Contropelo

Il mondo in uno sputo

 
Alcuni giorni fa nelle carceri italiane sono iniziati i prelievi destinati a costituire l'Archivio Nazionale dei Dna, istituto di competenza del Ministero degli Interni che raccoglierà i profili genetici di tutte le persone detenute, indagate, arrestate o fermate, assieme ai Dna ritrovati sui luoghi del delitto. Si tratta di una decisione presa a livello europeo — sancita nel 2005 dal Trattato di Prüm sottoscritto da Germania, Francia, Belgio, Spagna, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria (e recepito dall'Italia nel 2009) — nell'ambito della cosiddetta «lotta contro il terrorismo e la criminalità», ma non solo europeo. Adesso, ufficialmente con qualche anno di ritardo, le autorità italiane hanno cominciato a mettere in atto una misura che altrove è in vigore da tempo. Nel Regno Unito ad esempio, patria dell'inventore dell'impronta genetica, Alec Jeffreys, il National Dna Database è stato istituito fin dal 1995, mentre la Francia non ha certo atteso il Trattato di Prüm per creare il proprio Fichier national automatisé des empreints génétiques, sorto nel 1998.
La schedatura genetica viene definita da tutti i governi un «potente strumento nella lotta contro il crimine», in grado di fornire elementi determinanti per punire i colpevoli di reati particolarmente odiosi e scagionare le persone innocenti coinvolte. Evocata soprattutto nei casi di stupro e omicidio, la prova del Dna viene presentata come se fosse definitiva, irrefutabile, sinonimo di verità assoluta. Oggi, sia l'archivio britannico che quello francese contengono milioni e milioni di codici genetici, ed il loro numero è in costante aumento. Tutti potenziali stupratori assassini? No di certo. Punto di incontro fra una «giustizia uguale per tutti» ed una «scienza al servizio di tutti», il prelievo del Dna è una procedura giudiziaria che possiede il medesimo carattere esponenziale ed irreversibile della tecnica. Esattamente come la giustizia e la scienza, è funzionale solo agli interessi dello Stato. Così, nella perfida Albione il prelievo del Dna è previsto non solo per risolvere casi particolarmente efferati, ma anche nei confronti di chi viene accusato di accattonaggio o ubriachezza o partecipazione a manifestazione non autorizzata (per avere un'idea della generalizzazione di tale pratica, basti pensare che già alla fine del 2007 era stato rivelato che il database britannico conteneva i dati di 150.000 ragazzini di età inferiore ai 16 anni); mentre nella terra dei diritti dell'uomo il campo di indagine genetica, in origine proposto per scoprire un assassino seriale, è stato esteso nel corso degli anni al fine di stanare anche gli autori di scritte e graffiti sui muri o del danneggiamento di colture Ogm.
Tutto ciò pone degli scrupoli di coscienza alle belle anime democratiche, le quali rimangono turbate davanti all'idea decisamente totalitaria di uno Stato che proceda alla schedatura dei geni di milioni di suoi cittadini e li passi al setaccio per ogni infrazione al proprio codice penale, facendone dei potenziali criminali. Per dormire meglio, propongono e pretendono dei limiti al prelievo del Dna ed al suo utilizzo, limiti che però si scontrano sia con le promesse securitarie di tale procedimento che con il suo stesso carattere scientifico. L'efficacia punitiva e quella dissuasiva della prova del Dna sono infatti entrambe legate ad un requisito di partenza: il Dna deve essere già presente nell'archivio. È del tutto inutile possedere il Dna di uno stupratore omicida se non si hanno i Dna con cui confrontarlo. Più Dna si raccolgono, più è probabile trovare il colpevole (efficacia punitiva). Più Dna si conservano, più è probabile che diminuiscano i reati (efficacia dissuasiva). Schedare geneticamente tutta la popolazione è quindi indubbiamente l'ideale dal punto di vista securitario, perché garantirebbe al tempo stesso il massimo della prevenzione e il massimo della repressione. Ricorda, lo Stato ti conosce, sa tutto di te, quindi... male non fare, paura non avere. Perché ciò dovrebbe sollevare scrupoli etici in chi accetta la logica securitaria? Perché chi invoca telecamere dappertutto e non ha nulla contro le intercettazioni ambientali e telefoniche, né contro il prelievo delle impronte digitali, dovrebbe poi preoccuparsi per una eventuale mappatura genetica? Se il Dna non mente, come assicurano gli scienziati, se il suo test è un procedimento scientifico che funziona, allora qual è il problema? Non c'è problema, infatti i primi ad aver sostenuto la necessità di schedare tutti i cittadini pare siano stati i paesi arabi, i cui governi hanno notoriamente a cuore il trionfo della verità e della giustizia. O forse sì, forse qualche problemino c'è, infatti il padre dell'impronta genetica da un lato ha proposto la schedatura di tutta la popolazione, dall'altro ci ha tenuto a precisare che i dati non dovrebbero essere conservati dallo Stato, bensì da un ente «neutro».
Scrupoli ridicoli. Non è affatto difficile capire dove stia il problema, né quanto enorme esso sia. Scordatevi pure le dispute tecniche sulla sequenza del Dna prelevato, su quanto debba essere lunga per essere attendibile o su quanto a lungo debba essere conservata per non ledere «il diritto alla privacy». E scordatevi gli ipotetici scenari futuri, del tipo: cosa accadrebbe se questi dati cadessero in mano a...? Non è questo il punto. Questi dati stanno già cadendo in mano a qualcuno, a chi li sta raccogliendo. E perché lo fa? Per proteggerci da maniaci sessuali e assetati di sangue? Che il Dna non menta, già non è affatto certo. Ma lo Stato che lo interroga, altro che se mente! In fondo, non serve nemmeno truccare la risposta quando è possibile truccare la domanda.
 
Cominciamo pure dalla risposta, quella del Dna. Magistrati e scienziati sono concordi nel presentarla come fosse la prova suprema, indiscutibile. Poiché l'acido desossiribonucleico è una macromolecola presente nelle cellule degli organismi viventi, responsabile della trasmissione e dell'espressione dei caratteri ereditari, a quanto pare unica, diversa da individuo ad individuo, lo sputo del Dna sputerà automaticamente la Verità.
Ora, sebbene i media parlino sempre genericamente di prova del Dna è bene sapere che ne esistono due tipi: quello nucleare e quello mitocondriale. Il Dna nucleare proviene per metà dal padre e per metà dalla madre, è quello più preciso e discriminante, si trova solo nelle cellule «vive» presenti nella saliva, nel sangue, nello sperma, nei bulbi piliferi. Ma ha un difetto: non appena si stacca dal corpo, si degrada molto facilmente. Spesso, al momento dell'analisi, non è più sfruttabile. Il Dna mitocondriale, invece, viene trasmesso in linea materna, è molto meno preciso (può essere condiviso da persone che non appartengono alla stessa famiglia, e può variare fra familiari) e si trova anche nelle cellule «morte» come lembi di pelle. Per questo dura più a lungo.
Da un traccia di Dna, cioè da un pezzetto del corpo umano, si ricava un «profilo», ovvero una serie di dati che corrispondono a una parte del Dna dell'individuo. Non è tutta la sequenza del Dna, ma solo una parte di essa, quella scelta dagli esperti. Il profilo del Dna si ricava quindi dall'analisi di alcuni punti dell'intera sequenza del Dna. Ottenuto questo profilo, le autorità cercano delle corrispondenze, delle similitudini, fra quelli presenti nei loro archivi. Ebbene, seguendo tale procedimento, il risultato non potrà mai essere la verità assoluta, ma solo un’approssimazione basata sul calcolo delle probabilità. Non è la stessa cosa. Già è una ipotesi il fatto che il Dna di 7 miliardi di esseri umani sia differente per ciascuno di essi (sono stati esaminati e confrontati tutti quanti?), ma poi quando a venire analizzata è una minima parte (prelevata da dove? quanto lunga? e dopo quanto tempo? i parametri variano da paese e paese, da epoca a epoca), soggetta per altro a possibili contaminazioni esterne, come si può affermare che la risposta sia così perentoriamente precisa? E infatti sono già stati registrati numerosi casi in cui la risposta fornita dall’analisi del Dna si è dimostrata errata.
Il caso più recente, e a noi più noto e vicino, è proprio quello relativo all'omicidio di una ragazzina di 13 anni, avvenuto nel 2010 nel bergamasco. Pur di trovare il responsabile venne prelevato il Dna di 18.000 persone, fra cui tutti gli abitanti della zona (che si prestarono volontariamente). Il presunto colpevole è stato arrestato proprio in base al suo profilo genetico. Sugli indumenti intimi della ragazza sono state trovate tracce del suo Dna nucleare. Però, ops, non vi era alcuna traccia del suo Dna mitocondriale! Il fatto è giudicato inspiegabile dagli stessi esperti. Sarà per questo che gli inquirenti «costruirono» un video che mostrava il furgone dell'imputato sul luogo del rapimento della ragazza? Sarebbe questa la verità inconfutabile, indiscutibile, per trovare la quale sono stati spesi oltre 3 milioni di euro?
Di casi simili ne sono avvenuti altri. In Inghilterra nel 2000 un uomo malato del morbo di Parkinson è stato arrestato per un furto commesso a 300 km di distanza. Già fermato in passato nel corso di una lite con la figlia, la polizia aveva il suo Dna che coincideva con quello rinvenuto sul luogo del crimine. Il suo avvocato chiese di esaminare una parte del Dna più lunga e il risultato diventò negativo. In Francia nel 2004 è stato arrestato il marito di una donna uccisa due anni prima, nella cui mano era stato rinvenuto un capello il cui Dna mitocondriale inchiodava l'uomo. Dopo diversi mesi di detenzione e di libertà vigilata, l'uomo venne prosciolto quando la consultazione dell'archivio dei profili genetici diede un risultato inaspettato: quello stesso Dna era presente anche in un altro profilo, di un pregiudicato nel frattempo deceduto.
Non è quindi un caso se alcuni preferiscono parlare di «compatibilità» del Dna. I profili in realtà non corrispondono, possono essere al massimo «compatibili». Cosa significa questo? Che la prova regina che dimostrerebbe la responsabilità (penale) di un essere umano, tale da giustificare la sua condanna e reclusione, è che una parte del Dna dell'imputato sarebbe compatibile con una parte del Dna rinvenuto sulla scena del delitto, e in quanto tale forse attribuibile al colpevole. Verità di fatto o ipotesi alquanto approssimativa?
C'è poi il problema degli errori e delle contaminazioni che possono avvenire, sia nel corso dei prelievi che in quello delle analisi. Scambi di etichette, di provette, incroci di tessuti organici. Lo stesso Alec Jeffreys ammette che l'ampliamento di un archivio genetico, per quanto a suo avviso indispensabile, porterà sicuramente ad un aumento di errori: «creato e mantenuto da esseri umani, ci saranno ovviamente degli errori, è matematico». Infatti negli Stati Uniti nel 2002 un uomo condannato a 12 anni di prigione per uno stupro è stato rilasciato dopo aver passato quattro anni e mezzo dietro le sbarre. Era stato scoperto che il Dna rinvenuto dalla polizia apparteneva a due persone diverse, escludendo che il detenuto fosse coinvolto. Si era trattato di un errore commesso dal laboratorio della polizia, che infatti era stato successivamente chiuso proprio per via della sua inaffidabilità. La magistratura arrivò ad aprire una inchiesta per controllare la veridicità di 25 condanne, fra cui 7 capitali. Davvero esilarante è poi la storia della «donna senza volto», considerata dai media la «peggiore assassina seriale che l'Europa abbia mai conosciuto», la quale avrebbe commesso il suo primo reato in Germania nel 1993. Nel corso degli anni il suo Dna venne trovato sul luogo di diversi omicidi e furti, una ventina in tutto, avvenuti in mezza Europa (Germania, Francia, Austria). Imprendibile, inafferrabile, nessuno l'aveva mai vista eppure lasciava il suo profilo genetico ovunque. Contro di lei si scatenò una battuta di caccia colossale: migliaia di testimonianze, interrogatori serrati ai suoi presunti complici, 12 milioni di euro spesi nel corso delle indagini e una taglia di 100.000 euro sulla sua testa. Migliaia di prelievi di Dna vennero effettuati su donne nel sud della Germania, in Francia, in Belgio, e persino in Italia. Finalmente nel marzo 2009 la «donna senza volto» fu identificata, inchiodata alle sue responsabilità. La verità inconfutabile venne a galla: era una lavoratrice della ditta che forniva a molte polizie europee i bastoncini utilizzati per i prelievi genetici!
 
Come abbiamo visto, la risposta del Dna è tutt’altro che sinonimo di verità. Ma c'è di peggio: è la stessa domanda ad essere falsa. Perché, anche se la prova del Dna fosse autentica, anche se tutta la sequenza del Dna venisse analizzata e combaciasse perfettamente con tutta la sequenza del Dna rivenuto sulla scena del delitto, ciò cosa dimostrerebbe? Nulla, non sarebbe comunque una prova di colpevolezza. Il Dna trovato su una bottiglia lanciata contro le forze dell'ordine nel corso di una manifestazione non necessariamente appartiene a chi l'ha scagliata. Potrebbe essere il Dna di chi l'ha confezionata, di chi l'ha venduta, di chi l'ha comprata, di chi l'ha aperta, di chi l'ha bevuta, di chi l'ha passata, di chi l'ha buttata via... Il Dna rinvenuto sulla scena di un delitto non necessariamente corrisponde a quello del colpevole, potrebbe benissimo trattarsi di quello di qualcun altro. Di più, la presenza del Dna non dimostra nemmeno l'effettiva presenza sulla scena del delitto della persona a cui corrisponde. Ogni essere umano quotidianamente perde capelli e peli, parla e sputa, mangia e beve, piscia e caga, spesso si gratta, talvolta sanguina, magari fuma. Lascia tracce del suo Dna in innumerevoli posti, su innumerevoli oggetti, su innumerevoli persone. Le lascia e le raccoglie, spostandole altrove. Le scarpe, ad esempio, quante tracce di Dna raccattano e trasportano? Quindi, sostenere la colpevolezza di qualcuno solo perché il suo Dna è stato rinvenuto sulla scena di un crimine è una assurdità.
C’è stato un tempo ormai remoto in cui gli stessi uomini di legge sostenevano che un delatore non dovesse nemmeno entrare nell'aula di un tribunale. La sua parola non può costituire elemento di prova, può solo fornire agli inquirenti una pista da seguire tutta da verificare. Se la sua confidenza fosse suffragata da prove concrete, dovrebbero essere queste a fare testo. La sua parola, di per sé, non conta nulla. Da questo punto di vista il rinvenimento del Dna sulla scena di un delitto, anche qualora fosse davvero quello del sospettato, è ancora meno attendibile. Il delatore dice chi è (a suo parere, interesse, memoria o conoscenza) il responsabile di un crimine. Il Dna dice chi (forse, probabilmente, in alcuni casi sicuramente) può essere transitato nel luogo in cui è avvenuto un delitto, o essere venuto a contatto con la vittima.
Ma poiché la giustizia è cieca, per vedere tende ad affidarsi ad altri. Agli esseri umani, ad esempio, anche quando sono spregevoli come i delatori. Infatti oggi la parola di due «collaboratori di giustizia» basta a far condannare qualcuno. Figurarsi quindi se la giustizia non si affida ancora più volentieri al microscopio della scienza, la quale da sempre ha il vizio di presentare le sue ipotesi come inattaccabili verità. «È vero, è provato scientificamente, lo dice la scienza». Invece la storia dice e ripete che una ipotesi scientifica, presentata come vera in una data epoca, potrebbe essere considerata falsa poco più tardi. Le scoperte scientifiche vengono presentate come certezze, ma raramente lo sono. Di fatto, ogni teoria scientifica si fonda su una rappresentazione che è determinata da una ideologia. Le scienze biologiche interpretano il vivente come se fosse una macchina che risponde ai comandi di un programma composto dai geni. Questo approccio, che riduce l'essere umano alla stregua di un computer, non è affatto il risultato di osservazioni. Al contrario, è ciò che le determina. Non è l'osservazione del vivente a suggerire l'esistenza di un programma, è una visione meccanicista a far sì che il vivente venga osservato in quella certa maniera. Gli scienziati partono da un a priori, e poi vanno alla ricerca di quanto conferma la loro tesi («l'uomo è una macchina, cerchiamo i suoi ingranaggi!»).
Nel mondo attuale, la scienza viene considerata come sinonimo di verità. Ciò spinge quasi chiunque ad usare argomentazioni apparentemente scientifiche per darsi una legittimità. Ciò che è vero è ciò che dicono i periti, gli esperti. Tutti lo pensano, dai poliziotti ai magistrati, dai militanti agli attivisti, per non parlare della gente comune. Il perito, l'esperto, è uno che sa. Il suo parere è «oggettivo», scioglie i dubbi. Un perito, un esperto, è uno spacciatore di certezze.
Lo Stato, che ama farsi passare per garante del bene di tutti laddove serve solo l'interesse dei pochi, amministra una Giustizia che dovrebbe essere uguale per i soliti tutti ma che è fatta da leggi scritte e applicate dai soliti pochi. Lo Stato, come la sua Giustizia, sono ovviamente di parte, ma hanno un disperato bisogno di apparire neutri, oggettivi, al di sopra delle parti. Per questo si servono della scienza. Quando Lombroso misurava il cranio per identificare ladri e assassini, quando Hitler misurava il naso per scovare speculatori giudei, cosa facevano di tanto diverso da chi oggi consulta la biologia per far trionfare la giustizia? Oggi la prova del Dna rappresenta la risposta magica all'angoscia dell'errore giudiziario, il solo incubo che possa talvolta disturbare il sonno dei carnefici in ermellino. E, una volta immersa nelle provette da laboratorio, la Giustizia può finalmente apparire perfetta, precisa come un computer.
Solo che di periti, di esperti, ce ne sono tanti e il più delle volte hanno pareri contrapposti. Questo perché la scienza non può affermare verità assolute, può offrire solo ipotesi. Ci troviamo così di fronte a questo paradosso: nessuna «verità» scientifica può essere considerata una certezza, eppure oggi tutto ciò che la società vuol far passare come se si trattasse di una certezza non può fare a meno di usare argomenti scientifici. Ciò che invece è certo, indiscutibile, agghiacciante, è purtroppo altro. I governi di molti paesi stanno schedando milioni di persone, usando argomentazioni che preannunciano una schedatura totale. Chi detiene il potere, politico o anche solo economico, avrà accesso ai dati più intimi di ognuno di noi e potrà farne qualsiasi cosa. Non occorre avventurarsi in scenari fantascientifici, basta attenersi a quanto già accaduto solo ieri per intuire cosa ci aspetta domani. Qualcuno ricorda le bottiglie molotov fatte trovare nel cortile della scuola Diaz di Genova nel luglio 2001, subito dopo la mattanza perpetrata dalla polizia? Ecco, da ora in poi per eliminare gli indesiderabili le autorità non avranno neanche più bisogno di costruire inchieste apposite, istruire falsi pentiti, fabbricare false prove. No, basterà far scivolare un qualcosa di impercettibile come una goccia di saliva, un cappello, un mozzicone di sigaretta — appartenenti a chi si vuole eliminare — sulla scena del prossimo crimine. 
All'interno di questo mondo, di questo ordine sociale, gli esseri umani trascinano una esistenza scialba, priva di bellezza e passione, immersi nella angoscia e nella disperazione, alla quotidiana ricerca di briciole di sopravvivenza. Il mal di vivere provoca ovunque conflitti, atti di violenza. Lo Stato interviene per arginare degli effetti di cui è esso stesso la causa principale. Pretende di imporre punizioni decretate da leggi fatte a sua protezione. E per identificare gli autori di questi atti di violenza si affida alle ipotesi della scienza, che vengono spacciate per verità. Il cerchio si chiude nella coerenza dell'abiezione. Uno Stato infame applica una giustizia cieca attraverso una scienza manipolabile e manipolatrice; il tutto presentato come un esempio di virtù. Il mondo in uno sputo.
 
[14/6/16]