Brulotti

19 luglio 1936

Kyralina - Eduardo de Guzman
 
Da Barcellona…
 
Venerdì, 16 luglio. Nelle sedi sindacali, nelle redazioni della nostra stampa e nel riunioni si vedono facce gravi. Durante la notte non si dorme. Si vigilano le mosse del nemico.
Nel Marocco è scoppiato il movimento e Franco è padrone del territorio. La notizia non è ufficiale, ma è certa.
— Ci sono armi, compagno?
— Poche; ma non t’allarmare, le troveremo.
 
17 luglio. Un’altra notte di tensione e di attesa, ma anche d’attività. I militanti dei Trasporti Marittimi hanno ben lavorato. Sanno dell’arrivo di un carico d’armi e, con audacia, se ne appropriano. Juan Yague, morto per la gloria della Rivoluzione, si moltiplicava di energia.
La notizia delle armi è trapelata alla polizia e al governo. Alle cinque del mattino le autorità vanno al porto per riprenderle.
Nella Rambla c’è animazione. Molti compagni affluiscono per offrire i loro servizi. Ascaso, l’eroico, passa assorto. Lo interroghiamo:
— Non ci sono novità. Abbiamo potuto salvarne una parte — risponde con la sua aria serena.
Passa una vettura pel trasporto del latte. Son le armi che vanno. Se n’è salvata una parte.
 
18 luglio. Alle nove di sera si presenta Durruti nella redazione di Tierra y Libertad. È entusiasta, raggiante e, col suo sorriso indimenticabile, dice:
— All’erta, compagni. Alle dodici in Costruccion. Lì vi saranno date le indicazioni su quel che c’è da fare. Io, per parte mia, sono preparato. Guardate.
E ci mostra due rivoltelle che gli pendevano dalla cintura.
Notti di effervescenza; chi va e chi viene; riunioni; ansia ed entusiasmo; molto entusiasmo.
 
19 luglio. Fa giorno. I bandi militari sono stati strappati. Gli aeroplani rombano nel cielo di Barcellona. La fucileria, in ogni parte della città, è enorme. Finalmente, i fascisti mostrano la faccia. La battaglia minaccia di essere dura e vasta. Le armerie sono invase; i vetri infranti ingombrano le strade. Si distribuiscono armi corte, lunghe, schioppi da caccia, pistoloni del tempo di Maria Cristina, rivoltelle da ragazzi, pugnali, coltelli, in una parola, tutto ciò che può servire a combattere.
In piazza Catalogna si lotta per espugnare la Telefonica. In piazza dell’Università, la Guardia Civil impegna battaglia con le truppe della reazione. Nei quartieri proletari si combatte con accanimento. Le truppe uscite dalla caserma Pedralbes per occupare Piazza Badia sono attaccate e sconfitte. I faziosi si fortificano nell’Hotel Ritz, in vari conventi e in certe chiese. All’Atarazanas la mischia è più aspra. I militari, protetti da una muraglia enorme, solidissima, sono quasi invincibili. Qui il fuoco incomincia con le prime ore del mattino. I rivoluzionari sono mitragliati con abbondanza di munizioni dalla caserma, dal vecchio edificio della Auditoria Militar, dalla Casa della Navigazione Italiana, dalla Banca di Spagna e dalla chiesa di Santa Madrona. Alle nove, vari soldati e ufficiali fanno la loro apparizione nella Rambla. I compagni danno l’allarme: la truppa avanza! Ma subito si vedono soldati e capi mostrar fazzoletti bianchi di pace. Talvolta la voce dei compagni dice: «Non sparate, compañeros, arrendetevi, venite con noi!». E poi soldati e lavoratori si abbracciano fra grida di entusiasmo e lacrime di commozione. È un momento d’ineffabile grandiosità. Il fuoco ricomincia. I faziosi, arrabbiati, sparano senza sosta, ma i nostri non scherzano e rispondono con energia.
Nella Capitaneria General, Goded resiste senza troppo ardore. Un paio di cannonate ben dirette decidono del conflitto, e il generale si arrende dopo poche ore dal principio delle ostilità e dall’arrivo dell’aeroplano che l’ha portato da Majorca.
Arresosi il primo baluardo del militarismo, tutto il grande e solido apparato costruito durante il biennio negro vacilla e crolla. Sono le undici antimeridiane del 19 luglio, e la Telefonica si è arresa. Così pure l’Hotel Colon. Più tardi si arrende l’Università. Il fascismo è virtualmente sconfitto, a Barcellona. Gli assalti alle case dove s’erano fortificati i faziosi, a quelle dei potentati, gli incendi alle chiese e ai conventi si succedono senza interruzioni. Dal cader della notte, grandi incendi illuminano la città. All’infuori dei bagliori del fuoco, Barcellona è avvolta nella completa oscurità. Gruppi di compagni armati percorrono le strade. Senza tregua s’ode la consegna: «C.N.T.! C.N.T.!» accompagnata da evviva e dai colpi dell’Atarazanas.
 
20 luglio. La battaglia continua presso questa caserma. La domenica, verso sera, i militari hanno issata la bandiera bianca: ma quando i compagni si sono avvicinati, li hanno accolti con una scarica. Molti sono i caduti ma i più non si perdono di coraggio. La rivincita dei nostri non si fa attendere. Un cannone vomita la sua mitraglia sui traditori. La chiesa di Santa Madrona e la casa della Navigazione Italiana sono bruciate. La mattina del 20 luglio tutti i nostri compagni si trovano per abbattere l’ultimo ridotto dei faziosi. Tutti si dimostrano valorosi. Ascaso perde la vita quel mattino indimenticabile. Era inevitabile: combatteva come un illuminato, a petto scoperto. Anche da morto conservava nel viso il sorriso della vittoria e la serenità del dovere compiuto.
Tutti si comportarono da bravi, gli ignoti come i noti. Durruti, che fu leggermente ferito; Garcia Oliver, Riera, Carreño, Ortiz, Martinez, Patricio Navarro, Ruano, Aurelio Fernandez, Gordo, Manzana, gli adolescenti della nostra Gioventù, la compagna Concha, e Palmira, e la giovanetta Pilar Negrete, che rimase ferita in una barricata; e un’altra giovane compagna della quale ignoro il nome, che, sfidando la mitraglia, non cessava dall’andirivieni portando da bere ai combattenti. Fu una mischia nella quale tutti furono all’altezza del momento storico.
La situazione fu decisa e conclusa dall’operazione dei compagni del camion. Questo veicolo, ricoperto di materassi già insanguinati in precedenti combattimenti, e condotto dal compagno Subias, conteneva una mitragliatrice operata dal mitragliere improvvisato Enrique Carrion, e i compagni Juanel e Cubas armati di fucili, i quali avanzando dalla Rambla fino al porto e fermandosi davanti alla parte vulnerabile della caserma, scaricarono con precisione la mitragliatrice. I compagni che, protetti dal camion, erano avanzati a piedi, secondarono l’opera della mitragliatrice, e pochi momenti dopo il nemico issò la bandiera della resa — che, questa volta, era autentica e definitiva.
 
[Mujeres Libres, luglio 1939]
 
 
… a Madrid
 
«L’hanno voluto. Davanti al fascismo, la rivoluzione». Questa è la parola d’ordine.
Le strade fremono. Migliaia e migliaia di lavoratori si raccolgono negli Atenei, nei Circoli, davanti alle radio. Mezzo milione di operai vigila, aspettando gli eventi. Ma quasi tutti sono inermi. Per tanti uomini, per tante volontà ci sarà appena qualche centinaio di rivoltelle. Ogni ora si ripete la invocazione insistente. Nelle vie avvengono manifestazioni reclamanti con voce alta:
«Armi, armi; vogliamo armi!».
Casares Quiroga si è rinchiuso in un atteggiamento incomprensibile.
— Io non do un sol fucile. Questa è la rivoluzione!
(Per paura della rivoluzione si facilita il trionfo del fascismo. Per paura del popolo si lascia che i militari trionfino in mezza Spagna. Per la viltà di Casares Quiroga nel nostro paese è morto più di mezzo milione di lavoratori).
Finalmente, non si sa da dove, escono da sé le prime armi. Casares non ne ha dato l’ordine. Moles neppure. Ha dovuto essere qualche militare lealista esasperato dalla stupidità e incoscienza del Governo. Alle porte di alcuni Circoli Sociali, socialisti e comunisti, arrivano camion carichi di fucili, che si distribuiscono rapidamente. Per la C.N.T., per la F.A.I., per la Gioventù Libertaria, non ci sono armi d’alcuna specie. Se le vogliono, dovranno conquistarsele offrendo il petto al piombo.
Ma non tardano a comparire le prime armi. Un camion carico di fucili passa per la Glorieta de Cuatro Caminos. Dove era diretto? Poco importa. Un gruppo di compagni che s’è accertato del carico, rivoltelle in pugno, assale il veicolo e in pochi minuti prende possesso dei fucili che sono distribuiti tra i compagni di Cuatro Caminos e Tetuàn. Sono i primi. Conquistati, non regalati. Sono primi fucili che, quella notte, vigileranno intorno alle caserme dove guata il tradimento.
Madrid si sveglia al tuono del cannone, tra il rombo monotono degli aeroplani e il tragico dialogar delle pistole e dei fucili. Per le vie passano vetture cariche di operai armati che vanno o tornano dai punti dove si combatte. Ragazzi armati vigilano le entrate della città. I vetri s’infrangono allo scoppio dei mortai e delle bombe a mano. Dalla sera si combatte senza interruzioni, si lotta a morte in cento punti diversi. E non più solo intorno alle caserme. Ora si combatte nei conventi e nelle chiese e nei palazzi. Sugli operai che difendono la libertà, sui lavoratori che mettono a repentaglio la vita, sparano i «sẽnoritos» nascosti negli appartamenti alti, trincerati nelle chiese trasformate in fortezze. Nel corso della mattinata si presentano momenti delicati e gravi. I «pacos» distraggono le nostre forze. Cercano di deviare gli effettivi destinati a dar l’assalto alle caserme. Cercano di disorientare, di sbaragliare gli uomini armati onde facilitare la sortita di quei che difendono le caserme. Ma non vi riescono…
Intorno alla caserma de la Montaña sta il meglio dell’anarchismo madrileno. Più di mille uomini si battono in prima fila. Alcuni hanno armi, altri no. Gli inermi aspettano affannosamente la caduta del compagno per raccogliere la sua rivoltella o il suo fucile e continuare a sparare. È un valore che non conosce misura. Gli uomini avanzano, a petto scoperto, sotto il fuoco concertato delle mitragliatrici fino alle porte stesse della caserma, per mirare con sicurezza. Quando uno cade, non importa. Quattro si contendono la sua arma, venti il suo posto.
Dentro la caserma è il fiore e la crema dell’esercito spagnolo. Vi sono due reggimenti di fanteria, uno di zappatori e altri specialisti, e oltre mille «sẽnoritos» fascisti. Vi sono: un generale, sette colonnelli, quaranta comandanti e diverse centinaia di capitani, tenenti e alfieri. Dentro ci sono, in tutto, circa quattromila uomini armati fino ai denti; trincerati in un edificio forte, che domina tutto il vicinato.
Fuori c’è il popolo. Intorno alla caserma possono essere tre o quattro mila. Tra di loro si trovano guardie d’assalto, che combattono con bravura. Si trovano operai socialisti, repubblicani, comunisti e anarchici. Ci sono pure alcune mitragliatrici e vetture blindate. Inoltre c’è un cannone del 10, che i lavoratori hanno trascinato qui, non si sa da dove, e che spara a zero sulla caserma. Ma la maggior parte degli assedianti è inerme. La lotta è diseguale. Ma mentre i traditori han basso il morale, i lavoratori combattono con un entusiasmo illimitato e con assoluta fede nella propria vittoria.
Gli assedianti hanno fretta di espugnare la caserma. Non sanno che cosa avvenga negli altri punti. Si odono spari da ogni direzione. Anche al Campamento e a Getafe si combatte. E nell’interno di Madrid? Nell’interno schioccano senza interruzioni le pistole dei lavoratori caricati nelle automobili e dei fascisti trincerati nei loro edifici. Ma la conquista non è facile. C’è un momento in cui si crede raggiunta la vittoria. Da una finestra aperta della caserma appare, come bandiera di pace, un lenzuolo bianco. Il giubilo percorre la moltitudine.
«Son nostri!».
Come valanga i lavoratori si precipitano sulla caserma. Ma quando le sono vicini, quando stanno per toccarla con mano, una raffica di mitragliatrici abbatte le prime file. Bisogna retrocedere. Bisogna continuare l’assedio, mirando bene, procurando di impiegare bene le munizioni. Si combatte con rabbia, con odio, disperatamente. A poco a poco il fuoco della caserma rallenta. Si vede che la resistenza cede, che il morale dei faziosi declina, che non potranno resistere più a lungo…
Sono le dodici meridiane del 20 luglio, quando incomincia l’assalto…
 
[Madrid Rojo y Negro, luglio 1939]