Brulotti

Intorno ad uno sciopero

Mariuzza [Luigi Galleani]
 
Bisogna persuadersene: senza il proletariato non si fanno rivoluzioni; senza aver guadagnato alle finalità estreme dell'emancipazione — non dico la parte più numerosa, che questa se ne persuaderà soltanto dinnanzi al fulgore della vittoria e dei benefici che questa recherà con sé — ma la parte sua più intelligente, più evoluta e, conseguentemente, più vigile e più attiva, le rivoluzioni non ripagano che di scherni e disinganni gli enormi sacrifici di sangue e di energie che sono costate, e non conchiudono se non ad un disperato mutamento di basto e di padrone.

Basta domandarsi che cosa sia avvenuto della grande rivoluzione francese del 1789, o dell'ultima rivoluzione nazionale italiana, per comprendere se possa altrimenti conchiudere ogni movimento a cui il proletariato rimanga d'animo e di interessi straniero, strumento cieco dei calcoli o degli avvolgimenti di arruffianate oligarchie.

E bisogna persuadere ai lavoratori d'altra parte che ove non si innervino dell'irreligione dell'utopia e dell'audacia rivoluzionarie — che sono il frutto della lunga esperienza storica di cui si materiano socialismo ed anarchismo — le loro agitazioni mancano anche i benefici immediati apparenti ed effimeri in cui essi credono, per risolversi nella dispendiosa e sterile fatica di Sisifo: rimontano a vetta, cimentandosi ad ogni rischio ad ogni sforzo, il macigno delle timide rivendicazioni per vederlo riprecipitare a valle di tutte le miserie, di tutte le servitù disperate ed immutate.

E che se temerità, indiscrezione, audacia sono di ogni rivendicazione il viatico più sicuro, non ha questa migliori alleati, più efficaci cooperatori delle falangi sovversive, quanto più sono spregiudicate, conseguenti ed operose.

Il terreno ad una vasta, assidua, mutua e spontanea intesa, vi è dunque; e vastissimo. 
Inviolato o quasi, disgraziatamente.
 

Giacché gli anarchici, per un lato, da qualche tempo sopratutto, non si accostano volentieri al proletariato, o fugacemente; abbandonandolo, al primo disinganno, sprezzanti e sfiduciati.

Si ripete oggi il medesimo errore che tra il 1880 ed il 1890: la massa che nel primo decennio dell'Internazionale sognavamo d'avere allenato alla rivoluzione imminente, abboccava come un tonno all'esca della nuova legge elettorale, e ci lasciava in asso correndo su le peste degli "onorevoli" che barattavano l'anarchia, il socialismo, Marx e la lotta di classe, per l'ospizio di Montecitorio e per la medaglietta.

Non c'era da cavarne nulla di buono! Meglio abbandonarla al suo destino, a discrezione dei cavadenti e degli arruffoni!


 
Non si dicono mica, ragionevolmente: così come è stato fino ad oggi custodito e smunto, dai preti tenuto alla lassa, dai governi sotto la ferula, dai padroni sotto il giogo, relegato fuor dalle biblioteche e dalle scuole, in chiesa od in galera o nel rigagnolo, il proletariato non può essere che quello che è: l'armento ottuso e mansueto di cui fummo noi pure finché privilegiate condizioni od accidenti fortunati od urti inattesi ci svegliarono dentro la rivolta, che ci educò poi alla critica sempre più vasta e più temeraria degli istituti e dei rapporti sociali.

Non pensano mica, ragionevolmente, che anche in noi quel processo fu arduo, penoso, lento, sospeso da dubbi atroci e da intime tragedie in cui il cuore, il sentimento, gli affetti mal si arresero all'impero della ragione e si attardarono lacrimando e sanguinando sugli idoli e sugli altari che quella aveva atterrato; e che là dove la convinzione è più salda, meglio temprata, le sue incursioni nel campo della verità sono così scarse e così primordiali che a noi non conviene farne dogma né tenerci arca o segno di emancipazione e d'indipendenza assoluta; e che ove del magro patrimonio, più che la nostra vanità vogliamo alimentare le sorti dell'ideale, la perseveranza deve eguagliarsi all'impeto originario, ed ogni energia, ogni volontà, anche la più lieve e la meno decisa, sono così necessarie che nessuno ha diritto di ricusarle o di disprezzarle, meno di ogni altri noi che, scavalcate tutte le siepi dell'imperativo morale, sappiamo di non potere da tutti o da ciascuno pretendere più che non può dare le intime forze: un vago fremito oggi nel suo torpore, tutti gli aneliti domani quando l'apostolato, la riflessione, l'esperienza le avranno a se stesse rivelate.
 

Conchiudono sommariamente che il proletariato abbrutito dal millenario abito servile, refrattario al loro ardore, indifferente alla loro parola, beffardo ai loro entusiasmi, arcigno all'utopia, è la mala bestia irredimibile, e che a volerne cavare i militi della rivoluzione sociale c'è da perdere il tempo, il fiato e la fede.

Fede male in gambe il più delle volte. Avulsi dal solo campo in cui possano utilmente esercitare il loro fervore di rinnovazione, e dal tenersi in contatto assiduo colla realtà, codesti compagni finiscono poi per non veder più che se stessi, ad ossessionarsi di questa loro superiorità — misurata ad un calibro troppo negativo perché non abbia ad essere fantastica e superstiziosa — tornando passo passo, senza neppure accorgersi, al punto da cui erano partiti; sottoscrivendo all'ingiustizia contro cui si erano ribellati, riconciliandosi, contro ogni loro volontà, coi pregiudizi, gli interessi, la morale della classe contro la quale si erano ribellati: «schiavo rassegnato ed inamovibile, il proletariato ha il destino che si merita: c'è sempre stato un pastore su l'armento, un dominatore sui sudditi, un padrone sui servi». E di lì a conchiudere che il prete fa benissimo ad abbrutirli, il governo a schiacciarli, a burlarli il cavadenti, ad affamarli il padrone, non v'è più che un passo, uno; ed i più l'ingannano.

La gatta frettolosa fa i gattini ciechi, dice il proverbio: non so se sia vero; so che perdendo il contatto colla realtà, colla vita, col proletariato che della vita, di tutta la vita è il cardine, così come sarà leva e presidio della nuova vita che si annunzia, molti compagni nostri, tra i più grandi anche, accelerano dal divorzio all'abiura, sommergendo nell'atto finale di contrizione, atti di fede, di speranza, di rivolta, di cui s'erano orditi canti e palpiti della loro giornata luminosa.

Se avessero pensato che il proletariato non può essere diverso da quello che la vita e la storia lo hanno coniato, non se ne sarebbero sdegnati: si sarebbero persuasi che ove fosse quel che noi vorremmo, quello che noi siamo, né il proletariato avrebbe bisogno di noi, né noi di esso; e che appunto perché esso non è ciò che noi vorremmo, ciò che noi siamo, noi dobbiamo accostarlo, fiancheggiarlo, amarlo.

Per questo, proprio.

Di contro è una tendenza egualmente infausta ed anche più odiosa.
 

La corrente cioè che questo ringhioso ed ottuso misoneismo del proletariato non ignora; ma in luogo d'assalirlo di fronte e debellarne la superstizione cieca, le rabbie selvagge, le paure feroci, le devozioni ostinate, col pretesto che natura non facit saltus, che bisogna una buona volta essere pratici e vivi, accamparsi fuori della astrazione e dell'utopia nella realtà, a queste sue medievali nostalgie, a questa sua passione di rinunzia, a questi suoi religiosi deliri non lo riscatta, non muove un dito a riscattarlo, accontentandosi di ipotecarli e di sfruttarli per conto proprio, per le ambizioni, per le fortune politiche della parte o per quella personale dei suoi epigoni.

Sono convinti come noi che la proprietà individuale è contro la giustizia sociale, che dio è contro la ragione, lo stato contro la libertà, le riforme contro la rivoluzione, i socialisti; e teoricamente sono come noi contro la proprietà, la chiesa, lo stato, le riforme. Ma siccome di teorie non si campa, cercano alla pratica, alla realtà, il compromesso, la zona neutra e impossibile, in cui il vecchio ed il nuovo, il ieri e il domani, il privilegio e l'uguaglianza possano transigere se non conciliarsi; ritessendo così ogni giorno la tela dell'ordine sociale, del regime borghese, che Penelopi oblique si erano sforzate di smagliare nel raccoglimento della loro critica dottrinale, pertinace ed inesorata.

«Poiché il mondo non si cambia con la bacchetta magica della rivoluzione, che del resto gli anarchici annunziano sempre e non fanno mai, col mondo, così com'è, bisogna pur fare i conti; e poiché il proletariato ci lapiderebbe nella sua ignoranza se noi andassimo a dirgli che dio non c’è, che la proprietà è il furto, che lo Stato va demolito e la legge e il comandamento morale si possono scavalcare; noi gli diremo che esso può credere in dio a sua posta, che la religione è un affare tutto privato della coscienza individuale, che si può essere benissimo religiosi e socialisti; gli diremo che la proprietà individuale come istituto non è la scelleraggine contro cui si possa inalberare l'aeterna auctoritas del vecchio Proudhon, o le sacrileghe recidive di Duval, di Ravachol o di Pini, giacché posti nei panni dei nostri buoni padroni e governanti noi faremmo tal quale; che è un istituto condannato dal suo stesso sviluppo economico a trasformarsi fatalmente, e che per intanto noi possiamo facilitare codesto fatale epilogo, minandola nel campo economico di svariate istituzioni cooperative, nel campo politico della conquista dello Stato, il quale della proprietà individuale proclamerà legalmente la decadenza, il funerale definitivo.

Giacché lo Stato, gli diremo, è scellerato perché non rappresenta fino ad oggi che gli interessi delle classi dominanti, e di quegli interessi rimane esclusivo interprete e custode. Ma quando nei parlamenti squilleranno le voci e le aspirazioni del proletariato, la politica dei governi non sarà più politica di privilegio, ma di assistenza, di tutela di progressivo elevamento delle classi diseredate, finché non verrà il giorno in cui, dominata dal proletariato soverchiante nei comizi, alla Camera, al Senato, al Governo, non farà più che gli interessi del genere umano affrancato dal dissidio di classe che oggi lo rode e ne contende il più civile divenire». 
Agnosticismo religioso, legalismo politico, riformismo economico, sui quali non insistiamo qui se non per indurre e spiegare l'atteggiamento dei socialisti di ogni e qualsiasi gradazione nelle agitazioni proletarie in genere e negli scioperi in specie, che sono il particolare oggetto di questa modestissima rassegna.

Che cosa volete che avvenga di ogni sciopero il quale — iniziato sotto lo stimolo del bisogno da lavoratori destituiti di ogni confidenza in sé e nelle proprie forze — sia imbrigliato, condotto, governato da uomini e da criteri siffatti?

Che, quelli per ignoranza, per sfiducia, per paura non potendo, questi per opportunismo e per calcolo non volendo mettersi contro l'ordine sociale, né contro le sue cariatidi venerande, tra lavoratori e padroni s'incuneeranno alla prima ora od all'ultima, egualmente graditi all'una parte ed all'altra, i mezzani più svariati e più autorevoli: il curato, il prefetto, il deputato od il sindaco che in tutti i comizi si inchinano al diritto proletario, proclamano l'inoppugnabile legittimità delle sue rivendicazioni, ed in tutte le trattative diplomatiche, in tutti i lodi arbitrali, li offrono in olocausto alle esigenze del mercato o dell'industria, al bon plaisir di sua maestà il padrone.

Accanto a John Burns nei grandi scioperi dei dock londinesi si leva il cardinale Manning; Teodoro Roosevelt è l'arbitro del grande conflitto minerario del 1902 ; gli evolutissimi ferrovieri italiani si rimettono a Giuseppe Zanardelli, ed i sindacalisti chiedono al prefetto di Milano l'equa soluzione per cui i metallurgici in sciopero possano riprendere decorosamente il lavoro.

Non mi domando come questi scioperi siano finiti. Concedo, oltre il vero, che capeggiati e sorretti come essi erano da tante eminenze e nere e grigie e rosse, siano finiti colla completa e più strepitosa vittoria degli scioperanti.

Ricorderò soltanto il postulato in cui si acquietano tutti i dissidi sovversivi: ogni conquista di immediati miglioramenti che lasci inalterata, privilegiata, la proprietà dei mezzi di produzione e scambio, è illusoria ed effimera; e lascio la conclusione a voi.

Se di tutte le agitazioni che tendono alla conquista di vantaggi immediati — le sole che il proletariato, nelle sue attuali condizioni di sviluppo, intenda e osi  — noi non possiamo sperare altra vittoria che di una più energica affermazione di classe, che di una differenziazione sempre più definita e consapevole degli interessi antagonistici della classe privilegiata e della classe diseredata; è chiaro che non abbiamo fatto un passo innanzi dove la massa operaia continui ad illudersi che delle presunte migliorie conquistate dallo sciopero va debitrice essenzialmente ed esclusivamente ai prelati, ai ministri, ai sindaci, ai deputati, ai collegi arbitrali ed agli interventi provvidenziali; per cui non potendo credere al proprio diritto né confidare nella propria forza, è costretta a creder nella filantropia, nella carità della classe dominante, e nella tutela degli istituti e dei simboli che la rappresentano.
E se, come è ovvio, noi pensiamo concordemente che senza l'interessamento ed il concorso del proletariato nessuna rivoluzione sia possibile; altrettanto chiaro apparirà che se vi è chi disdegna le masse proletarie come incapaci od indegne di rigenerazione; se vi è chi per opportunismo o per calcolo le ribadisce, mutato nomine, sì vecchi gioghi; tanto più assiduamente e tenacemente debbono quanti credono nella rivoluzione e nel proletariato fiancheggiarne le agitazioni quotidiane, costituirne anzi l'avanguardia a spianare coll'esempio meglio assai che colla parola la via alle rivendicazioni essenziali, alle più vaste battaglie ed alle integrali conquiste del benessere e della libertà.

Che è quanto appunto ci proponevamo dimostrare: gli anarchici debbono essere l'anima e la forza di ogni e qualsiasi agitazione operaia.

Come?
 


Quando si è dimostrato che alle agitazioni proletarie ed agli scioperi in modo particolare dobbiamo dare noi ardente e vigile la nostra partecipazione, non per l'amore del prossimo che da dio e dalla chiesa ci sono comandati, ma per l'amore e la necessità della rivoluzione, della quale, senza il proletariato, né si affretta l'avvento, né se ne salutano i trionfi, né se ne custodiscono le messi; anche il modo della nostra partecipazione viene ad essere — se non prescritto, dogmatizzato per ogni particolare agitazione, che sarebbe assurdo — nelle sue grandi linee e nei suoi criteri generali almeno definito, caratterizzato.

Anzitutto, se l'azione è tanto più efficace, decisiva, rinnovatrice, dove meglio armonizza col pensiero che l'inspira, deve anzi non sia che il pensiero così denso, così turgido, così teso verso la realizzazione da tradursi in moto, in forza, in stimolo e propulsore delle energie intime e delle esteriori; e se di due forze nemiche quella trionfa che rinnovandosi diuturna, alla forza avversa non cede, ma nella tenace persistenza dell'attrito finisce per alterarla, infirmandone le resistenze, dirimendone gli ostacoli; condizione primi dell'efficacia e del successo dell'azione nostra sarà che nell'urto non si alteri, che non si attenui, né si deformi contro le resistenze ostinate che incontrerà ovunque cerchi penetrare, esercitarsi; che essa rinnovi alle fonti originali di verità e di giustizia da cui scaturisce, la propria fede, la propria forza, la propria tenacia: necessita che gli anarchici rimangano anarchici.


 
Su dalle viscere profonde e buie della montagna filtra la polla d'acqua per gli ambigui sedimenti del calcare trovando in un'avventurata cavità della roccia il primo rifugio in cui si raccoglie, si addensa, cresce fino ad attingere un livello insperato ed evadere così per una crepa fuori dei meati tenebrosi all'aperto, libera, sonante, smagliante ai baci gloriosi del sole. L'oscura tragedia che è di tutti gli esseri e di tutte le anime; che è delle fedi e degli ideali anche, scaturiti dalle obliate profondità della storia ed assunti traverso il raccoglimento della galera, traverso le congiure ed i supplizi, nei cieli della speranza, lume e guida alle incalzanti generazioni.

Ma quanta improba via, ora, ad attingere il mare lontano!

Dentati, affilati come vomeri, convulsi nelle cento braccia secolari, macigni e sterpi s'arrovellano a trattenere, a dividere, a disperdere il tenue filo d'acqua trionfandone pei gorghi oziosi, nella inutile rabbia delle spume, per poco.

Per poco: caccia esso le terse lame sue nel groppo delle contorte radici tagliando ogni giorno un tentacolo, percuote senza un attimo di tregua l'arcigno profilo della roccia, scalzandone gli spigoli abrupti, arrotondandone la faccia vasta ed angolosa, temprando più sicura ogni giorno la fede nella propria tenacia. Finché dai cieli corruscati non le viene un bel dì l'alleanza inattesa dell'uragano che lo gonfia impetuoso all'impeto estremo. Lo sterpo che, recisi ormai tutti i tendini, vacillava da gran tempo, la breccia che arrotondandosi, alla terra soda non teneva più che in qualche punto scarso e volubile, hanno dovuto cedere, raccogliersi disfatti su questa sponda e su quell'altra, levando alti gli argini che hanno raccolto la massa d'acqua urgendone la furia al piano docile, alle più vaste correnti con cui ruggendo ha ripreso il trionfale cammino al vasto immenso grembo del mare!

Ha vinto persistendo! facendo d'ogni ostacolo la disciplina e lo strumento della propria forza.


 
Per la stessa via incontreremo la vittoria noi, se il brandello di verità che abbiamo con tanti sforzi e tanta pena inalberato, ed intorno al quale vogliamo raccogliere fedi ed impeti delle classi diseredate, non piegheremo né alle loro superstizioni, né ai loro calcoli gretti, né alle loro paure cieche e devote; se, presente ogni ora e più in quelle amare del dubbio e dello sconforto, l'ideale dell'emancipazione rimarrà viatico e meta insieme, e più che l'obliquo baluardo del numero noi ci sforzeremo di cingergli intorno assensi e simpatie fervide di consapevolezza e d'audacia.

Quando per essere in molti noi dobbiamo cessare di essere qualcuno, dobbiamo cioè adagiarci all'opportunismo, agli interessi, alle esigenze ed all'ignavia dell'ambiente che ci avvolge, noi quest'ambiente non rinnoviamo più; noi ne siamo assorbiti quando abdichiamo alle eresie ed ai contrasti che ce ne differenziano; e l'ideale dell'emancipazione non fa un passo su per l'erta dell'avvenire.
 

Guardate al partito repubblicano in Italia. Forte d'uomini, d'intelligenze, di caratteri finché si accampava antitesi fiera ed inflessibile della monarchia, è un simbolo senza contenuto dal giorno in cui, su le orme di Agostino Bertani, si è affannato alla ricerca della pietra filosofale, inseguendo nei compromessi parlamentari la democratizzazione di un istituto che è, per definizione, l'esponente del privilegio nelle sue forme più medievali ed irrazionali; e gli ultimi superstiti della schiera gloriosa non hanno oggi che un'ambizione ed un orgoglio: essere, nella clientela dei cortigiani e degli stallieri, primi au lever du roi e della regina. Li ha monarchizzati senza sforzo la dinastia che essi — quasi fosse altro procedimento da quello esperito nel 1793 dalla Convenzione — si erano proposti democratizzare.
Guardate al movimento socialità, ovunque.

È nato sotto gli auspici migliori, reazione legittima e necessaria alla democrazia classica, negandole che «si dovesse passare per le trasformazioni politiche ad attingere la liberazione economica». E trovò consensi unanimi, formidabili, nel proletariato d'ogni terra che convitava alla lotta di classe, alla guerra sociale; fino al giorno in cui si dispose non alla rivendicazione economica, socialista e necessariamente rivoluzionaria, dei mezzi di produzione e di scambio, ma alla conquista tutta politica ed essenzialmente democratica dei pubblici poteri. Ritessé da quel giorno nei vari parlamenti l'ordito di quella collaborazione di classe che del principio e dell'azione democratica era l'espressione caratteristica, a mortificazione dei criteri e della lotta di classe che della dottrina e dell'azione socialista erano la sola giustificazione.

Ed i suoi epigoni li avete visti di questi ultimi giorni ai funebri dell'Internazionale ripudiata per la patria, ai funebri della solidarietà e della fratellanza proletaria sacrificata ai privilegi ed alle fortune della reggia e della banca egualmente nazionali, in Francia ed in Germania, nel Belgio come in Italia. Partiti alla conquista dei pubblici poteri sono oggi del potere i conquistati, i prigionieri, ed i bulli più facinorosi.

Badate che nulla di meglio è avvenuto né avviene degli anarchici i quali, dopo tanta critica autoritaria e rivoluzionaria, siano tornati ad un compromesso qualsiasi di tutela anche meglio intenzionata, o di immediate conquiste superstiziose anche dove sono abbaglianti come la giornata di otto ore; ed impazienti, frettolosi di veder subito qualche cosa, di essere pratici, come essi dicono con un eufemismo, nelle organizzazioni operaie si sono tuffati non perché siano queste il campo meglio propizio e più vasto alla propaganda ed all'agitazione rivoluzionarie; ma per conquistarle, disciplinarle, stringerle nel pugno docile e terribile strumento d'ogni più temeraria rivendicazione. 
In che stato ci ritornano!

A fare breccia nelle unioni e nei sindacati, necessariamente conservatori, ad accaparrarsene la fiducia ed il credito come già quegli altri nel parlamento borghese hanno dovuto mettere la sordina alle eresie scandalose, chiudersi nell'agnosticismo, nel neutralismo evirato ed eviratore, equilibrarsi tra il funambolismo opportunista e le sapienti restrizioni mentali, spennando all'utopia sbarazzina le ali, ripudiando nelle contraddizioni riformiste ed autoritarie quotidiane la rivoluzione sacrilega, per finire un giorno, dopo mesi e mesi di purgazione, di contrizione, di Tebaide — un bel giorno di lotta od un brutto giorno di crisi — col dovere essi stessi afferrare il timone dell'organizzazione, sposarne i programmi e le gerarchie incoerenti, in mezzo a noi ritornando irosi, intolleranti, a preconizzare il sindacalismo e l'unionismo dopo di essere partiti a recare in terra d'infedeli, nei sindacati e nelle unioni, il verbo dell'anarchia, l'evangelo della rivoluzione sociale.

I compagni sanno che — a prescindere dai voltagabbana famelici ed accattoni che barattano ad ogni trivio ed a chi meglio paghi l'ideale e la coscienza, e non pesano di conseguenza né pro né contro — si potrebbe aggiungere qui la desolata litania dei compagni intelligenti, sinceri e fervidi, di qualche grande organizzazione anche, i quali non sono altrimenti finiti, o sono finiti peggio acclamando alla guerra, costituendosi per le sue fortune lanzichenecchi miserabili della borsa e del governo.
 
Ora, lasciatemelo dire, sono aberrazioni idiote!
Se tra il movimento libertario ed il movimento proletario fosse antagonismo fondamentale di interessi, e necessariamente di aspirazioni, irriducibile, ogni cooperazione sarebbe assurda, e la disperazione che sobilla e determina le lamentate deviazioni scusabile, spiegabilissima.

Che così non spiega la disperazione?

Ma se per una parte è vero che noi siamo atei ed il proletariato è nella sua grande maggioranza religioso; che noi siamo per la distruzione della proprietà individuale ed il proletariato ne ha la devozione e l'anelito; che noi siamo contro il governo ed il proletariato senza governo non crede possibile né società né ordine; che noi crediamo leggi, codici, magistrature la frode più atroce del privilegio, ed il proletariato, nella sua grande maggioranza nessuno di questi feticci orrendi affaccia senza sberrettarsi, genuflettersi, adorarli come i più puri simboli della giustizia; è vero pure che se ai lavoratori d'ogni patria voi domandate se li morda la febbre del vivere, del vivere piena, intera, fervida, benedetta dall'abbondanza, dalla libertà, dalla sicurezza, dalla gioia, la loro vita, vi sorprendete nei loro sguardi di questo Eden radioso il rimpianto nostalgico se, come la tradizione pretende, esso sia stato negli evi lontani la nostalgica voluttà; se, come affidano esperienza e diritto, sarà gloria del domani remoto.

Ho frugato più dentro. Nell'animo dei vinti ho proiettato alle volte i sanguigni riflessi d'una corrusca aurora di riscatto, in cui il conto delle vecchie ingiustizie e della secolare oppressione sarebbe ad usura saldato; in cui del proprio diritto consapevoli, armati della loro irresistibile forza, i lavoratori, oggi divisi ed imbelli, riprenderanno il pieno e collettivo possesso dei campi, delle miniere, delle fabbriche, delle ferrovie, delle darsene, espropriandone violentemente i ladri che se ne sono colla frode e colla rapina accaparrato il monopolio. Non ho trovato mai un operaio che a tale proposito di violenza insorgesse, uno mai che all'immoralità del fine e del processo si ribellasse. Tentennano il capo i più dubitando che quell'aurora abbia a sorgere, possa quella solidarietà minacciosa attingersi mai.

Ed è della cronaca di tutte le grandi convulsioni plebee, a Parigi e a Roma, a Pietroburgo, a Vienna, a Lisbona: i cenciosi devotissimi della proprietà e dello Stato passano sui cosacchi e sui corazzieri, sui comandamenti di dio e sulle sanzioni dei codici, come l'uragano; sfondano banche e botteghe, saccheggiano macelli e forni, avventano l'artiglio su la roba degli altri che nessun di essi avrebbe il giorno innanzi toccato senza scandalo né custodito senza rimorso.

Ne volete di più? A Parigi, durante le giornate del Febbraio 1848 come a Barcellona durante gli scioperi generali del Luglio 1909, sono chiese e conventi, frati e monache, gli abati di Saint-Germain l'Auxerrois, i Padri Esculapi a scontar le prime furie dell'insurrezione, a vedersi bruciata la tana dalla marmaglia in cui duemila anni d'educazione cattolica e di devozione consuetudinaria non ha spento il senso istintivo di conservazione della specie e di vendetta di classe che la indemonia, al primo urto, contro gli artefici della propria servitù ed abiezione.

Per cui si può in tutta certezza conchiudere che il proletariato non ripudia l'ideale di una superiore convivenza civile in cui goda del benessere e della libertà; che il proletariato non ripudia la rivoluzione come estremo mezzo a raggiungerla; che tutto al più non sente il coraggio di questa né la fede in quella; e che a dargli l'uno e l'altra, se è difficile non è impossibile, ed è il compito nostro particolare ed urgente.

Quelli che al primo ostacolo si disperano, si adagiano, si ripiegano su di se stessi, tornano a ritroso del cammino percorso affogandosi nel compromesso, mostrano soltanto di non avere né convinzione né energia.
 
 
[Cronaca Sovversiva, anno XIV,
n. 10 del 4/3, n. 11 del 11/3, n. 13 del 25/3/1916]