Contropelo

L'imperio della tecnocrazia

André Prudhommeaux

La grande idea della fine del XIX secolo, l'idea del governo della Scienza — così cara ad Auguste Comte, Ernest Renan e Marcelin Berthelot — è saggiamente tramontata e non evoca più che qualche tenero sorriso. Gli uomini di buon senso sanno oggi che se vi è un'etica della Scienza non vi è affatto una scienza dell'Etica. Un postulato morale che è, non permette di dedurre ciò che deve essere. Pretendere di derivare una norma di condotta da un semplice giudizio di realtà, è giocare con la logica. Il mondo conoscibile non fissa nessun scopo alla coscienza umana: accade, invece, proprio il contrario. Tuttavia molti uomini si preoccupano dell'idea di fondare l'ordine della città sul credo personale, provvisorio e riconosciuto come tale, mentre esistono un'infinità di tali credo possibili e l'autorità costituita di ogni società chiusa è irrimediabilmente scossa dalla libertà di scelta che presuppone la tolleranza, di pensiero e d'azione, nei confronti di esperienze volontarie e molteplici. In mancanza di una Scienza con una S maiuscola, che si è rifiutata di dare le basi di un'ortodossia politica, si è ricorso a quei surrogati che sono la Storia e la tecnica, l'una sostituendosi all'altra, secondo i bisogni della sofistica autoritaria.
La storia, come studio dei fatti unici del passato o come investigazione critica dei possibili latenti attraverso la somma infima dei possibili realizzati si presta difficilmente a legittimare con un «diktat» unitario, una canalizzazione totalitaria delle credenze e delle volontà umane in un senso determinato. Tuttavia, se della Storia si fa un sistema chiuso, attribuendole la materialità e l'inerzia meccanica, si può presentare come legge «imposta» da essa e «inviolabile» l'estrapolazione di certi fenomeni statistici grossolani e poi gridare, con qualche probabilità di essere ascoltati: «disgraziati, voi che vi credete liberi di raggiungere le vostre preferenze intime per la libertà, che cosa state facendo? Non vedete che cercate di falsificare o di sbarrare il corso naturale, irreversibile e necessario della Storia?».
A questo punto entra in scena la Tecnica. Nel corso degli ultimi dieci venti o cento anni, si sono accumulati certi mezzi materiali in certi luoghi del globo: da questo fatto si pretende dedurre gli scopi immanenti che quei mezzi presuppongono e imporli arbitrariamente a tutto l'universo. Dall'esistenza delle fette di melone, Bernardino di San Pietro, di idilliaca memoria, concludeva che secondo «la morale della natura» il melone doveva essere mangiato in famiglia, e alla stessa conclusione giunge la «morale della tecnica» giustificando l'esistenza del coltello per tagliare il melone, della forchetta, ecc. Ma nessuno pensa di tener conto della diversità di gusti e delle norme di condotta e di constatare che vi sono persone a cui il melone piace o non piace, c'è a chi fa bene e a chi fa male.
«Tecnologicamente, le posate da melone e il melone sono fatti le une per l'altro, bisogna dunque servirsi il più possibile di quell'armonia prestabilita» affermano i nuovi legislatori dell'efficienza.
La tecnocrazia si serve di diverse finalità immanenti di questo genere per supporre una assiologia implicita e una valutazione «funzionale».
«La semplice ricerca dell'efficacia o della novità tecnica crea la bellezza involontaria, fatale e indiscutibile» — afferma la tecnocrazia. E non solo la bellezza, ma l'utilità, la verità, la giustizia, ecc. Così, davanti a certi disegni di macchine, di veicoli, o missili (la cui «efficacia», tutta negativa, consiste nell'annientamento complessivo dell'umanità) siamo obbligati ad inchinarci in omaggio alla «finalità immanente» dell'oggetto; e con un giro imprevedibile, saremo sfuggiti alla teocrazia scientifica unitaria gratuita e obbligatoria per cadere nel suo surrogato, la tecnocrazia. L'efficienza e la tecnicità diventano un valore e un fine in se stesse — il solo universalmente evidente e intelligibile — senza che ci sia almeno permesso di domandare in che cosa l'efficienza sia umanamente efficace.
«Tecnicità» è una parola moderna e impressionante per esprimere una vecchia realtà: il know-how, il saper-fare. Pretendere di fare del saper-fare la virtù suprema e l'arbitro delle società, è la caratteristica della tecnocrazia.
È evidente che una tale concezione conduce a fare «efficacemente» qualsiasi cosa in qualsiasi modo e per qualsiasi scopo; a fare per fare senz'altro criterio o sanzione che questa specie «d'arte per l'arte» trasportata sul piano dell'industria.
È molto giusto che il punto di vista dei tecnico, dell'«uomo che possiede i mezzi» sia preso in considerazione in funzione degli scopi ideali e dei bisogni materiali che esprime una società, ma è altrettanto assurdo rimettere al tecnico l'autorità sociale, la «dittatura» affidandogli, come semplici mezzi da aggiungere al suo arsenale materiale (a quel vasto magazzino d'arsenali che oggi ha superato quello di Tempi Moderni di Chaplin), l'insieme degli interessi non-tecnici della società — quelli del produttore, del consumatore, del filosofo e del legislatore, per esempio — e tutti quei valori che sono irriducibili al funzionalismo tecnocratico. Il tecnico non ha altro ruolo che quello d'un regista di teatro: legittimamente non è né l'autore dell'opera, né lo scenografo, né l'attore, né lo spettatore, né il critico.
Gli uomini e le donne che compongono una società equilibrata non possono che fissargli un proprio compito, assicurargli una certa autonomia, controllare il suo lavoro e trarne gli insegnamenti; in nessun caso possono abdicargli tutto.

 

Dopo che Burnham aveva annunciato in un libro brillante ma deludente «L'era degli Organizzatori» (The Managerial Revolution), un altro autore meno brillante e non meno deludente, Alfred Frisch, proclamò nel 1954 l'inevitabile avvento della tecnocrazia. Quest'avvenimento sarebbe un bene o un male? Egli si rifiutava di giudicarlo: il fenomeno è un fatto e la sua utilità egli pensava che fosse tutto ciò che ragionevolmente si può sperare. La tecnocrazia è «compatibile», secondo lui, con le ideologie più opposte, ed il tecnocrate considerato allo stato puro non è né un produttore, né un pensatore; non è un tecnico, non un esperto, non un «industriale» nel senso sansimoniano della parola, non un pianificatore, non un «manager», non un candidato all'esercizio del potere politico nel nome dell'efficienza particolare di certi metodi.

Che cosa è in realtà? A. Frisch evitava accuratamente d'illustrare la sua definizione negativa con degli esempi concreti, dei precedenti storici, o con qualsiasi cosa che possa presentarsi a una controversia seria. Il suo tecnocrate è un essere di ragione, un'idea platonica di cui egli solo ha la visione diretta e geniale. Quanto a noi, siamo ridotti a discutere delle ombre che passano, come immagini ridicole, sui muri della caverna.
Ci sia permesso, tuttavia, di supporre che nella sua essenza la Tecnocrazia s'oppone a tutte le altre «crazie», nello stesso modo che la sovranità dei «migliori», quella d'un «popolo», quella d'«uno solo» (che sono di carattere essenzialmente politico), si contrappone a qualsiasi altra sovranità, od anche a quella delle leggi e dei ritmi della natura (fisiocrazia) che forma il quadro di ogni vera ecologia (1). Dietro a tutte queste realtà psicologiche di natura più o meno «religiosa», si nascondono delle realtà psicologiche che si esprimono con formule del tipo «Voce del popolo, voce di Dio». La sovranità della tecnica è nello stesso tempo la divinizzazione della tecnica, il fatto di scambiare i mezzi con il fine.
I fatti capitali che hanno permesso la formazione (e fino ad un certo punto l'affermarsi) della nuova crazia, pare stiano prima di tutto nell'interpretazione materialista della storia (in senso marxista, o più esattamente forse nel senso d'un marxismo volgarizzato, separato dal suo contesto e adottato in un modo diffuso dai quadri industriali e amministrativi come una propria ideologia); secondariamente la trasformazione dell'empirismo politico intuitivo in un codice molto preciso di ricette, legate all'uso generalizzato dei tecnici moderni che hanno ricevuto in America i nomignoli caratteristici di mass-communication, di social-relations, di personnel-management, ecc. Lo sviluppo vertiginoso dell'apparato della produzione e quello della propaganda, nel senso più largo della parola, ha generato, dal principio della storia contemporanea — tra il XVIII e XIX secolo — una tendenza degli esperti, in un'epoca particolarmente agitata e divisa sul problema dei valori e dei fini, a rivendicare il titolo di signore (se non di padrone). Il saper fare, nell'incertezza del che cosa fare, aspira naturalmente alla sua indipendenza e perciò stabilisce la precedenza del fare su tutti i motivi e le finalità possibili. Fare grandi cose, nel senso di «mettere in azione grandi mezzi», diventa un'ambizione per tutti coloro che non si accontentano, come l'abate Siéyès, di «durare»; ed i voltafaccia dei «pratici», che tra il 1789 e il 1815 servirono tanti regimi quanti la «Storia» ne trasse dal nulla, diedero il tono ad un pragmatismo — o meglio ad un nikilismo — che aveva come fine il «successo» nel senso napoleonico della parola. Stendhal e Balzac sono stati i testimoni delle conseguenze di questa barbarie, come lo sono i nostri romanzieri e commediografi di oggi, e il sansimonismo ha cercato di santificare, come il comunismo oggi, l'idea di un'armata umana della quale ogni membro avrebbe potuto dire come Hernani: «Io sono una forza che cammina».
Dove vanno i nostri moderni tecnici della tattica, della propaganda della popolarità, dell'industrializzazione, delle manipolazioni delle maggioranze parlamentari, e anche — ultima ma vecchia trovata — della «speranza»? Non lo sappiamo; A. Frisch non ce lo ha detto, e forse egli stesso e gli altri come lui l'ignorano. Il loro pragmatismo sembra fatto, innanzitutto, dalla pigrizia di affrontare praticamente (ed anche di pensare) i problemi. Non sempre c'è un Dio per gli ubriachi, ed accade piuttosto di sciupare la salsa anziché migliorarla quando si crede che la cucina consista nel mettere nella casseruola «molto di tutto» per vedere che cosa salta fuori. Ora, questa pare che sia la ricetta universale dei signori tecnocrati con il pretesto che «non si fa la frittata senza rompere le uova».
Credere che sia tutto permesso perché si crede che tutto sia possibile, è la cinica conclusione del delirio di volontà di potenza ispirata a dei cervelli deboli da uno o due secoli di rivoluzione industriale — distruttrice di tutte le riserve energetiche del globo e delle forze più intime dell'umanità.
I nostri sinarchisti sono moderni Diaforetici (2) «dei quali il cielo va orgoglioso contemplando le gesta e dei quali la terra si affretta a coprire le sconfitte».

 

(1) Termine introdotto da E. Haeckel (1866) per indicare lo Studio delle funzioni di relazione degli organismi col mondo circostante e tra di loro. Il termine è da preferirsi a biologia.
(2) Dottor Diaforetico, personaggio del Malato immaginario di Molière, medico ignorante e presuntuoso.