Autopsia

Un algebrista lirico: Omar Khayyam

Armand Robin
 
C'era una volta sulla terra un uomo che scrisse circa 180 quartine, che sono il capolavoro del genere, per tentare di farci credere che per tutta la sua vita non abbia fatto altro che bere, bere, che essere ubriaco fradicio giorno e notte:
 
«Tanto e tanto vino berrò, che dalla tomba,
Quando sottoterra andrò, ne verrà l’odore,
Perché, se a quell'avel giungerà un beone,
Al profumo di quel vino ebbro diventerà.
 
Deh! tu che calcoli tutti i giorni dell’universo,
Sai qual tempo sia di bere il vin che l'anima ricria?
Sabato, Lunedì, Martedì, Mercoledì, Giovedì,
Venerdì, Domenica, in tutti i giorni, a tutte l’ore»
 
Quest'uomo viveva in Persia nell’XI secolo, in pieno islamismo di conquista.
Ma l'islam non amava affatto d’essere sfidato:
 
«Vendi e Corano e turbante!
vendi tutti i libri devoti per del vino!»
 
Omar Khayyam fu messo all'indice. Il suo nome scomparve dalla storia della Persia.
Nella seconda metà del XIX secolo, un europeo talentuoso, il grande mistificatore irlandese Fitzgerald, sentì parlare di un vecchio poeta persiano ignorato che paragonava la volta del cielo a una coppa rovesciata; è all'incirca tutto ciò che sapeva del testo originale: prese lo slancio — e che slancio! — a partire da quel solo dato, e pubblicò nel 1859 un Rubayat d'Omar Khayyam, una delle opere più belle della letteratura inglese ed uno dei più inammissibili tradimenti mai commessi nei confronti delle letterature orientali.
Ma la sveglia era stata data. Numerosi orientalisti (inglesi soprattutto) fecero delle ricerche. Gli iraniani stessi finirono con l'interessarsi a quel grande poeta cui il resto del mondo rendeva onore.
Di sorpresa in sorpresa, furono tutte piacevoli.
 
Non fu difficile scoprire che Omar Khayyam nei suoi tentativi di divertirsi aveva organizzato contro se stesso un ingegnoso sistema di contro-propaganda: non era «ubriaco fradicio giorno e notte» come continuava a ripetere, al contrario non faceva che lavorare giorno e notte.
Era uno dei più grandi sapienti della sua epoca, in diversi campi: algebra, astronomia, ecc. Studiava e commentava Euclide ed altri matematici greci. Abbiamo di lui quattro opere matematiche.
Poi era un amministratore: del più grande osservatorio della sua epoca, quello di Merv.
Poi era un realizzatore: nello specifico, riformò il calendario, inventò il giorno bisestile, ecc.
Poi trovò un modo più razionale di costruire le ruote dei carri. Poi... poi...
Infine, è probabile che molti aspetti della sua attività ci siano ancora sconosciuti.
Siccome visse 85 anni (1040-1125), questo Pascal del Medio Oriente ebbe il tempo di essere un genio ancor più vario  del nostro Pascal europeo.
 
Dinanzi a questa prodigiosa attività scientifica, solo un piccolissimo numero di quartine.
È chiaro che non si prendeva sul serio come poeta, il che gli permise di esserlo in maniera ben più autentica. Per esprimersi adottò il genere della «quartina» che era disdegnato dai poeti ufficiali della sua epoca. In Persia, al suo tempo, il solo fatto di scegliere quel modo di espressione era una garanzia sufficiente contro il pericolo d’essere proclamati «grandi poeti»; si era liberi.
E liberi, in primo luogo, di dimenticare di tanto in tanto la cosmogonia, l'algebra, l'amministrazione. Liberi, inoltre, di esprimervi la propria desolazione nei momenti in cui, piombando negli abissi della disperazione, Omar trovava che tutte le sue attività non erano nulla:
 
«Fuggire tutto il sapere dei sapienti — è meglio!
Inanellare i boccoli di una graziosa — è meglio!
Prima che la vecchiaia consumi il tuo sangue, versare nel bicchiere
il sangue dell'elegante coppa di vino — è meglio!
Tu guardi gli astri! tutto ciò che vedi è nulla!…»
 
Si è scoperto infine che Omar Khayyam scriveva le sue quartine nei suoi momenti di «surmenage»; usiamo questo termine della seconda metà del XX secolo perché forse non è un caso che la risonanza di queste poesie persiane del XI secolo appartenga alla nostra epoca.
Cosa diventa un matematico di genio mentre di tanto in tanto cerca di distrarsi in un cabaret e di scrivere un dolce biglietto all'indirizzo della prima donna che vede, ovvero la barista? Mette le cifre in madrigale:
 
«I 10 intelletti, gli 8 cieli, i 6 versanti dei cieli,
I 7 pianeti, i 9 firmamenti, tutto ciò fanno due righe:
Coi 5 sensi, i 4 elementi, i 3 spiriti, Dio
Nei 2 mondi non ce n’è 1 bella come te»
 
Quanto a se stesso, in quei momenti si definisce:
 
«Perplesso fra 4 e 5, 6 e 7»
 
O ancora si interroga:
 
«Tu, prodotto di 4 e di 7,
Per tutto il tempo su quei 2 ad agitarti in 11,
Bevi vino!...»
 
Ma naturalmente! da iraniano resistente all'imperialismo morale dell'islam, amava declamare:
 
«Pratico la religione del succo di vigna»
 
Di fatto, il suo vino, la sua droga, era «il surmenage». Fu il primo uomo al mondo, questo Einstein della sua epoca, a trovare nel surmenage la sua ispirazione poetica.
L'ispirazione grazie al surmenage condusse molte volte Khayyam a cantare come in una sorta di altromondo; non sappiamo più in quale secolo, in quale paese siamo; pare di sentire al tempo stesso il Salmista, Ronsard, i poeti del romanticismo tedesco, Baudelaire, Apollinaire e tanti altri ancora:
 
«Il cuore è una lanterna la cui luce proviene da una graziosa;
Se vi trova di che morire, vi trova anche la vita;
Con un lume ad olio, poi un falena
Si illuminerà il cuore di colui che ama una graziosa.
La torcia della rosa è accesa in mezzo ai fiori;
Mettiamoci accanto al fiume con una ghirlanda di ragazze dagli occhi neri...
Tu, il cui volto è un modello per il lilla, o mia bella!
Tu, della bellezza stessa immagine fedele, o mia bella!
Il re di Babilonia inventò il gioco degli scacchi
Sui tuoi movimenti sapienti, o mia bella!»
 
È stato credente, è stato ateo? Questa domanda non ha molto senso nel suo caso; del resto, ci spiega:
 
«Nulla pensar di dogmi e d'eresia
Religione è mia»
 
Certo, punzecchiava l'islamismo ma gli capitava di scrivere:
 
«Se bevo questa coppa di vino, la amo anche;
Amando questa coppa, amo il cielo;
Amando il cielo, amo Dio; cosa può dirmi Dio
Se gli dimostro con la coppa in mano che lo amo?»
 
Un altro giorno scriveva:
 
«O compagni, datemi la mia provvista di vino,
E questo volto d'ambra fatelo diventar di rubino,
E quando andrò via dal mondo, col vino lavate il mio corpo
E l'assi della mia bara tagliatele dal legno di vigna»
 
Di fatto, per tutta la sua lunga vita, fu a volte pascaliano e a volte lucreziano. Ho vissuto a lungo con la sua opera ed ho anche tentato di vivere la sua opera. Ho finito col percepire che il vero segreto dietro gli inviti incessanti a bere vino e ad inseguire «le graziose come dei tulipani» era una irrimediabile disperazione, una disperazione metafisica, che si esprime ben più chiaramente di quella di Lucrezio, semplicemente perché il cielo dell'Iran (quel cielo, ricordiamolo, che egli osservava di mestiere) è «una coppa di lapislazzuli», è più limpido del più limpido cielo d'Italia.
 
«Tutti i piaceri, averli voluti... e poi?
Tutti i libri, averli letti... e poi?
Khayyam, mettiamo che tu viva cent’anni,
Mettiamo, se vuoi, cent’anni di più... e poi?
Questa gran volta del cielo sotto la quale stupiti viviamo
È come una lanterna, magica d'illusione;
Il Lume dentro n'è il Sole, e la lanterna è il Mondo;
E noi come ombre fuggenti, sbigottiti, passiamo»
 
E questo grido, all'inizio di una quartina:
 
«Cameriera, il mio cuore è più stanco di quello di un morto!»
 
In breve, ovunque dietro quest'opera dall’apparenza gioconda, la tristezza assoluta di un uomo dall'intelligenza vertiginosa.
 
 
[Gazette de Lausanne, 13 dicembre 1958]