Contropelo

Perché si fa qualcosa piuttosto che niente?

Guillaume Paoli
 
«Motivati, motivati
Bisogna motivarsi»
ritornello neotrotskista
 
Per far andare avanti un asino, non esiste mezzo più provato del proverbiale uso della carota e del bastone. Questo almeno è quanto narra la leggenda. Avendo io stesso conosciuto un certo numero di conduttori d'asini, non ne ho mai visto nessuno fare ricorso a questo metodo. Ma che importa il carattere accertato della cosa, si tratta di una metafora che, come molte espressioni colorite forgiate dal genio popolare, racchiude e condensa fenomeni molto più complessi di quanto può sembrare a prima vista. Notiamo innanzitutto che è proprio questione di bastone e di carota, non dell’uno o dell'altro. Non si tratta di un'alternativa, ma di un rapporto dialettico tra i due termini. Niente carota senza bastone e viceversa. Il solo bastone, la coercizione fisica, non è sufficiente a provocare un avanzamento continuo e determinato dell'animale. L'asino battuto si scrolla, fa magari qualche metro controvoglia, ma alla prima occasione smetterà di camminare. Per usare il linguaggio dei manager: l'effetto delle bastonate non è performante. Infatti, la loro vera efficacia è indiretta, come minaccia permanente suscettibile di essere messa in atto al minimo allentamento dello sforzo. È sufficiente che l'asino sappia che in caso potrebbe essere bastonato, sia che ne abbia esso stesso il cocente ricordo, sia che ne abbia l'esempio attorno a sé. Si metterà allora in movimento, non per ottenere uno scopo, ma nella preoccupazione tattica di evitare il dolore. Gli esperti parlano a questo proposito di una «motivazione secondaria negativa». Nell'ipotesi ottimale, non sarà mai nemmeno necessario picchiare l'animale, avendo questo perfettamente interiorizzato la minaccia. Il suo «bastone interiore» lo considererà perfino un progresso della condizione asinina, si dirà: «Non dobbiamo lamentarci, una volta i nostri simili venivano picchiati crudelmente, oggi la vita è più clemente per noi». Il filosofo Norbert Elias chiamava questa disposizione mentale processo di civilizzazione dei costumi. Eppure, ogni pedagogo lo sa bene, il timore della punizione deve essere accompagnato dalla speranza in una ricompensa. La coercizione senza seduzione non funziona a lungo. Non si agisce mai solo per evitare qualcosa, ma anche per ottenere una gratificazione.
È qui che interviene la carota, che viene agitata attaccata ad una pertica davanti al naso dell'animale. Se i fenomeni psicologici che entrano in gioco sul versante «bastone» del dispositivo sono relativamente grossolani, quelli che intervengono dal lato «carota» sono molto più complessi. Per cominciare, non solo l'asino deve vedere la carota, ma non deve vedere altro; occorre quindi fare in modo che ogni altro oggetto di desiderio sparisca dalla sua vista. È a tale scopo che vengono utilizzati da tempo immemorabile quei giudiziosi accessori chiamati paraocchi. Esistono, a seconda del tipo di sviluppo dei somari, diversi tipi di paraocchi. Può essere ad esempio un particolare sistema di illuminazione, che lascia nell’ombra tutto ciò che potrebbe distrarlo dall'obiettivo fissato. Oppure un'ideologia assimilata al male assoluto o anche ad un'utopia irrealistica, tutto ciò che non è la carota. Tuttavia, per efficace che sia, questo metodo è ancora coercitivo. Può accadere che l'asino si ribelli contro la restrizione autoritaria del suo campo visivo. E ricordiamoci che lo scopo dell'uso della carota è proprio di promuovere un comportamento libero e volontario. È facile capire che il modo migliore per focalizzare la volontà su un oggetto singolare è quello di fare il vuoto intorno, che attorno all'animale non ci sia nulla che possa distrarre la sua voracità. Nel deserto, non c'è alcun bisogno di paraocchi. Bisogna quindi fare il deserto.
Una volta catturata l'attenzione della bestia, c’è ancora tutto da fare. In quanto siamo ancora in presenza di due volontà distinte. L'asino vuole mangiare la carota, il conduttore dell'asino vuole farlo avanzare. Come far coincidere i due? L'animale deve sostituire al suo motivo intrinseco (la fame, l’ingordigia) il motivo estrinseco che gli viene rappresentato (la carota e il movimento per ottenerla). Questa fase si definisce identificazione. Poi, allorché rimane colpito, dovrà modificare il suo comportamento e fare lo sforzo appropriato per soddisfare la sua aspettativa. La cosa avrà tante più probabilità di successo quanto il soggetto sarà convinto di agire volontariamente e libero da ogni influenza esterna. È la fase detta di adattamento. Questa è facilitata nei mammiferi con una natura più gregaria degli asini, mettiamo dei colleghi. Perché qui entra in gioco un fenomeno decisivo. Ogni collega particolare pensa di dover fare un passo. Perché? Perché è convinto che tutti gli altri colleghi faranno quel passo. È ciò che si chiama emulazione, o libera concorrenza. Ciascuno crede di non poter fare a meno di credere, per la sola ragione che tutti gli altri credono, «tutti gli altri» è la somma di quei ciascuno che credono, ecc. È così che una fede si oggettivizza in «realtà imprescindibile».
La fase successiva del processo si potrebbe definire: il fallimento ben sublimato. Perché, ovviamente, non esiste che lo scopo possa essere raggiunto, altrimenti l'asino si fermerebbe sul posto per godere del frutto del suo sforzo e tutta l'impresa sarebbe stata vana. Tuttavia bisogna anche impedire che l'animale abbandoni la speranza di raggiungere i suoi fini, cosa che comprometterebbe altrettanto il suo cammino in avanti. La soddisfazione deve apparire come sempre rimandata, mai compromessa. Lo sforzo infruttuoso deve essere ricompensato, cioè rimesso in gioco con uno sforzo maggiore. Questo momento è il più delicato. È qui che intervengono consulenti dal pensiero positivo che abbeverano gli asini con massime come questa, attribuita a Churchill: «La riuscita è la capacità di volare da un fallimento all'altro senza perdere il proprio entusiasmo».
Una volta raggiunto questo stadio, il peggio è passato. Perché a quel punto si può contare su un altro fattore collaudato chiamato routine. L'animale proseguirà il suo slancio, per velocità acquisita, per così dire, senza più porsi la domanda del perché. Più esattamente, questa domanda gli si rovescerà. Si chiederà: perché dovrei smettere? Ciò che importa adesso, non è più la pertinenza del motivo che l’ha messo in moto, ma l'assenza di motivi alternativi sufficientemente forti per fargli rimettere in discussione il comportamento adottato. Inoltre, finché non si presenterà una ragione imperiosa che modifichi il suo comportamento, proseguirà nel suo sforzo.
Ammettiamolo, il fatto che gli asini si facciano sistematicamente raggirare da procedimenti così elementari non va davvero a favore del loro discernimento. A loro difesa, bisogna comunque ricordare che non si è mai visto un sindacato di somari manifestare rivendicando «più carote e meno bastoni! ». Ed è un dato di fatto, è accaduto che alla fine della strada gli asini più meritevoli abbiano davvero potuto mordere la carota più succosa. Perlomeno un tempo. Perché il contesto globale non permette più questa forma di generosità. Sottoposti a un’aspra concorrenza, i proprietari degli asini non sono più disposti a sprecare costose carote in movimento. Per ridurre i costi del lavoro, le sostituiscono con immagini variopinte, o magari ingaggiano dei comunicatori con l’incarico di persuadere i loro dipendenti che la pertica in cima alla quale non c’è nulla è essa stessa una pietanza succulenta. Oppure che il bastone si trasformerà in carota il giorno in cui verrà sufficientemente ben assestato sulle loro schiene. I loro sforzi sono ammirevoli.
Quella che ho appena abbozzato a grandi linee non è altro che la teoria della motivazione così come viene distillata in austeri trattati di psicologia e praticata in costosi seminari. Che cos'è un motivo? È, primariamente, ciò che spinge al movimento; per estensione: una ragione per agire. La motivazione è quindi la fabbricazione e la diffusione di motivi destinati a far muovere le persone nella direzione considerata utile, o per parlare la lingua di quest'epoca: per renderle sempre più flessibili e mobili.
In tutti i settori della società odierna, infuria la battaglia per la motivazione. I disoccupati ottengono un diritto all'esistenza solo fornendo le prove di un impegno incessante nella ricerca di impieghi inesistenti. Durante il colloquio di lavoro, non sono tanto le competenze che contano quanto l'esibizione entusiasta di una sottomissione senza pecche. Coloro che hanno ancora un posto possono sperare di conservarlo solo identificandosi anima e corpo con l'azienda, lasciandosi condurre dove questa lo esige, sposandone la «causa» nel bene — e, il più delle volte, nel male. E il dovere di motivazione non si ferma all'uscita dell'ufficio. Si impone allo stesso modo al consumatore, a cui viene intimato di essere attento alle nuove linee di prodotti e di confermare la sua fedeltà ai marchi che hanno saputo attrarlo. All'adolescente che deve formarsi — o forse bisognerebbe dire formattarsi — in base alle esigenze del mercato, nonché al vecchio che deve pagare il suo debito a un mondo che ha avuto la bontà di mantenerlo in vita. E quale che sia la sua età, al telespettatore — che deve offrire quantità sempre maggiori di cervello disponibile a ricevere il flusso continuo di informazioni che si presume costituiscano il suo rapporto con la realtà. Una volta spenta la televisione, restano ancora tutti gli artisti che vogliono farlo muovere, i militanti che vogliono mobilitarlo, il tempo e le relazioni che deve gestire, la propria immagine che è obbligato a dinamizzare, insomma non un istante che non venga posto sotto il segno dell'utile, sotto l'imperativo categorico del movimento. Quante carote, per asini tanto sventurati!
La motivazione è una questione centrale dell'epoca ed è chiamata a diventarlo sempre di più. Anzitutto, lo esige la mercificazione integrale. Oggi non esiste desiderio, né aspirazione, né tanto meno pulsione che non siano oggetto di commercio. I prodotti fari che dominano il mercato non sono oggetti qualsiasi che si presuppone rispondano a questo o a quell'uso, ma elementi prefabbricati di un modo di vivere. Occorre inoltre che il cliente s'identifichi in essi, che faccia propri i motivi con cui viene martellato. Ognuno ha in sé parte di ciò che una volta si definivano «passioni dell'anima», ed anche  l'eredità di tradizioni precedenti (o almeno ciò che ne resta). Tutto questo bagaglio deve essere mobilitato, rimodellato, confezionato, etichettato, reso scambiabile con un prodotto di valore equivalente. Tanto a monte, in ciò che si chiama ancora lavoro, che a valle, in ciò che per convenzione si chiama consumo (benché i due momenti possano distinguersi sempre meno), si tratta di fare in modo che lo spirito delle persone sia completamente occupato da questo compito infinito.
La seconda ragione per cui la motivazione è più che mai cruciale, è che i motivi intrinseci degli individui, ai quali le istituzioni sociali un tempo pretendevano di rispondere (citiamo fra gli altri il bisogno di stabilità, la sete di riconoscimento, il piacere della reciprocità, la speranza di vivere meglio) sono stati sistematicamente annientati dalla colonizzazione mercantile. Gli ideali e le promesse che, anno dopo anno, avevano fatto passare non pochi compromessi e rinunce sono ormai combattuti come altrettanti arcaismi di cui conviene disfarsi in fretta. Se si devono motivare di continuo le persone è perché sono sempre più demotivate. Nella sfera dell'impiego, tutti gli indicatori (in senso statistico, come in senso poliziesco) testimoniano un calo dell'«investimento» dei salariati nel loro impiego. Questo non solo tra i lavoratori precari e mal pagati, ma anche tra i dirigenti e gli alti funzionari. Nella sfera del consumo, ora la grande distribuzione si preoccupa per la crescente disaffezione dei clienti, dovuta a quanto pare più ad un effetto di saturazione, ad un calo del desiderio d'acquisto, che al famoso «calo del potere d'acquisto». Nella sfera dei media, l'uniformità delle informazioni (sia nella forma che nel messaggio) sembra causare una perdita di credibilità altrettanto globale. Quanto alla sfera politica, il principio dei vasi comunicanti tra governo e opposizione, secondo cui la diminuita popolarità dell'uno determina un corrispondente rialzo di quella dell'altro, ha generalmente cessato di essere applicato alle nazioni democratiche. A pensiero unico, disinteresse unanime. In modo più generale, «l'imperativo della crescita», a cui tutto il resto è subordinato, ma di cui si distingue sempre meno lo scopo, non basta più a legittimare i sacrifici che si presume comporti.
Insomma, più la motivazione delle persone è necessaria ai mercati, più essa fa difetto. Più l'apparato tecnico del sistema diventa irresistibile, minore è la sua capacità di provocare l'adesione volontaria. Nel momento stesso in cui il capitale globale sembra essere venuto a capo di tutti gli ostacoli esterni che ancora lo ostacolano, arriva a minacciarlo un fattore interno: la crescente disaffezione delle risorse umane, senza le quali esso non è niente. È il ventre molle del colosso. Contrariamente a quanto pensava Marx, alla fine potrebbe essere che il limite del World Trade Inc. non sia oggettivo, ma soggettivo, vale a dire: la caduta tendenziale del tasso di motivazione. Fra tutte le ragioni che vi contribuiscono, la sindrome dell'ingorgo occupa un posto di rilievo. La cosa è risaputa: ognuno si è comprato la macchina che gli prometteva libertà individuale, velocità e potenza, per ritrovarsi alla fine fermo sull'autostrada a causa di tutti gli altri che, animati dagli stessi motivi, hanno fatto lo stesso. Ma a quel punto è troppo tardi per fare a meno di un'auto. Ed ecco che viene lanciato un nuovo prodotto, che si ritiene garantisca a sua volta la distinzione e l'autonomia del suo acquirente. E tutti si precipitano, con gli stessi effetti ovviamente. Non è nemmeno esatto a questo proposito dire che ci ritrovavamo in un ingorgo; la crudele verità è che noi siamo l'ingorgo! Ora, man mano che le congestioni si estendono da un segmento di mercato all'altro, la durata di vita dei motivi che si presume si abbiano diminuisce. Si è costretti a rilanciarne di nuovi alla bell’e meglio, ma allora sono i motivi stessi che finiscono con l'imbottigliarsi. Non solo gli individui saturi di sollecitazioni non sanno più dove sbattere la testa, ma l'ingorgo si forma anche nella direzione opposta, dalle marche ai clienti sempre più difficili da raggiungere.
E non è tutto, perché l'accesso all'ingorgo richiede un eccesso di lavoro sempre più mal pagato. È logico: più persone si ritrovano imbottigliate, meno la parte proporzionale di ciascuno ha valore, e più essa diventa intercambiabile. C’è sempre qualcun altro, da qualche parte, pronto a fare per una tariffa inferiore quello che fate voi. Il fossato tra la terra promessa vista in TV e l'esistenza concreta si approfondisce di conseguenza. Sono passati i giorni in cui il Progresso prometteva non solo più merci, ma anche meno lavoro. Ormai, ogni individuo sottomesso al mercato riceve in permanenza una doppia ingiunzione contraddittoria: riduci le tue pretese salariali, e aumenta il tuo consumo; sii creativo e ammetti che non ci sono alternative; sii leale e non dimenticare che sei facilmente rimpiazzabile; fai valere la tua individualità e fonditi nella squadra; sii egoista e abbi vergogna di difendere i tuoi interessi; godi e stai in astinenza. Se obbedirete ad uno dei due ordini, infrangerete il secondo. Sarete così motivati, a queste condizioni!
Molti fanno la constatazione di questa crisi di motivazione per deplorarla. Io credo invece che occorra considerare questo stato di cose come una possibilità. Chi diffida del modo in cui vanno le cose fa bene a rallentare il passo. Chi dubita dell'esito della fuga in avanti sta attento a sottrarsi alle carote agitate sotto il suo naso. Se lo sviluppo capitalista ha come condizione primordiale la motivazione dei suoi agenti, è logico dedurre che per gli avversari e le vittime di questo sviluppo la motivazione sia una tappa necessaria.
Quando ho detto attorno a me che mi riproponevo di fare questo elogio, ho notato una certa riprovazione, almeno una incomprensione manifesta dei miei interlocutori. Sottinteso: come se non si fosse abbastanza demotivati così! L’attuale epoca non soffre al contrario di anomia cronica, di una drammatica assenza di motivi? Il problema non è piuttosto che gli ideali, gli obiettivi generosi, le utopie, le ragioni di agire che animavano le generazioni precedenti si sono dissolti sulla superficie del campo sociale? E certamente, un catalogo dei motivi oggi assomiglierebbe più, per dirla alla Duchamp, a un cimitero di uniformi e livree.
Guardiamo a sinistra: dove sono finite le strategie di rottura, l'autogestione, il potere dei soviet, i domani pieni di promesse? Certo, c'è stata la sconfitta di coloro che hanno creduto che il socialismo esistesse già da qualche parte. Ma anche la smentita, inflitta dall'esperienza, che un metodo scientifico potesse garantire il cambiamento sociale. Ancora più nel profondo la perdita della bella certezza che la storia avesse un «senso» che, magari per vie traverse, avrebbe condotto l'umanità verso un avvenire radioso. Infine, l'insidioso dubbio che tutte queste utopie normative siano davvero praticabili, e anche auspicabili. E i militanti che cercano di rilanciare, pur senza crederci troppo nemmeno loro, l'inseguimento del vento.
Ma guardiamo anche a destra: cosa sono diventate le istituzioni ed i valori che ancora fino a pochi decenni fa, si spacciavano per pilastri indispensabili dell'ordine e della civiltà? La nazione, il patriottismo, la chiesa cattolica e apostolica, il servizio militare, la cultura borghese, il patriarcato, l'arrosto della domenica in famiglia? Si sono sciolti come i ghiacciai sotto l'effetto serra, e non è certo dovuto agli sberleffi che da adolescenti ritenevamo ancora necessario fare loro. Erano già moribondi allora, oggi si contano fra quelle specie cosiddette «estinte in natura». Bisogna andare allo zoo per vederne ancora.
E poi guardiamo al centro: cosa resta della «più grande felicità del maggior numero possibile» con sicurezza sociale e certezza del posto di lavoro, aumento del tempo libero, partecipazione democratica, progresso dell'istruzione e della sanità pubblica, pensione e sepoltura repubblicana garantite? Tutti gli elementi di quel conforto tiepido ma sicuro che erano assimilati alla normalità stessa sono adesso spazzati via come immondizia dopo le danze del glorioso trentennio. La scala in dolce pendenza di cui si salivano con cautela i pioli, uno dopo l'altro, ha condotto a una voragine. Gli uni si aggrappano, gli altri cadono, è la dura legge della concorrenza.
Infine, guardiamo in aria, voglio dire fra gli intellettuali: ci sono «simulacri dappertutto!», la postmodernità, la poststoria, il postumanismo, la postcritica, qualsiasi cosa purché sia «post», ed ora pure «postpost». Certo, si può sorridere di questa forma di elegante rassegnazione  («non abbiamo nulla da sperare da una cattedra universitaria»); ma essa riflette a suo modo uno stato d'animo molto diffuso: la sensazione che, anche se nulla va più, i giochi sono fatti, il futuro è finito, il conflitto impossibile. Se non è l'estrema destra, gli islamisti, gli omofobi o i fumatori, ovvero tutto ciò che pretende ancora di incarnare il mondo di ieri, ci si chiede cosa potrebbe essere oggi in grado di provocare la rabbia pubblica. Una tale assenza di speranza non è tuttavia disperazione, perché c'è un'energia della disperazione; non è nemmeno inerzia, al contrario: bisogna che tutto «si muova», sempre più velocemente. È nichilismo maniaco-depressivo.
La differenza tra antichi, moderni e postmoderni si presenta come segue: gli antichi sapevano di credere; i moderni credevano di sapere; e i postmoderni credono di non credere più a niente. È proprio quest'ultima convinzione che bisogna demolire. Ciò che conviene criticare nell’atteggiamento disilluso di chi è tornato da tutto senza essere mai andato da nessuna parte, non è la delusione ma, al contrario, tutte le illusioni che tale atteggiamento nutre ancora su questo mondo che definisce disincantato quando abbonda di sortilegi, riti magici e carote sacre. Perché, se gli antichi idoli sono stati gettati nel falò delle vanità, è nel nome di un monoteismo tanto più accaparratore essendo rimasto il solo in lizza. Se non viene visto, è perché è dappertutto, e può quindi presentarsi come la sola verità, nuda e inevitabile.
Tutto è stato decostruito, demistificato, smantellato, screditato, superato, decomposto, affettato, digerito, defecato. Tutto? No. Il mercato, nessuno lo tocca. È tabù. Prolifera come quell’alga che si appropria inesorabilmente dello spazio dedicato alle altre specie. È la religione del World Trade Inc. Ora, così come il cristianesimo non solo aveva soppresso le divinità pagane, ma le aveva integrate nel suo sistema sotto la forma degenerata della vergine e di tutti i santi, il monoteismo del mercato non ha annientato i motivi umani che gli erano estranei: se li è accaparrati snaturandoli, riformattandoli per renderli conformi ai suoi fini, fino a renderli irriconoscibili. Credere che la motivazione sia assente in questo mondo, è disconoscere le forme mutanti attraverso cui si esercita.
Bisogna precisare che non si vuole fare la cinica apologia di uno stato sociale in cui vegeterebbe una moltitudine apatica e ignava. La mancanza di gusto per la vita e l'asfissia delle passioni sono solo il rovescio della mobilitazione totale richiesta dal World Trade Inc. da cui sono generate. Non si cura la bulimia con l'anoressia! No, l'obiettivo di un addestramento alla demotivazione di cui questo piccolo trattato propone solo qualche modesto preliminare sarebbe piuttosto di staccarsi dai dispositivi destinati a condurre al mercato gli asini che siamo tutti, di smontarne metodicamente i meccanismi che fanno sì, malgrado tutto, che funzioni.
Mi si dirà: è troppo poco, occorrerebbe anche dare alle persone delle ragioni per agire, motivandole nella ricerca di un mondo migliore, mostrare loro immagini esemplari del bene comune, del bello, del giusto, ecc. Ma no. Non sono del parere che debba essere questo il ruolo della critica. L’autolimitazione è di rigore. Se ci si oppone al fatto che le energie vengano catturate dalla forza esterna dei mercati, non è per prescrivere a propria volta comportamenti ed obiettivi che si presume siano più desiderabili. Ne abbiamo viste abbastanza di queste utopie che denigravano la carota in vigore solo per sostituirla con una carota ancora più tirannica. In qualche modo, assomigliano tutte a quella direttiva nell'Utopia di Thomas More: «Tutti vanno a letto alle otto e dormono otto ore!».
Del resto, la storia del XX secolo ha abbondantemente dimostrato che i tentativi di contrapporre al World Trade Inc. dei modelli di comportamento pensati per sovvertirlo gli fanno affilare alla fine le sue armi migliori. Oggi, i manager propongono niente meno che fare di ogni salariato un situazionista, intimandogli di essere spontaneo, creativo, autonomo, mobile, senza legami e di accogliere a braccia aperte la precarietà dell'esistenza. Voler rincarare sarebbe ridicolo. In compenso, limitare la critica ad essere solo negativa, senza prescrizione di uno scopo da raggiungere, è dare prova di ottimismo, vale a dire partire dall'ipotesi (non dimostrata, certo) che la maggior parte degli umani conservano nel profondo tutta la potenziale energia necessaria alla propria autodeterminazione, senza che ci sia bisogno di calcare la mano.
Ai suoi tempi Lichtenberg scriveva: «nulla è più insondabile del sistema di motivazioni che stanno dietro le nostre azioni». L'auspicio è che questa insondabilità ritrovi definitivamente i suoi diritti.
 
 
[Eloge de la demotivation, 2008]