Miraggi

Laddove mi corrispondo sempre meno

Jean Malaquais
 
Non si vedeva il fondo della vasta sala: delle panche di legno senza spalliera, lunghissime e molto numerose, l'attraversavano nel senso della larghezza. Piuttosto alte da terra dalla parte da cui si montava, (anzi bisognava prender lo slancio per issarcisi) andavano abbassandosi da destra verso sinistra, in direzione di una serie di porte laterali che davano accesso agli uffici.
Dopo aver riempito i questionari d'uso, lasciate le impronte digitali su un'apposita scheda, e ricevuto un numero d'ordine, si era ammessi nella sala e ci si accomodava in cima alle panche, quelli giovani e svelti con un salto, quelli vecchi e obesi coll’assistenza dei loro concittadini.
Quel dispositivo, di un'ingegnosa semplicità, regolava mirabilmente la circolazione: così stradata, la clientela s'incamminava verso la sua destinazione, come portata da un tappeto scorrevole. L'appello dei numeri e il ritmo delle ammissioni nella sala erano sincronizzati in modo da evitare l’ingorgo, e l'inclinazione delle panche, che a sua volta era direttamente proporzionata alla loro lunghezza, faceva sì che lo scivolamento si effettuasse senza sforzo e, per così dire, automaticamente. Avvertito dagli altoparlanti che la sua attesa era finita, l’interessato, che intanto era arrivato all’estremità della panca, si rialzava con un «ah!», perché si trovava allora quasi al livello del suolo; intanto tutta la fila, come un sol uomo, scivolava di un posto.
Si può facilmente immaginare l’economia di personale che realizzava così l’Istituto Nazionale dei Sigilli e Stimmate, dato che i locali erano realmente affollati. Quel sistema offriva parecchi altri vantaggi non meno importanti, sebbene più trascurabili a prima vista. Per esempio, non c’era neanche un posto sprecato, perché su quelle panche ci si poteva star solo sorretti dal cittadino di sinistra e facendo da sostegno a quello di destra: questo aumentava la disciplina e incidentalmente tagliava corto alle camorre. D’altra parte, come spesso avviene nelle attese che mettono alla prova la pazienza, il desiderio molto naturale di fare un pisolino e il rischio che ne segue di perdere il proprio turno erano annullati dal fatto che ci si puntellava su una natica sola, e che nello scendere via via lungo la panca bisognava badare a non soccombere sotto la pressione sempre crescente.
Un beneficio secondario, ma per niente trascurabile, a sentir le lamentele del Dottor Babitch per la penuria di mobili da ufficio, era che il movimento continuo di tanti deretani in catena dava una buona patina al legno e lo rendeva assai più duraturo.
Purtroppo, come molte altre invenzioni pratiche, anche quella aveva i suoi inconvenienti. Prima di tutto, per una buona metà del percorso le gambe del cittadino si dondolavano in aria, lo spigolo della panca gli segava le cosce e, fermata la circolazione, il poveretto si sentiva informicolire il nervo sciatico; poi, quando i piedi avevano toccato terra, prima colle punte e finalmente coi talloni, bisognava che li rieducasse a poggiare in piano, tanto ne avevano perso l’abitudine; finalmente ancora più in basso, quando a forza di calci e di contorsioni sperava di aver ripreso l’uso delle gambe, le ginocchia cominciavano a salire e a entrargli piano piano nella pancia: a fine corsa gli uscivano dalle scapole.
Per di più, siccome ognuno si dimenava sulla sua natica, perché si sentiva terribilmente informicolito, la più piccola agitazione lo infilava un po’ più a fondo nel panciotto del suo prossimo. Evidentemente non c’era da parlare di alzarsi, di fare un giretto: ogni posto abbandonato era immediatamente riempito a causa della gravità e della pendenza del piano inclinato. Quindi tutti si trattenevano dal lasciare la panca e, a lungo andare, per forza ne risentivano.
Verso le sette di sera, mi trovai alla fine verso l’estremità inferiore della mia panca, da cui non mi separava più che il mio vicino di sinistra, un uomo secco e taciturno. Del resto, in complesso, malgrado la gran promiscuità, la folla era poco loquace. Certo ne usciva un rumore assordante, profondo, ininterrotto, accresciuto a momenti dall’urlo degli altoparlanti, una specie di brontolio dovuto alla scomodità, alla stanchezza e anche al bisogno istintivo di lamentarsi. Ma di conversazioni se ne sentivano poche. E, mi spiego, non intendo parlare di vere conversazioni: esposizioni comparate delle rispettive preoccupazioni, consigli reciproci, mutue confidenze, scambi di opinioni e di lagnanze. No, penso a una retorica che non sprema il cervello: «Eh, si va per le lunghe!», «Che sete!», «Non c’è che dire, si sta meglio a casa!», «Ma, dica un po’, lei mi ha preso per un materasso?».
Nella parte alta delle panche, dove la gente arrivava piena di energie e d’illusioni, dapprima cercava di far discorsi, ma presto si smontava, «veniva troppa sete» e, del resto, era impossibile gesticolare. Eppure, chissà perché, nella sala si sentiva uno strepito tremendo: doveva essere la nostra voce interiore, rientrata, che ci sfuggiva nostro malgrado.
Improvvisamente, l’uomo alla mia sinistra si sradicò dal suo posto: fra me e una di quelle numerose porte non c’era ormai che l’appello del mio numero. La gente, agglomerata al di sopra di me, mi scivolò dietro, e io arrivai in fondo alla panca, che terminava con un sostegno traforato, in cui venni a incastrarmi col fianco.
L’altro, l’uomo taciturno, con la schiena rotta in due e le mani sui fianchi, trotterellava a piccoli passi: non ne poteva più, povero diavolo, tutto contorto come un ceppo di vite.
Raggomitolata alla mia destra, con la testa fra le ginocchia e il gomito nel mio petto, una cittadina, la cui anatomia non aveva più misteri per me, si rivolgeva da sé dei discorsi d’incoraggiamento. Snocciolava sempre le stesse parole, emettendo sempre i medesimi suoni, che venivano dolcemente a confondersi col gran frastuono circostante. Probabilmente pregava. Era la terza volta che veniva in quegli uffici, mi aveva detto, e si raccomandava a Dio che fosse l’ultima. Dovunque volgessi lo sguardo, vedevo gente che brontolava sotto sotto: io ero l’unico, forse l’unico, a incubare la mia collera.
 
Ottocento dodici!… Per quanto uno se lo aspettasse, l’altoparlante sferzava come una doccia fredda.
— Ottocento dodici! Otto uno due! Porta diciannove! Porta uno nove! Ispettore trecento sei! Ispettore tre zero sei!
Balzai in piedi, portando con me il gomito della cittadina. Insieme allo sbalestramento che uno provava nel ritrovarsi in posizione verticale, l’incertezza di aver capito bene il numero, e la fretta quasi isterica di accertarsene, confondevano il cervello. Cercando di tenermi in equilibrio sulle gambe, non so se storte o sbilenche, raggiunsi la porta diciannove. A distanza di tre passi uno dall’altro, sormontati da enormi cartelli indicatori, ognuno alle prese col suo cliente, delle centinaia d’ispettori erano schierati dietro chilometri di banchi disposti a forma di greca: tutt’intorno si sentiva un ronzio da alveare, confuso e tumultuoso.
Mentre procedevo a zig-zag in quell’ambiente, tutto il mio corpo protestava contro il lento viaggio in discesa che aveva subito: alla vista di quell’armata di scribi, mi gridava che il vero scopo, il frutto migliore di una tale organizzazione non era quello di realizzare una economia nel personale, ma di rammollire il cittadino, per renderlo malleabile fra le mani del funzionario. Il mio, il tre zero sei, un tipo molto intellettuale e distinto, con le tempie scoperte e il colorito grigiastro, finiva di liquidare il mio predecessore.
— Gliel’ho già ripetuto abbastanza — gli diceva, rivolgendomi una prima occhiata indagatrice — Ritorni fra due giorni.
L’altro agitò le braccia in silenzio, poi se ne andò scuotendo la testa. Il mio uomo, dopo avermi chiesto il numero ed essersi aggiustato la cravattina a farfalla, batté un messaggio su una specie di tastiera; in meno di un minuto quello che doveva essere il mio incartamento arrivò attraverso un tubo pneumatico. Ne prese rapidamente conoscenza, come se verificasse una somma, non senza sbadigliare di noia. Io cercai di apparirgli fresco e roseo: non volevo che si accorgesse che ero digiuno, tutto incrampito, e come se lì per lì mi avessero disossato, lasciandomi proprio senza scheletro.
— Il suo affare — mi disse trattenendosi coraggiosamente dallo sbadigliare — mi ha l’aria di essere fra i più delicati.
— Ho un assegno da riscuotere e mi occorre la firma, ecco tutto.
— Cosa assai delicata — insisté.
— Delicata in che senso?
— In tutti i sensi — rispose.
— Non ho ancora capito: vuol essere più preciso? 
— Volentieri. Per quanto lei sulla sua domanda non ne abbia fatto cenno, sappiamo che ha parecchie firme: una che si legge Piero Javelin, una che si legge Elia Plot, più una ventina di altre, illeggibili, che somigliano a degli aeroplani. Dunque, per cominciare, occorre sapere quale di queste firme lei vuole autenticare.
— E per finire? — chiesi, inghiottendo a fatica la saliva.
— Una cosa per volta, se permette. Quale dunque?
— La prima — gli risposi.
— Allora, dunque? — ripeté.
— La prima in graduatoria, la mia, la sola ed unica •che mi appartenga, quella che ho apposto in fondo al mio questionario.
— Quante parole sprecate per non dir nulla! — osservò. — Se una sola di queste firme è la sua, non si capisce perché lei esiti a dirmi chiaramente qual è.
Lo dissi chiaramente, e lui approvò col capo: pareva che dal suo punto di vista non cl fosse differenza che io mi fossi deciso per un nome piuttosto che per un altro. Scarabocchiò qualcosa su una scheda, e poi mi domandò da quando avevo adottato la firma che si leggeva Piero Javelin.
— Da quando ho imparato a scrivere, credo. Non so...
Si sarebbe forse preoccupato di sapere perché «dunque» avevo firmato Elia Plot nel registro del signor Joli? O la domanda non era di sua competenza? Eppure mi osservava insistentemente, mentre si raschiava la gola, come per fare una voce speciale... Ma no, quegli scribacchini erano tutti dei subalterni (non c'era in vista neppure una sedia), e il mio non faceva eccezione, nonostante le sue arie professorali. Del resto, me ne infischiavo: non c'erano segreti, avevo messo tutte le carte in tavola, e, già che c'ero, gli avrei parlato da me; questo lo avrebbe disarmato.
— Faccia uno sforzo di memoria, mi suggerì cortesemente. — Occorre che sia preciso nelle sue risposte.
Non so perché, mi dava ai nervi; forse a causa della pazienza che ostentava, forse per il suo indice, che portava educatamente alla bocca ogni volta che aveva voglia di sbadigliare.
— Dal giorno che ho smesso di poppare il latte di mia madre — gli dissi. — È una indicazione abbastanza esatta? 
— Vedo — osservò lui, annotando la mia risposta nell’incartamento — che siamo stati un bambino precoce.
— Ci hanno fatto tanto sospirare il piacere di fare la sua conoscenza, e ora che ci siamo, ci piacerebbe avere quel foglietto.
Mi gettò un'occhiata in cui c'era una certa meraviglia: 
— Ma, senta un po’… il suo foglietto!... Lei capisce bene che le cose qui non vanno così lisce, soprattutto in un caso come il suo.
— Qualunque sia il mio caso, posso o non posso far legalizzare la mia firma senza che diventi un affare di stato?
Si rimise di nuovo a posto la cravatta, ma questa volta per scoprire il pomo di Adamo: gli urtavo i nervi e certo gli facevo l'effetto di un energumeno. Quello che chiaramente lo disorientava era il fatto che all'esterno ero calmissimo, senza gesti scomposti né bava alla bocca, e invece parlavo come se non avessi la testa a posto. Non capiva che, avendo perso la speranza di ottenere il mio foglietto, non avevo nessuna voglia di addolcire i miei discorsi con espressioni affabili e riguardose.
— Via, non si disperi — mi disse con tono paterno. — Per ora nulla è perduto.
— Nulla, davvero, salvo mia moglie, il mio quartiere, il mio lavoro, il mio stipendio, e ora la mia firma. — Misi i gomiti sul banco e lo guardai confidenzialmente. — Mi spieghi, caro lei, che cosa mi resta ancora da perdere? La libertà? Ma la libertà non si perde, la libertà si conquista; cosa ne pensa lei?
Era troppo per lui. Aveva tutte le intenzioni di esser gentile, ma quando il cliente, invece di avere della deferenza, si mette, chissà perché, a parlare a vanvera, non resta che dargli una lavata di capo.
— Ma dove crede di essere lei? — gridò l'impiegato. — Via quei gomiti di qui! Si è mai visto niente di simile? Fare lo stupido in una situazione come la sua!… Torni fra qualche giorno e se ne riparla.
— Di che cosa? — risposi. — Di cosa si riparla? Della libertà? Che bella cosa!... Incontriamoci in un bar: ci staremo meglio a chiacchierare...
Avevo voglia di saltare come un canguro, di fischiare come una scimmia, di nitrire come un cavallo. Si guardò intorno, come per cercare aiuto, o per assicurarsi che nessuno mi avesse sentito: non ero soltanto pazzo, ero anche compromettente. Ma, siccome tutti gli altri impiegati erano immersi nel loro lavoro, scrisse in fretta un appunto sui suoi documenti, li infilò alla svelta nel tubo pneumatico e mi gridò di tornare ii giorno dopo.
— E perché? Forse perché domani non è oggi, e quindi lei spera che toccherà a uno dei suoi colleghi di sbrigare la mia pratica? Novecentonovantanove su mille, non ricapiterò più tra i piedi a lei, vero? Ebbene, lei sbaglia, tre zero sei, capiterò tra i piedi proprio a lei! Richiederò di lei spessissimo, chiederò di lei tutti i giorni, per tutta la vita! 
Non so se dal turbamento o per uno slancio di simpatia, appoggiò i gomiti in faccia ai miei e mi gratificò di una specie di goffo sorriso, il primo forse che avesse fatto da che era a quel posto. Stentava a trovare le parole, tanto si sentiva cambiato. La gente, perché ha le sue preoccupazioni (e chi non ne ha?), vuol rifarsela con qualcuno, mi confidava. Ma quando uno va dal barbiere, se la piglia forse con lui, se il pelo gli cresce di traverso? Un individuo si presenta da una parte, il suo incartamento dall'altra, ed ecco il povero funzionario preso fra l'incudine e il martello. Eppure lui non c'entra: non è nessuno! Per esempio, dieci minuti prima lui non sospettava neppure l'esistenza del mio affare, non era responsabile di una virgola, anzi non sapeva neppure chi le metteva le virgole! Gl'incartamenti, una volta avviati, circolavano di testa loro, e non se ne conosceva né la provenienza, né la destinazione. Del resto l'ignoranza era obbligatoria; permetteva di compiere il proprio lavoro senza mescolarvi sentimenti o emozioni che ne alterassero lo svolgimento. Era perfino proibito di farsi un'opinione personale, sorgente inevitabile di pregiudizio e di parzialità. Il prodotto, diciamo pure, passava dalla fabbricazione al consumatore senza essere adulterato. Da quel punto di vista, l'organizzazione era perfetta: assicurava il massimo dell'igiene.
— Allora, mi capisce, — si discolpava lui — noi siamo una tappa, soltanto una tappa. L'interessato e il relativo incartamento si fermano qui un istante, si cerca di vedere se si combinano l'uno con l'altro, come una scarpa si adatta a un piede, poi nel giuoco si passa la mano. Guardi, io non dovrei dirglielo, ma sembra che la sua scrittura e le sue impronte digitali non si corrispondano.
— Non... si... corrispondono? — domandai.
— Eh no! — mi rispose, ringalluzzito di vedermi di nuovo ragionevole. — Non si corrispondono affatto.
— E quale delle due cose non è d'accordo con l'altra? — Dipende: in generale è reciproco, oppure a turno.
— E in particolare?
— In particolare?
— Sì, nel caso mio, in che senso le cose non tornano? 
— Beh, per lei non è stato ancora deciso. Per questo le consiglio di tornare fra qualche giorno.
— Perché? Occorre qualche giorno alle firme e alle impronte digitali per rimettersi d'accordo?
— Certo, qualche giorno ancora e tutto si accomoda, vedrà. Dunque, lei ritorni con il certificato di nascita, di residenza, di lavoro, il libretto militare, lo stato di famiglia, un resoconto dettagliato della sua vita, e quattro testimoni coi loro documenti in regola.
— Quattro? Coi documenti in regola? 
— Proprio così: bravo! — esclamò lui, tutto contento di avermi addomesticato.
Avevo voglia di dargli un colpetto sulla gota.
— Ma dove si figura che io possa procurarmeli quattro testimoni che accettino di venire a marcire per delle ore sulle vostre panche a scivolo? E poi il certificato di nascita l'ho allegato alla mia domanda. Avrei piacere di riaverlo.
— Riaverlo? — chiese meravigliato, come se avessi ripreso a farneticare. — Riaverlo ? Ma, pensi un po', è stato depositato agli archivi!
— Agli archivi... E, ben inteso, nessuno sa dove sono gli archivi?
— Appunto. Poi, ad ogni modo, il suo certificato di nascita non era più valido.
— Come? Non era… più… valido?
— Eh, no, lei non vorrebbe mica... — replicò con lo stesso tono ringalluzzito di prima. Si sarebbe detto che la sua voce si faceva più ferma, via via che la mia diveniva più esitante.
— E invece vorrei riaverlo, vorrei proprio riaverlo il mio certificato!
— È che... Ah, ecco il suo successore. Vuol cedergli il posto, per piacere?
Mi dava ai nervi quell'uomo, mi faceva venire una voglia matta di perseguitarlo. Non ricordo di aver mai provato niente di simile. L'idea di tormentare, e anche solo d'importunare, non mi aveva mai sfiorato la mente; nessuno mi avrebbe visto, in guerra, prendere a calci i prigionieri, né al liceo tirare dei petardi fra le gambe dei compagni; non trovo neanche divertente chi casca su una buccia di banana. — Sei nato di cattivo umore, — diceva Caterina, saltellando a pie’ zoppo. Ed ora mi prudevano le mani: ardevo dal desiderio di dargli un pizzicotto sul mento, di disfargli la cravatta, di strappargli i cinque bottoni del panciotto. Avevo una voglia matta di prenderlo per gli orecchi e di dirgli sul muso:
— Ma no, tre zero sei! Non ce ne ho nemmeno uno dei documenti che occorrono, tre zero sei! E non potrò ottenerne nessuno senza il sostegno di tutti gli altri, tre zero sei!
Ce l'avevo con lui per il suo colorito terreo, per la sua distinzione professorale, per quella specie di fifa nera che s'intuiva in lui (del resto, era pronto a mordere, appena uno aveva rimesso la spada nel fodero); ce l'avevo, anche perché mi faceva venir voglia di martirizzarlo e perché, dopo tutto, mi faceva pietà. Avevo un bel dirmi che lui non c'entrava per nulla, pure eccitava in me degli istinti brutali. Credo che me lo leggesse negli occhi, perché, bruscamente, prese il largo a passo di corsa. Accanto a me, distendendo i suoi certificati sul banco, il mio successore cercava di raddrizzarsi la schiena.
 
 
[Le Gaffeur, 1953]