Contropelo

La forza delle idee

Paul Gille
 
«Nella produzione sociale della loro vita», dice Karl Marx, «gli uomini accedono a rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà; rapporti questi di produzione, i quali corrispondono ad un grado determinato dell’evoluzione delle forze produttive materiali. La struttura economica della società è costituita dall'insieme di questi rapporti di produzione, i quali formano la base reale su cui si eleva la sovrastruttura giuridica e politica, cui corrispondono determinate forme della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo della vita sociale, politica e spirituale, in generale. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma, al contrario, è l'esistenza sociale che determina la loro coscienza» (Critica dell'economia politica).
È questo, come si vede, un negare alla forza morale ogni funzione nella determinazione degli avvenimenti umani. I sentimenti, le idee, l'ideale, non hanno alcuna efficacia propria, alcuna influenza reale nella vita; non sono che le apparenze illusorie d'un determinismo materiale sul quale non esercitano alcuna azione. È l'interesse, l'interesse materiale, l'interesse economico, che guida il mondo.
È la tesi che ha fatto fortuna sotto il nome di concezione materialista della storia. — È questa tesi che un gran numero di pappagalli, con gli occhiali o senza, ci ripete senza posa da un mezzo secolo di germanizzazione del socialismo. È ciò che Engels, l'alter ego di Marx, riassumeva così: «Le cause determinanti di questa o quella metamorfosi o rivoluzione sociale, non devono ricercarsi nelle teste degli uomini... ma nelle metamorfosi della produzione e dello scambio» (L’Anti-Dühring).
Esaminiamo quanto vale questa affermazione.
Notiamo subito che essa si basa su una metafora, su una metafora sostituita alla realtà, e sulla quale si ragiona come se si trattasse della realtà stessa. Infatti non esiste una sovrastruttura sociale. Questa non è che un'espressione metaforica e metafisica, una fantasia gratuita ed arbitraria, che suppone precisamente, con una petizione di principio, quello che si tratta di dimostrare: la nullità dell'ideale e la divinità della materia.
Basta aprire gli occhi alla realtà per veder svanire questo miraggio. Quello che ci mostra in effetti il mondo sociale è un'armonia organica dove le idee, lungi dall'apparire come un caput mortum, come un elemento morto, senza realtà, appaiono al contrario come un elemento vivente di vita propria, come una forza autonoma, dappertutto presente ed attiva.
Certo, l'uomo non è puro spirito, e le sue idee, come i suoi sentimenti, subiscono largamente l'influenza dell'ambiente materiale in cui si evolve, del regime economico sotto cui vive. Ma per quanto profonda, per quanto notevole sia quest'influenza, essa non è esclusiva, non è onnipotente. «L'uomo non vive di solo pane». Vi sono altre relazioni oltre quelle economiche. Vi sono altri bisogni, oltre i bisogni materiali. E se l'uomo è, come l'hanno chiamato, «figlio della bestia», la sua natura è tuttavia lontana dalla semplicità del bruto, che giustificherebbe — sino ad un certo punto — la tesi materialista. La sua natura è complessa. Vicino ai suoi bisogni materiali, egli ha dei bisogni affettivi e dei bisogni intellettuali. Gli uni e gli altri intervengono — o possono intervenire — nelle azioni con cui l'uomo reagisce all'ambiente e che testimoniano del suo grado di elevazione nella scala della vita.
Questo perché l'uomo non è un «semplice animale egoista». Egli è socievole per natura; nasce socievole come tutti gli animali bisessuati e diviene così sempre più sociale, vale a dire suscettibile d'altruismo e di egoismo nello stesso tempo.
Inoltre egli è dotato di ragione, vale a dire della facoltà di ragionare, di concepire delle astrazioni e di coordinare le sue idee astratte.
E da questa triplice natura dell'uomo derivano, nella condotta e nella attività umana, tre ordini di moventi: moventi egoisti, moventi altruisti, moventi impersonali o ideologici.
Idee pure? Ragione pura? No: noi lasciamo questo ai metafisici! Ma dinamica cerebrale. «Dopo i sapienti studi di Fouillée e di Tarde, non è più permesso d'ignorare che le idee sono forze, e le immagini suggestioni pressoché ipnotiche» (Charles Recolin, Solidaires).
Questa vita e questa attività autonoma delle idee, possiamo, checché ne dica Marx, constatarle prima di tutto nel campo economico: in quelle relazioni economiche che Marx dichiara indipendenti dalla volontà degli uomini.
«Un fenomeno economico — dice molto giustamente G. De Greef — non è un fenomeno puramente materiale». E precisa: «I fenomeni economici che, d'accordo colla scuola di Marx, considero come fenomeni fondamentali della struttura e della vita collettiva, implicano elementi ideologici». E, precisando ancora, aggiunge: «Dal momento che un fenomeno è sociale, non è mai puramente materiale» (La Sociologie économique).
Niente di più vero; ed è tanto vero che Espinas ha potuto dire, nel suo ammirabile libro sulle «società animali», che una società è un «organismo d'idee», e che Elisée Reclus, in Evoluzione e Rivoluzione, ha potuto dal canto suo scrivere con ragione: «È il succhio che fa l'albero; sono le idee che fanno la società. Nessun fatto storico è meglio constatato di questo».
Dopo tutto ciò che cosa diviene l'affermazione di Karl Marx che nega, nelle relazioni di produzione, la funzione della volontà? Non è forse vero che sono stati confusi una volta di più fatalismo e determinismo?... Fatalismo: vale a dire concezione semplicista della causalità. Determinismo: vale a dire negazione dell'assolutismo e dell'arbitrario nella natura, concezione complessa, concezione sintetica dell'eziologia dei fenomeni.
Il semplicismo economico, il semplicismo materialista di Marx, è tanto falso, tanto assurdo quanto il semplicismo degli idealisti puri. Negando la causalità della coscienza e della volontà, esso disconosce questa verità biologica elementare che l'uomo, essere vivente, non è puramente passivo, che è dotato d'attività, di movimento proprio, d'iniziativa; esso disconosce questa verità psicologica, che ogni azione cosciente è un fatto complesso, in cui interviene, come sorgente, come fattore efficiente, il fattore personale, il fattore psichico; esso disconosce infine questa verità sociologica, che la vita sociale poggia sulla psicologia collettiva, dalla quale emana, per così dire, come un fiore dal suo stelo.
Al contrario, riconoscere col buon senso la parte, per quanto minima essa sia, che l'ideazione e il pensiero personale hanno nella determinazione degli ordinamenti umani, è negare la fatalità dei fenomeni economici, è rovinare alla base il sofisma anti-idealista di Marx, è rendere alla volontà ragionata dell'uomo la sua dignità e i suoi diritti.
Sia pure! ci si dice. Il materialismo rigoroso, il materialismo puro, è un errore.
Ma non è lo stesso dell'economicismo. Certo, le idee hanno la loro indipendenza relativa e la loro funzione autonoma nella produzione dei fenomeni economici; ma una volta che questi siano stati prodotti, gli altri fenomeni sociali, gli altri fenomeni collettivi, non sono più che l'accrescimento fatale, la conseguenza automatica di quelli. È dal modo di produzione della vita materiale che risulta il processo sociale, politico e intellettuale della vita. «Le cause determinanti di questa o quella metamorfosi o rivoluzione sociale non devono essere cercate nelle teste degli uomini... ma nella metamorfosi della produzione e dello scambio».
Così il problema si sposta, ma resta il medesimo. Si tratta di sapere se il movimento proprio delle idee limita i suoi effetti alla «struttura economica della Società» e se, per conseguenza, tutto il resto, tutto «il processo sociale, politico e intellettuale della vita», non è che «un riflesso mentale» della realtà economica, un miraggio che ricopre questa realtà, se l'indipendenza relativa del pensiero e dell'azione non persiste in tutti i campi della vita. Se tutte le idee dell'uomo non sono, in ultima analisi, che idee «interessate», dopo aver rigettato il fatalismo materialista, dovremo alla fine risolverci ad ammettere il fatalismo economico? Questo è il problema che, non più l'interpretazione materialista, ma l'«interpretazione economica della storia» sottopone al nostro esame.
«È dannoso — dice Pascal — far troppo vedere all'uomo quanto egli assomigli alle bestie, senza mostrargli la sua grandezza; è ancor più dannoso fargli vedere la sua grandezza senza la sua bassezza; ed è più dannoso ancora lasciargli ignorare l'una e l'altra cosa. Ma è molto vantaggioso rappresentargliele entrambe».
Non è forse un assimilare l'uomo al bruto crederlo incapace di elevare il suo pensiero al di sopra degli interessi materiali suoi e di quelli del suo gruppo?
Non è un togliergli la sua grandezza — la sua grandezza naturale fisiologica innata — negargli l'attitudine alle idee astratte, alle idee superiori che fanno la dignità della sua specie, o trattare queste idee come vane illusioni?
Sì, l'uomo è un animale e, come tale, sottomesso — lo sappiamo anche troppo — a tutte le esigenze, a tutte le necessità fisiologiche della vita animale; ma è anche un essere pensante, un essere dotato di coscienza e di ragione, capace di concepire e di volere il giusto, in tutti i campi, in tutta l'estensione del termine. Avere un ideale — un'idea astratta, un'idea sintetica di giustezza e di giustizia —, ecco quel che costituisce la nobiltà e la superiorità umana.
Molti degli esseri umani, ohimé! è vero, non sono uomini, non sono ancora che antropoidi, scimmie perfezionate; non s'interessano alle idee astratte che per quel tanto che esse li riguardano. Ma questi ritardatari dell'evoluzione, questi esseri minori in cui sonnecchiano ancora le virtualità umane, sono appena delle larve d'umanità e non sono loro a fare la storia umana.
Quelli che la fanno questa storia, in tutti i campi, quelli che creano l'avvenire, sono gli uomini animati da un'idea, un'idea astratta tanto più possente, quanto più è sintetica e giusta. L' idea, checché ne dicano i marxisti, guida il mondo.
Idea astratta; ma non entità metafisica, non elucubrazione senza legami con la realtà: idea vivente, idea-forza che dipende dalla fisica universale e ne subisce le leggi. Per quanto grande sia la sua potenza motrice, l'idea non gode di nessun privilegio soprannaturale. Realtà fisica, essa non si sottrae, per quanto alta e giusta sia, alla pressione dell'ambiente, e non si tratta affatto — intendiamoci bene — di passare da un semplicismo ad un altro e di sostituire con un assolutismo idealista l'assolutismo materialista di cui abbiamo riconosciuto la vacuità.
Le idee subiscono dunque la pressione delle condizioni economiche. E questa pressione è ordinariamente tale che si può dire che, nel suo insieme, la vita collettiva ne dipende. Essa ne dipende, ma non ne deriva come da una sorgente. Questa resta, checché ne dica Engels, «nella testa degli uomini». E noi possiamo vedere in tutti i campi della vita l'indipendenza relativa delle idee dalle condizioni economiche manifestare i suoi effetti.
Nella vita politica, prima di tutto, non vediamo noi spesso, nel corso della storia, le agitazioni sfrenate dei partiti e perfino i colpi di Stato non escludere la coesistenza di un regime economico perfettamente stabile? E si troverà mai uno storico coscienzioso che cercherà di ricollegare ogni avvenimento politico della vita di una nazione ad una causa economica di cui sarebbe la conseguenza fatale?
Perché? Perché gli uomini e i partiti non lottano solamente per ragioni economiche ma per cause sentimentali e intellettuali, con cui l'interesse materiale non ha niente a che vedere. Quando Marx ed Engels, per esempio, affermano nel loro Manifesto dei comunisti, che la libertà di coscienza, alla sua comparsa sulla scena politica del mondo, non fece «che proclamare nel dominio del sapere il regno della libera concorrenza», dimenticano che, qualunque siano, sociologicamente, i rapporti organici che legano i due fenomeni e li solidarizzano, non è meno vero che nulla permette di subordinarli l'un l'altro, di stabilire tra loro un rapporto di causalità, piuttosto che farli dipendere da una causa comune. E infatti non è forse proprio questa «ideologia» tanto spregiata dal materialismo marxista, che si rivela all'analisi come la causa comune dei suddetti due grandi fatti storici concomitanti, ma indipendenti l'uno dall'altro, tanto indipendenti l'uno dall'altro quanto due foglie di uno stesso albero, due germogli d'uno stesso ceppo? Inoltre questa indipendenza reciproca del fatto politico e del fatto economico è così patente, così reale, che si vedono molti uomini e gruppi di uomini, senza alcuna inconseguenza, subire l'ascendente di una delle cause e rigettare l'altra, mostrarsi, per esempio, fermi sostenitori della libertà di coscienza e, nello stesso tempo, implacabili avversari dell'individualismo economico. È chiaro, infine, che se la psicologia collettiva che si traduce in queste idee e in questi fatti è, senza dubbio, in parte, il risultato di interessi economici, essa deriva certamente, per molta altra parte, da fattori intellettuali e morali assolutamente al di fuori delle questioni di produzione e di scambio.
Nessun uomo sensato pretenderà certo che tutti i «liberali», tutti i partigiani delle libertà politiche, siano divenuti tali sotto la spinta di interessi materiali; nessuno sosterrà che non esistano tra loro — e in gran numero — uomini il cui atteggiamento è dettato dall'ideale stesso, da alte preoccupazioni di idee, filosofiche e morali, indipendentemente da qualsiasi cura o influenza d'ordine economico.
«Se dei neri o dei coolies cinesi — dice Menger — lavorassero nelle fabbriche tedesche, una democrazia socialista non sarebbe mai nata, anche supponendo riunite tutte le previe condizioni dell'ordine economico» (État populair du travail). Che significa ciò se non che l'economicismo è un determinismo semplicista, che se le circostanze economiche sono spesso condizione di un fenomeno politico non lo necessitano né lo producono, e che non sono esse, ma lo stato mentale, lo stato psicologico di coloro che agiscono, ad esserne in ultima analisi il fattore efficiente?
Le circostanze economiche non bastano inoltre a spiegare le filosofie, le morali, le religioni.
Le religioni, queste filosofie infantili, sono lungi dall'essere, come vogliono i marxisti, un puro «riflesso» della situazione economica; esse non sono semplicemente una consolazione ingannevole, una «nebbia» che nasconde la realtà della vita materiale; e il sentimento religioso è ben altra cosa, in verità, del «bisogno economico invertito» che cerca in un aldilà immaginario le soddisfazioni che gli mancano su questa terra. È questa una concezione molto povera, ingenua e semplicista della genesi e del carattere delle religioni. Queste sono soprattutto, in realtà, tentativi di spiegare l'universo e i suoi fenomeni, saggi anticipati di cosmologia, prodotti, manifestazioni del bisogno di comprendere, del bisogno intellettuale sintetico, del bisogno filosofico che caratterizza l'uomo e lo eleva al di sopra dei suoi progenitori animali. Il volere che la loro «ideologia» non sia che l'effetto della vita materiale, è veramente un abusare del paradosso; è veramente un torturare la dialettica e il buon senso. Come pretendere, per esempio, che la predicazione di Gesù di Nazareth o quella di Buddha Sakia Mouni, non sia stato che il risultato d'una rivoluzione tecnica, d'una «metamorfosi della produzione e dello scambio»? Come pretendere che tutti i dogmi cattolici, proclamati nel corso della storia religiosa del nostro Occidente europeo, non siano stati che il prodotto fatale e il riflesso della sua storia economica? Tutta la sottigliezza sofistica degli interpreti di Marx avrà un bel da fare; non giungerà a tenere in piedi o a palIiare questa assurdità: la spiegazione economica delle religioni e delle filosofie.
E se le circostanze economiche non bastano a spiegare le filosofie e le religioni, come potranno spiegare le concezioni giuridiche e morali? Queste sono, checché se ne possa pensare, sotto la dipendenza di quelle. E se queste non sono in tutto e per tutto create da quelle, ne attingono però una buona parte dei loro elementi; e sarebbe difficile, per esempio, concepire il diritto divino senza la religione, come sarebbe difficile concepire una morale veramente umana, una morale umanitaria e senza dogmi, al di fuori d'una cosmologia, al di fuori di una concezione sintetica che la giustifichi e l'ispiri. Non è forse tutta una filosofia, tutta una concezione dell'universo e nello stesso tempo dell'uomo, che si afferma nel nostro ripudio dell'assolutismo e dell'arbitrario, in questa morale di dignità umana, ove già si vede la parola d'ordine dell'avvenire?
Non solamente l'economia non spiega le concezioni giuridiche e morali vigenti, che dipendono dalla filosofia, che ne derivano consciamente o inconsciamente, ma sono invece le concezioni giuridiche e morali che danno la chiave del regime economico su cui dominano. Bisogna invertire i termini del rapporto stabilito da Marx. Incontestabilmente, nel mondo umano, la concezione cosmologica, la concezione giuridica, la concezione morale, che risultano, derivano l'una dall'altra, precedono e determinano, governano l'organizzazione economica e sociale di cui sono l'anima.
È anche falso dire, con la versione marxista degli Statuti dell'Internazionale, che riassume così nettamente l'errore di Marx ed il suo punto di vista metafisico, che «la soggezione economica del lavoratore ai possessori degli strumenti da lavoro è la causa prima della sua servitù in tutte le sue forme». Questa «causa prima» non è affatto prima. Essa ha la sua origine in una concezione giuridica, nella concezione della proprietà, ed è questa — basata a sua volta su un errore filosofico: l'illusione assolutista, l'illusione della creazione autoritaria — che le dà forza e vigore, che le dà la forza morale senza la quale ogni regime economico è un corpo senz'anima e senza vita. La vera causa, non prima, ma efficiente, di ogni servitù sociale durevole sta nello spirito che la giustifica, nella ragione deviata, illusa, che la sostiene e le dà forza di vivere.
Cause prime non ce ne sono. Non ne esistono qui più che in alcun altro campo. Noi non sappiamo che farcene di questa vana metafisica. E la superstizione materialista di Marx vale ai nostri occhi la superstizione contraria, l'idealismo puro, che egli combatte così aspramente.
Certo, è vero: non vi sono realizzazioni ideali senza base materiale propizia. Ma questa è soltanto la condizione, non è la causa, la forza motrice dell'atto. Bisogna non confondere. Invece il marxismo fa proprio questo: confonde condizione e causa.
La forza motrice dei nostri atti è in noi: è nei bisogni diversi della nostra natura... Ma qui si insiste ancora e si torna alla carica. Bisogna vivere, ci si dice, prima di filosofare. Primum vivere; deinde philosophari. Senza dubbio, se filosofare significa fare della metafisica; ma niente affatto, se significa cercare quello che è giusto. Si vive, siamo d'accordo, prima di ragionare. Ma il giusto, il giusto sotto i suoi aspetti multipli, non è forse la legge medesima della vita, la legge medesima della forza? E l'essere animato, qualunque esso sia, anche il più incosciente, non subisce forse questa legge e non ne ha l'istinto?
Questo istinto è il germe della forza morale, il germe della dignità umana. Il solo fatto della sua esistenza fa dell'amoralismo materialista una aberrazione e un non senso.
 
 
[Abbozzo d'una filosofia della dignità umana, 1925]