Brulotti

La guerra e la filosofia

 

Francesco Saverio Merlino
 
La filosofia è una gran bella cosa, la scienza delle scienze, la somma dei principii, a cui lo scibile umano nelle varie sue branche mette capo ecc. Ma è pure — o può essere — una forma astrusa che si dà al pensiero e che rende inintelligibili le cose più semplici e più chiare. O può anche servire a travisare la verità e a rivestire di vani splendori gli errori, i vizi e le iniquità, di cui gli uomini si rendono colpevoli verso il loro prossimo e verso sé medesimi. 
Così vi è, a quanto pare, una filosofia della guerra, la quale ci apprende che quando una guerra è scoppiata, o sta per scoppiare, è segno che si doveva fare e perciò è santa e necessaria, e il nostro dovere, di noi umili mortall e non guidatori di popoli e reggitori di Stati, è di combattere e tacere; tacere perché non conosciamo i termini precisi dei problemi che la guerra è chiamata a risolvere (i quall spesso, dopo la guerra, rimangono più insoluti che mai); e ubbidire ciecamente, senza mormorare, a chi ha il potere, a chi «rappresenta la nostra volontà, la nostra personalità, il nostro essere di nazione», e ha la responsabilità dei nostri destini; ché, se quest'uno sbaglia, la colpa non è sua, ma nostra, od almeno di un lungo passato di colpe che noi ci trasciniamo dietro; e infine perché anche l'errore e il dolore giovano, perché errando s'impara e il dolore affina l'anima umana. Così l'umanità, mediante la guerra, assurge a più alti destini! 
Queste cose ed altre ugualmente di colore oscuro ho lette in una Conferenza tenuta dal prof. Giovanni Gentile alla Biblioteca Filosofica in Palermo l'11 ottobre 1914, e che porta appunto il titolo altisonante: La Filosofia della guerra.
Sono trascorsi circa dieci anni: una grande e terribile guerra è stata combattuta fra i popoli più civili della terra, con le conseguenze che tutti sanno, tra cui quelle che noi gemiamo sotto il peso di enormi debiti, che abbiamo perduta gran parte di quelle libertà politiche, per le quali combatterono strenuamente i nostri padri, e che siamo forse non lontani da altre e più funeste guerre. 
 
lntorno alla guerra non sono possibili che tre opinioni: 1) la guerra è un bene perché stimola le energie umane e le intensifica, dà la prevalenza al forti fisicamente ed intellettualmente e quindi promuove il progresso; 2) la guerra è un male ma necessario, perché insito nell'umana natura; 3) la guerra è un male da cui l'umanità si può liberare con uno sforzo di volontà e con gli opportuni rimedi. 
Le prime due opinioni sono assai più vicine che non sembri l'una all'altra, tanto che facilmente si scivola dall'una nell'altra e nello zelo della dlfesa della guerra si alternano e confondono argomenti tratti dall'una e dall'altra, senza neppure avvertire la contraddlzlone. 
Nell'opuscolo del prof. Gentlle non si osa dire apertamente che la guerra è un bene; ma si afferma che essa è conforme al «principio interno attivo della natura» (che sarebbe la lotta dell'uomo contro l'uomo), che essa è un fatto naturale necessario, inevitabile (anzi immanente in tutta la vita sociale), è «l'Umanità che si rinnova, è un momento di sviluppo della realtà universale, una forma di vita del mondo», anzi «l'unica forma», una prova in cui «i popoli cimentano con le loro forze i loro supremi interessi e ideali, e impegnano la vita, per foggiare un mondo rispondente alle loro aspirazioni» (Converrebbe considerare che o le aspirazioni dei popoli, che si combattono, sono le stesse ed allora è assurdo combattersi: o sono diverse, e allora le varie aspirazioni rispondono ad interessi, o ad egoismi particolari, che attraversano all'Umanità la via verso i suoi «alti destini»). 
L'autore non distingue qui la guerra combattuta da un popolo oppresso per la propria liberazione dalla guerra combattuta viceversa, per mantenere la propria dominazione o estenderla; la guerra di rapina, la guerra provocata da odii di razza o di religione, da rivalità economiche ecc. No, la guerra in sé e per sé, per l'una e per l'altra parte è una filosofia, ogni belligerante è un filosofo, «noi dobbiamo vedere nel nemico un fratello, che divide con noi le necessità di un tragico momento», e coopera con noi a creare «un nuovo mondo, una nuova anima, che sarà la comune opera di tutti: quel concetto più vero, che trionferà, perché più vero, e perciò più potente, e chi avrà meglio inteso, meglio concepito, si troverà (sic!) vincitore».
Mai da nessun filosofo, la teoria del successo, fu portata a tali altezze. 
Il diritto, la verità, la giustizia sono dalla parte di chi vince. Victrix causa placuit Diis (ma ricordiamoci, soggiungeva nobilmente il filosofo romano: sed victa Catoni). 
Tutta questa arcana teoria della guerra porta l'autore a proclamare (nell'ottobre 1914, ma lo sl ripeterebbe nel 1930 e in ogni altro tempo) che «poiché (la guerra) è il nostro dovere comune, questa è l'ora, in cui i sacrifici non si contano, questa è l'ora dell'eroismo. Sospirare oggi la pace per orrore degli eccidi e delle ruine è viltà d'animo» (come se non si potesse volerla per un sentimento di giustizia e di umanità). 
Udite questo ragionamento, e ammiratene la logica. «La guerra è santa finché è necessaria (è la stessa volontà di Dio); e fino a quando essa sia necessaria, non può esserci detto che dalla volontà di quelli che la fanno (che è poi la volontà di quelli che hanno il potere, la rappresentanza, la responsabilità ecc.). Questa volontà potrà certo sbagliare» (meno male); «ma sbagliare si deve, se solo sbagliando si può imparare, e solo attraverso il dolore l'anima umana si purifica e ascende ai suoi alti destini»... Giacché — soggiunge l'autore — il vero errore è di credere che si potrebbe non errare ecc. ecc. 
Confessiamo di rimanere stupiti dinanzi a così alta filosofia, che cancella ogni distinzione tra l'errore e la verità, tra il bene e il male, e soprattutto nega quello che è il nostro dovere fondamentale, di confessare sempre la verità — o quella che a noi appare tale — e di combattere il male, anche col sacrificio dei nostri interessi e della nostra vita. 
[...]
 
 
[La Crltlca Polltlca, anno lll, n. 2, 25 novembre 1924]