Autopsia

Jean Meslier, un curato anarchico

Arthur W. Uloth
 
Il nome di Jean Meslier è poco conosciuto nel nostro paese, ed anche in Francia non occupa la posizione che gli spetta nell’evoluzione del pensiero libertario. La sua reputazione è quella di un anticlericale, o di un libero pensatore che precorre il proprio tempo. Le sue vedute sullo Stato e il suo odio per quasi tutte le forme di autorità sono del tutto sconosciute. Il suo Testamento trova ancora lettori, ma è un lavoro incompleto che esprime solo la metà di ciò che fu scritto nel testo originale.
Meslier nacque nel 1664 a Mazerny, nel ducato di Rethel. I suoi genitori erano benestanti; suo padre era un mercante di stoffe. In famiglia c’erano molti ecclesiastici, alcuni dei quali assurti ad alte cariche nella chiesa. Ma Meslier non avvertiva alcuna vocazione, e aveva ben poco entusiasmo per il sacerdozio, e perciò non fu esercitata nessuna pressione contro la sua volontà. Tuttavia — come racconta egli stesso — decise di far parte della chiesa per far piacere ai suoi genitori, e senza dubbio anche perché condivideva la loro opinione che quella fosse «una condizione di vita più comoda, più pacifica e più onorata che non quella di molti uomini».
Studiò al seminario di Reims, fu ordinato sacerdote il 18 dicembre 1683 e, dopo aver occupato diversi posti, nel dicembre 1688 gli fu assegnata la parrocchia di Etrépigny. Aveva ventiquattro anni. A Etrépigny rimase fino alla sua morte nel 1729.
Se tutto fosse filato liscio, avrebbe trascorso un’esistenza gaia, confortevole e piuttosto futile, sarebbe morto e dimenticato come molti altri prelati di parrocchia. Egli possedeva di suo una discreta somma di denaro oltre il normale stipendio, così che per la sua posizione sociale era molto ricco. Ma le afflizioni lo attendevano al varco.
Dapprincipio tutto andò liscio.
Ci sono rimasti un certo numero di rapporti su di lui, redatti dai suoi superiori. Per venti anni non si disse che bene di lui. Adempiva ai suoi doveri correttamente, ed era lodato per avere alcuni eccellenti libri nella sua biblioteca. Un solo neo macchiava la sua esistenza, ma di pochissima importanza. Aveva assunto come domestica una giovane cugina. Ella aveva ventitré anni ed egli trentadue. Le perpetue dei preti dovrebbero essere tutte donne attempate, ma in quel tempo non si guardava troppo per il sottile in alcune cose e nessuno infastidì Meslier per la sua trasgressione.
Tutto ad un tratto le cose mutarono. Il nostro eroe ci verrà presentato come «ignorante, presuntuoso, molto caparbio e ostinato; un arricchito che, poiché possiede molto denaro, neglige la chiesa. Egli interferisce in cose che non comprende ed è irremovibile nelle sue opinioni una volta formate. Interessatissimo ai propri affari privati, è infinitamente negligente ed ha una tendenza esteriore molto marcata al giansenismo. La sua chiesa è in condizioni pietose».
Questo avveniva nel 1716. Nel 1710 l’arcivescovo Le Tellier morì e il suo successore non fu altrettanto amichevole e indulgente nei confronti di Meslier. Tuttavia ciò non basta a spiegare il cambiamento. Vi sono parecchie versioni di un’aspra contesa avuta con il signore del feudo, che a quanto pare era una persona cattiva e poco raccomandabile, ma non dobbiamo attenerci alla sola versione del prete.
Voltaire affermò che il litigio era sorto per il maltrattamento di alcuni contadini da parte del signor De Touly, feudatario locale. Meslier aveva preso le difese dei contadini e rifiutato di raccomandare il De Touly alle preghiere dei suoi parrocchiani, come allora si usava. Un’altra versione dice che la lotta sia stata originata da un posto a sedere in chiesa.
Qualunque sia stata la causa, la questione divenne una guerra in miniatura sostenuta, almeno da parte del Touly, con tutta l’asprezza degli uomini che vivono in comunità isolate, che hanno molto poco da fare e di conseguenza non vedono le cose nelle loro giuste proporzioni. È il mondo descrittoci nel noto romanzo Clochemerle. Un miscuglio di mediocrità e di puerilità troppo penoso per poter divertire.
Quando una domenica il curato salì sul pulpito, la sua voce fu subito sommersa dai suoni rauchi di corni da caccia. De Touly aveva appostato i suoi cacciatori proprio vicino alla chiesa con l’ordine di soffiare nei corni quando Meslier avesse incominciato a predicare. Comunque, la domenica seguente i cacciatori non vennero ed il prete colse l’occasione per indicare a dito il signorotto ed anche tutta la nobiltà, in una splendida geremiade. Dichiarò, inoltre, che non si curava di ciò che i suoi superiori pensavano delle sue opinioni.
De Touly riferì il discorso al vescovo. Meslier non volle smentire il suo atteggiamento. Ma il nobil uomo sapeva che il suo nemico era vulnerabile. La cugina era partita e il prete, che ormai aveva raggiunto la cinquantina, aveva per domestica una giovane di diciott’anni.
Certo ch’essa fosse la sua amica, De Touly si fece un dovere di comunicare al vescovo che Meslier «viveva in peccato».
Ciò costò allo sfortunato prete un mese di «ritiro» nel seminario e, naturalmente, dovette mandar via la sua giovane amica.
La sua collera, come si può misurare dai suoi scritti, fu terribile, ma non ebbe il coraggio di sfogarla pubblicamente. Non era il tipo d’uomo che amasse il martirio. Godeva la sua agiatezza e, d’altra parte, un uomo di cinquant’anni abituato a vivere nella mollezza e nei piaceri della carne, non poteva tutto ad un tratto farne a meno. Come prete si trovava proprio in quella posizione d’impotenza descritta in Twelve years in a Monastery di McCabe: «Il decreto della Chiesa va prima contro l’apostata. Egli viene scomunicato — maledetto in questa vita e nella prossima — e socialmente isolato: se non diffamato. Non gli è più possibile incominciare un’altra vita, sia socialmente che finanziariamente, nell’età matura; intanto si trova senza casa, senza amici e senza risorse…». Non sa guadagnarsi da vivere in altro modo che facendo il prete.
Meslier, dunque, aveva una sola via di scampo: scrivere.
Quando morì i suoi colleghi trovarono tra le sue cose un voluminoso manoscritto, avvolto in una carta su cui stava scritto il seguente titolo noioso, ma terribile:
«Ricordi, pensieri, sentimenti di Jean Meslier su una parte degli errori e abusi nella condotta del governo degli uomini, in cui si possono vedere chiare ed evidenti dimostrazioni della vanità e falsità di tutti gli dei e le religioni del mondo, indirizzati ai suoi parrocchiani dopo la sua morte e da servire come testimonianza della verità per essi e per tutti i loro simili. In testimoni illis et gentibus. Matt. X. 18».
Di questo manoscritto esistevano tre copie o forse quattro. Nel 1735 Voltaire ne ottenne una copia e nel 1762 la diede alle stampe ma incompleta… Da buon borghese e statolatra qual era, aveva escluso tutte le espressioni libertarie e rivoluzionarie, e ristretto l’edizione ai soli argomenti in cui Meslier appariva libero pensatore e anticlericale.
Il testo completo è stato pubblicato una sola volta in tre volumi, nel 1864 ad Amsterdam.
Coloro che scoprirono il manoscritto ne furono terrorizzati e c’è da meravigliarsi che non l’abbiano subito distrutto. I colleghi di Meslier furono terribilmente irritati e non vollero nemmeno annunciare la sua morte sul registro della parrocchia. Egli fu così escluso, come era costume, dalla comunità cristiana.
Il libro non è il frutto di una mente calma e serena che cerca di scoprire la verità. È evidente che Meslier era sempre stato un miscredente, un ateo, pur avendo contenuto il suo ateismo in argute sortite contro la società di uomini dabbene.
Egli aveva adempiuto sempre fedelmente ai suoi doveri di sacerdote, ma senza troppi riti e cerimonie. Ora si presentava sotto tutt’altro aspetto. Il libro è un grido di rivolta, un furioso attacco contro ogni autorità costituita.
Qual è il tema dell’opera? Che la religione è il sostegno della tirannia. La religione non è soltanto una menzogna, ma sostiene anche l’oppressione.
«La religione e la politica… si comprendono tra di loro come due borsaioli. Il governo politico protegge la religione per quanto sia stupida e inutile. Questa è la sorgente di tutti i mali che opprimono l’umanità e di tutte le imposture che la tengono infelice, prigioniera dell’errore, della falsità, delle superstizioni come le leggi liberticide dei grandi tiranni della terra».
È per questo che Meslier fece suo il desiderio che aveva udito da «un uomo senza educazione e tuttavia ricco di buon senso»: «Io desidero — aveva detto — che tutti i tiranni siano impiccati con le budella di tutti i preti».
Nessun altro scrittore del XVIII secolo scrisse con pari violenza contro la monarchia. A Meslier i re non piacevano, nemmeno Enrico IV, del quale ultimo a cantare le lodi fu Voltaire. «Dove sono — egli chiede — quei generosi uccisori di tiranni che esistevano nei secoli passati? Dove sono i Bruto e i Cassio? Dove sono i nobili uccisori di Caligola e di molti altri?… Dove sono i Jacques Clement e i Ravaillac di Francia? Perché nel nostro tempo non risorgono a massacrare, a pugnalare tutti questi detestabili mostri nemici del genere umano, a liberare i popoli dalla loro tirannia? No, non vivono più questi grandi uomini!…».
«Le prime monarchie — egli scrive altrove — erano accolite di banditi, di pirati e di ladri». E così era dei nobili: «I primi furono gente assetata di sangue, oppressori, crudeli e parricidi». Il loro regno privo di ogni giustificazione iniziale non ha mostrato poi nessuna giustificazione successiva. Essi sono parassiti e tali sono i servitori della loro burocrazia: «tutti questi funzionari di principi e di re, tutti questi superbi intendenti e governatori di città e di province, tutti questi fieri esattori di tasse e di decime, impiegati d’ufficio e burocrati e infine tutti questi ipocriti prelati ed ecclesiastici così pure questi gentiluomini, signore e signorine che non fanno altro che rallegrarsi di sé, e darsi una bella vita, mentre voialtri povera gente dovete lavorare giorno e notte e portare tutto il peso del giogo, e avete su di voi tutto il peso dello Stato».
Non è solo contro la classe dirigente che Meslier indirizza i suoi attacchi ed invita i popoli d’Europa ad unirsi nella rivolta, ma anche contro i piccoli funzionari dello Stato. Non solo contro i legiferatori e i giudici, gli uomini della giustizia, — dell’«ingiustizia», come li chiama; ma anche contro «gli impiegati, i controllori, i gendarmi, le guardie, i sergenti, gli uscieri, i birri e ogni altra canaglia».
È l’amarezza dei poveri che parla attraverso la penna del parroco anarchico. Egli conosceva la loro miseria. «Tutto ciò — egli dice riferendosi alle cerimonie religiose — non produrrà un solo chicco di grano e non vale uno solo dei colpi di zappa che il contadino dà sul terreno per coltivarlo».
Ma egli si rendeva anche conto che questa miseria era il prodotto dell’istituzione della proprietà privata. «Gli uomini si appropriano ciascuno di una particolare porzione dei beni della terra, anziché goderne in comune». «Tutti gli uomini sono uguali in natura».
Da quanto segue sembrerebbe che egli pensasse socialmente e non biologicamente. «Tutti hanno uguale diritto di vivere e di camminare sulla terra, ugual diritto di godervi la naturale libertà e di avere uguale parte dei frutti della terra; lavorando profittevolmente, ognuno avrà le cose che sono necessarie alla vita».
Egli applicò il suo comunismo anche alle relazioni sessuali. «Se gli uomini non rendessero i loro matrimoni indissolubili come fanno ora, e se al contrario essi lasciassero sempre la libertà di unirsi insieme, ciascuno seguendo la propria inclinazione, e la libertà di separarsi quando non potessero più stare insieme, o quando il sentimento suggerisse loro di formare un’altra nuova unione; certamente non si vedrebbero tanto disordine e tanti litigi tra uomini e donne. Essi godrebbero i loro piaceri pacificamente e gaiamente, perché resterebbe sempre la buona amicizia, che sarebbe il principale motivo della loro unione, e sarebbe un gran beneficio per essi come per i bambini che sarebbero allevati col concorso… dei beni comuni e pubblici…».
L’ideale di Meslier era una società costruita da comunità contadine, con la terra di ognuno posta in comune, concatenate in conformità del beneficio scambievole.
Egli non ricorse ai libri dei «filosofi» né alle relazioni di viaggi tra i popoli selvaggi. Fondò la sua utopia sulle comunità contadine che vedeva intorno a sé, di cui rimanevano ancor tracce visibili dell’organizzazione, per quanto la loro forma completa fosse sommersa dal sistema sociale esistente.
La sua società ideale era il sogno del popolo tra il quale viveva. Il problema delle città lo toccò solo di sfuggita. Non parlò dell’industria e della classe dell’artigianato, e per conseguenza anche il commercio non ha avuto posto nella sua comunità. Gli atti di scambio sono ridotti semplicemente agli aiuti che una comunità dà ad un’altra in caso di bisogno. La sua negligenza verso l’industria è tutt’al più rimarchevole, se si considera che vi era una breve distanza fra Etrépigny e le importanti drapperie di Sedan.
Nel 1712, 1713, 1729 (anno in cui muore Meslier) si verificarono scioperi tra i tagliatori di panni. Essi fecero gran rumore. Il più importante fu quello del 1712, in cui 1200 lavoratori si trovarono fuori dai laboratori a causa di 400 tagliatori che erano in sciopero. Sembra probabile che Meslier identificasse la città col centralismo e con lo Stato che tanto detestava.
Comunque fosse, nella società che egli proponeva non c’era posto per lo Stato. La sola forma di autorità che avrebbe accettato era quella morale dei più vecchi e della gente più ricca di esperienza. Che questa autorità potesse essere tirannica egli lo ammetteva, ma pensava che fosse inevitabile. A parte ciò, le sue idee sarebbero considerate troppo avanzate ancora oggi da molta gente, ad eccezione degli anarchici.
Egli era certamente troppo in anticipo su Voltaire, il quale non rese un buon servizio all’umanità purgando il libro di Meslier e alterando il senso della scelta che ne fece. Voltaire, come altri filosofi, accettava lo Stato come qualcosa di ormai consolidato. Molti filosofi di allora non si discostavano troppo dall’ateismo; Voltaire stesso era un deista.
Però, ciò che distingue il Testamento di Meslier da tanti altri scritti sociali del XVIII secolo, è il richiamo all’azione e alla rivoluzione. Il suo libro è indirizzato ai suoi parrocchiani e li invita ad agire una buona volta, a insorgere per la costruzione di una società libera senza attendere che altri lo facciano per loro.
«La vostra salvezza è nelle vostre stesse mani. La vostra liberazione non dipende da nessun altro se non da voi stessi… Unitevi, dunque, popoli di tutto il mondo, se siete saggi; unitevi se avete dello spirito per liberarvi dalle vostre comuni miserie. Insorgete, prima di tutto comunicandovi in segreto i vostri pensieri e i vostri desideri. Diffondeteli ovunque e il più abilmente che potete; per esempio, scrivendo cose simili a queste, che facciano conoscere a tutto il mondo la falsità dell’insieme degli errori e delle superstizioni delle religioni, le quali giovano all’odiato governo tirannico dei principi e dei re della terra. Conservate nelle vostre mani i prodotti e le ricchezze che voi producete in così grande abbondanza col sudore delle vostre mani, tenetele per voi e per i vostri simili. Non date nulla a quella razza orgogliosa e inutile, gente debole di nessuna utilità al mondo…».
Non si tratta di ampollosa retorica rivoluzionaria. È un piano per la rivoluzione. Non è questione di conquistare lo Stato, ma semplicemente di metterlo da parte.
Questo messaggio anarchico non fu accolto dai parrocchiani di Etrépigny, né da nessun altro. La borghesia che fece circolare il Testamento ebbe cura di scegliere le parti che le facevano comodo. Ma Meslier ebbe la sua rivincita, e quando i contadini, durante il corso della rivoluzione, insorsero e distrussero per sempre la potenza dei signori feudali, essi stavano obbedendo senza saperlo all’appello che Meslier aveva loro lanciato sessant’anni prima.
Ciò che rende il Testamento di Meslier così suggestivo è il fatto che, anziché partire dalla filosofia o da qualche concezione idealistica dell’uomo «allo stato di natura», basasse le sue teorie sugli uomini come li ha conosciuti. Non sosteneva che gli uomini erano naturalmente dotati di una bontà sovrumana. Ma considerava che certi uomini sono per temperamento inclini ad un «dominio imperioso e tirannico», mentre altri sono «più saggi e meglio intenzionati».
Egli sapeva anche che la complessità morale degli uomini non impedisce che la vita della comunità sia nell’insieme felice.
Questa visione realistica rende il suo libro convincente molto più delle utopie autoritarie del suo tempo, in cui essendo ciascuno soltanto una ruota del meccanismo poteva difficilmente mancare di apparire virtuoso.
 
 
[Freedom, vol. XV, n. 33, 15 agosto 1953]