Titolo: Disarticolare il mondo dell’autorità
Argomento: Fuoriporta
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È passato un mese dall’attacco incendiario dell’antenna di Zurigo-Waidberg, un mese di silenzio sospetto da parte di media ed autorità. Solo la scorsa settimana sono cominciati ad emergere i primi dettagli, e dai media apprendiamo che l’antenna in questione era nientemeno che il sistema radio di emergenza della polizia di Zurigo, che dovrebbe entrare in funzione nel caso in cui il normale sistema radio non funzionasse. I cavi alla base di quell’antenna sono stati dati alle fiamme causando danni per centinaia di migliaia di franchi e mettendola fuori uso per «diversi giorni», e un mandato d’arresto internazionale è stato emesso contro il compagno ricercato* [Dissonanz, n. 32].

Alla luce di questi nuovi fatti, il silenzio che è seguito a questo sabotaggio non ci sorprende. Con questo attacco è stato toccato un nervo scoperto che ha messo in imbarazzo l’intera forza di polizia della città di Zurigo, evidenziandone la vulnerabilità. Cosa sarebbe successo se in quel momento, per una qualsiasi ragione, ci fosse stato un guasto al sistema radio della polizia? Probabilmente, senza poter usare la radio per comunicare, trasmettere ordini e informazioni, la polizia di Zurigo si sarebbe ritrovata seriamente limitata nella sua capacità di coordinarsi e reagire, creando una situazione favorevole per chiunque abbia dei conti da regolare con questa società. Ma facciamo un passo ulteriore: e se questo fosse successo nel corso di momenti di tensione sociale, come ad esempio le sommosse di Bellevue di qualche anno fa o quella di Europa-Allee? Senza potersi coordinare, le forze dell’ordine si sarebbero trovate in serie difficoltà nel riprendere il controllo della situazione e garantire un ritorno alla normalità. Quelle sommosse, invece d’essere sommosse-lampo di qualche ora, forse avrebbero avuto abbastanza ossigeno da dilagare nello spazio e nel tempo. Anche il loro carattere avrebbe potuto trasformarsi in qualcosa di differente: creando una cartografia difficilmente controllabile dalle autorità a causa della loro incapacità di coordinarsi, esse avrebbero potuto aprire nuovi spazi di riflessione. Europa-Allee, e poi? Cosa vogliamo? Come vogliamo vivere? Domande che avrebbero trovato risposte pratiche e immediate sul momento. La questione della gentrificazione, ad esempio, è legata al problema della ricchezza — di chi ha e chi non ha — e, senza la protezione delle forze dell’ordine, l’esproprio da parte di chi non ha forse avrebbe costituito una risposta. La rivolta avrebbe potuto andare ben al di là del solo problema della gentrificazione mettendo in discussione la proprietà privata e con essa le stesse radici della società dell’autorità.

Spesso davanti alle ingiustizie e alle prepotenze di questa società ci sentiamo impotenti. In fondo, trasformare la società è un compito quasi impossibile: cosa può mai fare una singola persona? Senza riflettere troppo ci culliamo in tradizioni, rituali, identità collettive e ripetizioni di gesti, semplicemente perché è ciò che abbiamo sempre fatto.

Il numero di persone scese in strada, di danni causati e di sbirri feriti diventa il parametro di misura del successo o meno di una manifestazione. Non vogliamo ammettere che misurare meramente il lato quantitativo non è altro che una illusione che ci creiamo per continuare a reiterare gli stessi rituali. La logica dell’«oggi dieci, domani cento» ci impedisce di guardare oltre il nostro naso, di vedere che altro può essere fatto, che anche un singolo piccolo atto può cambiare drasticamente una situazione più della ripetizione continua di ricette «collaudate». Noi pensiamo che sia necessario sviluppare la capacità di guardare al di là di tutti questi rituali e delle comode abitudini che atrofizzano la nostra capacità di immaginare, per trovare anche altri modi di agire.

Il silenzio seguito a quell’attacco è stato quindi la foglia di fico che ha cercato di coprire una semplice verità: la superiorità numerica e di armamento non contano molto di fronte all’intelligenza e all’ingegno umani. Un paio di cavi dati alle fiamme nel posto giusto e al momento giusto da parte di un singolo hanno la potenzialità di disarticolare un intero esercito, di trasformare una situazione che può sembrare statica in qualcosa di nuovo, differente e imprevedibile. Ora, se teniamo presente che l’intera società può funzionare solo grazie alla presenza di infrastrutture che garantiscono la circolazione di flussi, di informazioni, di elettricità, di merci, di persone, ecc., che queste infrastrutture sono presenti dappertutto nello spazio fisico, un intero mondo di possibilità di agire e interagire si apre davanti ai nostri occhi.

Negli ultimi mesi abbiamo visto come un piccolo fuoco nel posto giusto può anche paralizzare «la metà della Svizzera» [Dissonanz, n. 30], come i cavi di una antenna in fiamme possono mettere fuori uso parte del sistema di comunicazione della polizia: cosa sarebbe potuto accadere se questi sabotaggi fossero avvenuti in momenti particolari interagendo con altri eventi?

Lo Stato, l’economia e l’autorità sono tutt’altro che astratti e intoccabili, basta trovarne i punti deboli, basta usare un po’ d’ingegno e d’immaginazione.

Per chiunque sappia dove guardare, il re è nudo ed è vulnerabile.

Al compagno in fuga auguriamo buona fortuna, dovunque si trovi.


[Dissonanz, n. 34, 17/8/2016]


* Ricordiamo che il 10 luglio di quest’anno sono state effettuate 4 perquisizioni domiciliari a Zurigo e San Gallo,

e che da allora viene ricercato un compagno, inquisito per il sabotaggio dell’antenna.


Paralizzare tutto


Un piccolo incendio di un pozzetto di cavi del nodo ferroviario di Zurigo Nord, la notte del 7 giugno 2016 ha paralizzato «metà della Svizzera». Un piccolo incendio, che chiunque può avere acceso. «Se si vuole danneggiare intenzionalmente un sistema, si troverà sempre il modo di farlo», ha precisato il portaparola di Pro Bahn Schweiz, associazione dei pendolari, senza beninteso voler incitare a commettere simili atti. Un effetto incisivo, una procedura semplice e l’impossibilità di sorvegliare tutti i cavi e i pozzetti in cui quei cavi si congiungono… Una buona notizia per tutti coloro che hanno a cuore il sabotaggio dell’ingranaggio economico in cui siamo costretti tutti a girare.

I media hanno tentato di far passare i «pendolari» per vittime. Nervosi, stressati, in ritardo, o che hanno perso il proprio volo. Ma è davvero tanto orribile che la quotidianità, pressata in un treno sovraffollato, in marcia per una così bella giornata di lavoro, di scuola, di esami,… venga sconvolta? Non pensiamo, come i media cercano di dipingere, che le persone del luogo siano talmente abbrutite da non riuscire ad immaginare altro che il solito tran tran. Senza complicazioni, ogni giorno uguale. Ma, se così fosse, allora sarebbe tempo di farle riflettere un poco. Poiché, se costretto sulle rotaie dell’abitudine, il potenziale umano è destinato a finire su un binario morto, su una tratta fatta di treni sovraffollati, di percorsi stressanti e di attività meccanizzate, avendo come panorama il grigiore del cemento dei muri e delle strade. Una tratta che l’uomo percorre per guadagnarsi da vivere, allo scopo di non perdere il treno. Imprigionato in una macchina, come la rotella di un meccanismo che forse presto diventerà obsoleta.

Una quotidianità che presto diventa un’abitudine e non lascia quasi più tempo per riflettere. Allo stesso modo l’essere condannati-a-vegetare non ci consente di avanzare perché, pur potendo riflettere, ci è preclusa ogni possibilità d’agire. La riflessione gira allora a vuoto. In questo scenario, una interruzione della normalità provocata da un corto-circuito può costituire una fonte di luce alla fine del tunnel. Sia a livello sociale che individuale. Ciò che serve è immaginazione e coraggio. Immaginazione per far uscire la riflessione dai meandri dell’abitudine; coraggio per agire di conseguenza.

Il sabotaggio — mezzo utilizzato da secoli dagli sfruttati e dagli esclusi al fine di combattere l’apparato che genera la loro condizione — suscita spesso malcontento fra coloro che avrebbero tutte le ragioni per rallegrarsi dei guasti che produce. Gli schiavi felici, o semplicemente quelli impauriti, che difendono l’abitudine perché… Perché l’abitudine è da sempre il pilastro portante della servitù volontaria, di chi preferisce mantenere il giogo persino quando è possibile liberarsene senza correre rischi. Se al contrario non fossimo così docili e felici, bensì piuttosto riluttanti e ostinati davanti alla gabbia della quotidianità, riusciremmo probabilmente ad immaginare come approfittare di una tale situazione di rottura. Una simile situazione caotica potrebbe rendere possibili molte cose, anche solo nel mettere in evidenza fino a che punto tanti si aggrappino inspiegabilmente alla normalità abituale. E se fosse vero che le persone non sanno più immaginare altro, allora ciò costituirebbe un’ulteriore ragione per diffondere le idee anarchiche e difendere il sabotaggio e la rivolta allo scopo di stimolare la capacità d’immaginazione. Se però le persone approfittassero di quell’occasione per difendere comunque le strutture e le istituzioni del dominio, questa, malgrado tutto, non deve essere una buona ragione per farsi dissuadere. Perché chi vuole veramente la libertà deve prima di tutto cominciare a smettere di chiedere permesso!

L’identificazione con l’insieme della rete del lavoro e del controllo potrà anche essere tanto diffusa alle nostre latitudini, chissà… o almeno questo è ciò che molto abilmente si cerca di dimostrare. Ma mi riesce difficile immaginare che anche la gioia per la paralisi dei trasporti pubblici non sia altrettanto diffusa… per quanto rimanga troppo spesso silenziosa. «L’opinione pubblica» appare una forza superiore, e trasforma rapidamente il mancare un esame o l’inizio di una giornata di lavoro o di scuola quasi in una sorta di catastrofe personale… Come se tutti si partisse gioiosamente, con un sorriso entusiasta sulle labbra, per l’inizio di una magnifica quotidianità. La mentalità dello stacanovista resta per me un enigma, e mi è difficile non dubitare della sua esistenza. È certo noto che molti si creano una enorme pressione interiore per essere performanti e funzionare come ingranaggi. Ma è altrettanto noto che tale pressione continua a produrre collassi nervosi di ogni genere, come depressione, stress da lavoro, suicidi…

Se tuttavia ne abbiamo abbastanza di tutto ciò e non siamo disposti anche noi ad interiorizzare la pressione impostaci dal mondo del lavoro e del consumo, allora dobbiamo cercare di sbarazzarcene come meglio possiamo. In tal senso, il sabotaggio è uno dei mezzi più a portata di mano di quanto si creda. Spesso non è troppo complicato e non bisogna essere dei geni della tecnica per realizzarlo. Tutto ciò che occorre è tenere gli occhi e le orecchie ben aperti. Trovare un punto debole e allungare le mani. È quanto prova il sabotaggio di inizio giugno. Un piccolo incendio che ha paralizzato «metà della Svizzera». Sono migliaia i motivi per paralizzarla, e questo sabotaggio avrà sicuramente avuto i suoi. Penso che la cosa più interessante non sia di speculare sulle sue motivazioni, ma di attaccare con le proprie ragioni, idee e possibilità, l’asfissiante mondo del lavoro.


[Dissonanz, n. 30, 22/6/16]