Tutto lo spazio pubblico rimanente è militarizzato, dai sedili «antibarboni» delle pensiline degli autobus ai sistemi automatici di irrigazione che impediscono alla gente di dormire nei parchi. I quartieri dove vive la classe media bianca sono circondati da muri e guardie giurate. Durante le sommosse, i residenti di queste enclave sono fuggiti o si sono armati nervosamente. [...]
 
Conclusione
La rivolta di Los Angeles ha segnato un grande passo avanti nella lotta di classe globale. Nell’appropriazione diretta e nell’attacco ai luoghi dello sfruttamento capitalista, l’insieme della popolazione di South Central ha sentito la propria forza. C’è il bisogno di andare avanti. La lotta ha politicizzato la popolazione. La tregua è fondamentale — i proletari devono smettere di ammazzarsi tra di loro. Il LAPD è preoccupato e sta certamente considerando le misure che deve adottare per spezzare l’unità delle bande che dopo le sommosse di Watts si era venuta a creare. La polizia teme la tregua e l’ondata di politicizzazione che ne può scaturire. Questa politicizzazione dovrà andare oltre il nazionalismo nero e le tendenze recuperatrici dei dirigenti delle bande — è necessario un altro passo in avanti. Ci sono i segnali che il proletariato sia in grado di compiere questo passo, come dimostrano la natura multietnica del sollevamento e le azioni di solidarietà avvenute in tutto il paese.
Per anni i governanti americani hanno potuto lasciare che gli abitanti del ghetto si ammazzassero fra di loro. Nel maggio del ‘92 le loro armi si sono rivolte contro l’oppressore. Una nuova ondata di lotte è iniziata.
 
 
[tratto da Aufheben n. 1, estate 1992]