Brulotti

A passo di danza

 
Potrebbe essere uno dei tanti incontri mancati della storia, quello fra Emma Goldman e Nikos Koemtzi. La prima non dovrebbe avere qui bisogno di presentazioni. Nata in Lituania ma trasferitasi presto negli Stati Uniti, per il presidente Teddy Roosevelt era solo «una pazza... una pervertita, mentale e morale». Per il New York Times era «una straniera maliziosa... esterna alla massa dell'umanità». Per il San Francisco Call era una «creatura cattiva... un serpente... inadatta a vivere in un paese civile». Ma oggi tutti la ricordano come «Emma la Rossa», «la regina degli anarchici», la «donna più pericolosa d'America».
Allieva prima di Johann Most (anarchico tedesco emigrato negli USA dove continuò imperterrito a sostenere la necessità della «propaganda col fatto»), e poi compagna di Alexander Berkman (autore del fallito omicidio del maggior industriale statunitense dell'acciaio), Emma Goldman trascorse la vita a battersi per le idee anarchiche, pubblicando giornali e libri, tenendo conferenze, organizzando manifestazioni, aiutando chi insorgeva contro lo Stato e il capitalismo. Più volte arrestata, venne deportata in Russia nel 1919. Ribelle sotto la democrazia a stelle e strisce, lo divenne presto anche sotto il comunismo a falce e martello. Ai suoi occhi, come a quelli di molti altri anarchici, la rivoluzione sociale non è affatto incompatibile con la rivolta individuale. La libertà delle masse è una menzogna se non include anche la libertà dei singoli.
Inorridita davanti alla repressione della rivolta di Kronstadt da parte dei bolscevichi, Emma Goldman ricordava che «Non esiste errore più grande di quello secondo cui gli scopi e gli obiettivi sono una cosa, mentre i metodi e le tattiche sono un'altra. Questa concezione è una potente minaccia contro la rigenerazione sociale. Tutta l'esperienza umana insegna che metodi e mezzi non possono essere separati dallo scopo finale. I mezzi impiegati diventano, attraverso l'abitudine individuale e la pratica sociale, parte dello scopo finale; lo influenzano, lo modificano, e attualmente mezzi e fini diventano identici». È la concezione etica della rivolta, incompatibile con ogni possibilismo politico.
Ma se qui ci interessiamo a lei è perché le vengono spesso attribuite queste parole diventate celebri: «se non posso ballare, non voglio far parte della vostra rivoluzione». La passione e l'ebbrezza del piacere non potrà mai essere frenata da nessuna ragione del dovere. Eppure, pare proprio che questa citazione sia falsa, trattandosi di un semplice riassunto di un passaggio contenuto nella sua autobiografia. In realtà Emma Goldman, ricordando gli anni della sua gioventù, scrisse: «Durante le danze ero la più instancabile, la più allegra ero sempre io. Una sera un ragazzo, un cugino di Sasha, mi prese da parte e con un'espressione grave, come se stesse per annunciarmi la morte di un caro compagno, mi sussurrò che una rivoluzionaria non avrebbe dovuto abbandonarsi alle danze. Perlomeno, non così sfrenatamente come facevo io. Non era dignitoso per una che stava per diventare un elemento importante nel movimento. La mia frivolezza avrebbe nuociuto alla Causa.
L'impudente intromissione del ragazzo mi fece andare su tutte le furie. Gli dissi di badare ai fatti suoi, che ero stufa di sentirmi sempre sbattere in faccia la Causa. Non credevo assolutamente che una causa ispirata a un magnifico ideale, all'anarchismo, alla libertà da ogni convenzione e pregiudizio, presupponesse il rifiuto della vita e della felicità. La Causa non poteva pretendere che mi tramutassi in una suora e neppure che il movimento poteva trasformarsi in un convento. Se il suo significato era questo, non volevo averci nulla a che fare. "Voglio la libertà, io, voglio che tutti abbiano il diritto di esprimere se stessi, di godere le cose belle". Questo era il significato che attribuivo all'anarchismo e così l'avrei vissuto, a ogni costo — prigione, persecuzioni, qualsiasi cosa».
 
Capita di andare su tutte le furie davanti alla impudente intromissione di chi vuole impedire che si danzi. È quanto accadde anche allo sconosciuto Nikos Koemtzi la sera del 24 febbraio 1973, in una Atene in pieno regime dei colonnelli. Assieme al fratello minore Dimosthènis si recò in un locale notturno malfamato, frequentato dal sottobosco della città: criminali, prostitute, alcolizzati, emarginati. Koemtzi fa parte di questo sottomondo, essendo da poco uscito per l'ennesima volta dalla prigione dopo aver scontato una condanna per furto. La polizia lo tormentava, invitandolo a diventare un informatore. Lo avevano minacciato, picchiato, arrivando a fargli mandare a monte l'imminente matrimonio con la donna che amava. Ma Nikos Koemtzi non era un infame, ed aveva sempre rifiutato.
Quella sera andò al locale Fata di Atene in compagnia del fratello, per vederlo ballare in una particolare danza. Con quale musica è facile intuirlo, la musica della teppa greca — il rebetiko. Ma quella musica dannata che si dice sia nata nelle prigioni elleniche può essere ballata in diversi modi. C'è l'hasapiko, danzato da più uomini che tengono le mani sulle spalle dei ballerini vicini. C'è lo tsifteteli, danza sensuale ballata per lo più da donne, dove gli uomini fanno solo da supporto. Ed infine c'è lo zeibekiko. La sua regola principale è che si balla rigorosamente da soli, perché è il momento in cui il ballerino esprime i suoi dolori e le sue gioie, le sue angosce e le sue speranze. Lo zeibekiko è l'espressione del moto dell'anima. Ebbene, quando in un locale qualcuno chiede all'orchestra di suonare uno zeibekiko — una richiesta chiamata parangelia — chiunque altro si trovi in pista deve mettersi a sedere. Perché nessuno può ballare assieme a chi sta mettendo a nudo la propria anima.
Quella sera Nikos Koemtzi voleva che il fratello ballasse uno zeibekiko per lui, così fecero la richiesta ai musicisti del locale. Ma altri due uomini si misero a ballare in pista come se nulla fosse, in spregio a chi stava danzando lo zeibekiko. Adirato, Dimosthènis urlò loro contro «Questo ballo è mio!» e cercò di allontanare i due. Questi, in risposta, lo scaraventarono a terra. Non erano due persone qualsiasi, erano poliziotti in borghese venuti lì appositamente a provocare i due fratelli. E fu lì, in quel momento, davanti a quell'affronto intollerabile, che Nikos Koemtzi iniziò a danzare il suo zeibekiko di sangue. Estratto un coltello, uccise uno dopo l'altro i due poliziotti. Ammazzò anche un terzo avventore che tentava di fermarlo, e ferì altre sette persone.
Tratto in arresto, il suo processo si tenne proprio nel lugubre novembre 1973 e si concluse con una triplice condanna a morte, tramutata poi in ergastolo. Demonizzato dalla stampa come esempio di «belva sanguinaria», aborrito anche da una intellighenzia progressista vogliosa solo di legittimità, Nikos Koemtzi diventò una specie di eroe per gli uomini e le donne che potevano comprenderlo, gli appartenenti alle classi pericolose greche. In carcere scrisse una autobiografia intitolata Il lungo zeibekiko, che venderà nelle strade di Atene per sopravvivere, non appena tornato in libertà dopo ventitré anni trascorsi in galera. Morì nel 2011 così come aveva vissuto, da solo.
Se non posso danzare non voglio far parte della vostra rivoluzione — è il rifiuto di ogni sacrificio militante, di ogni moralismo ideologico. Io ballo da solo — è la dignità indomita pronta a difendersi con ferocia. Cosa accadrebbe se questo rifiuto incontrasse questa dignità? Certo, non son cose di questo mondo...
 
[3/4/16]