Brulotti

L'equilibrista

Jean Bloch-Michel
L'uomo di sinistra si tiene su una corda tesa. La situazione dura da anni e si potrebbe pensare che egli ci sia abituato; ma non è così. Il suo equilibrio precario era dovuto alla sua duplice condanna dello sfruttamento comunista e di quello capitalista. Era una specie di bilanciere: i campi di concentramento sovietici da un lato, l'oppressione coloniale dall'altro; la schiavitù dei lavoratori nella Russia sovietica, la miseria degli operai nell'Occidente, torture, oppressioni poliziesche e repressioni ripartite pressoché egualmente fra i due sistemi, bastavano a giustificare un duplice rifiuto.
A dire la verità, questa situazione non aveva nulla di comodo. Sul piano dell'azione equivaleva a una battaglia combattuta con le spalle scoperte. Sarebbe stato strategicamente più logico, e tatticamente più vantaggioso, lottare contro l'oppressione capitalistica con l'armata rossa alle spalle, o contro il comunismo con l'appoggio della free enterprise. L'unico conforto su cui l'uomo di sinistra poteva contare era d'ordine intellettuale e morale. Egli era sì isolato, ma non aveva rinunciato a nessuno dei suoi princìpi, preferendo una battaglia forse senza speranza a concessioni fruttuose che avrebbero tolto ogni senso alla sua azione. Sul piano ideologico si sentiva talvolta in una posizione un po' ridicola e difficile da sostenere, scevra com'era da ogni modestia, falsa o vera. Assomigliava a quella signora francese che un giorno aveva detto a Benjamin Franklin: «È strano, ma trovo che io sia la sola persona che ha sempre ragione». In realtà, però, anche questa consolazione gli era negata, giacché era profondamente convinto che, specie in politica, non vi siano verità assolute.
Ma almeno si trovava di fronte a problemi ben definiti, etichettati, verso i quali aveva avuto agio di definire la sua posizione. In particolare, vi erano i due estremi: il comunismo e l'anticomunismo, il colonialismo e l'anticolonialismo; egli era anticomunista e anticolonialista. In queste posizioni ben ferme i princìpi rimanevano inalterati.
Ora, da qualche tempo questi stessi problemi — o per lo meno i problemi indicati da questi nomi — stanno subendo tali cambiamenti da costringere l'uomo di sinistra a sentirsi ancora più a disagio di prima. Sia per natura che per ragionamento egli dovrebbe essere ottimista: essere di sinistra significa anzitutto credere che il mondo possa migliorare. Ma oggi egli arriva a domandarsi se non vi siano invece problemi insolubili: insolubili almeno per un uomo di sinistra, poiché le due destre — quella vera e quella comunista — li risolvono per le spicce. Si tratta, naturalmente, soltanto di quel tipo di uomo di sinistra dalla mente onesta e lucida, il quale non ritiene che il suo atteggiamento di ieri debba necessariamente determinare il suo atteggiamento di oggi.
L'anticolonialismo, per esempio, rispondeva a tutte le aspirazioni intellettuali e morali della sinistra, la quale non poteva non accogliere la ribellione dei popoli coloniali come un evento auspicato e felice. Allo stesso modo, l'anticomunismo poggiava — a sinistra — sulla condanna di un regime solidamente basata sull'oppressione, sul disprezzo dell'uomo e sull'abbrutimento. Le prime misure di liberalizzazione che nell'Urss seguirono alla morte di Stalin avrebbero quindi dovuto apparire come promesse di cambiamenti ancora più importanti ed essere accolte con gioia.
Ma ecco che, da una parte, la rivolta dei popoli oppressi assume l'aspetto, la forma e i mezzi dell'imperialismo. I colonialisti trionfano: l'avevano previsto, avevano sempre detto che con «quella gente» ci voleva la forza, si trattava solo di sapere chi sarebbe stato il più forte. D'altra parte, i comunisti trionfano con altrettanto clamore. Affermano di aver fatto bene ad aver torto: bisognava far credito a un regime che sbagliava quando sbagliava; gli avvenimenti attuali non fanno che giustificare la loro umile disposizione alla disciplina cieca; sono ancora più comunisti di ieri, sebbene per ragioni in apparenza opposte.
È facile immaginare in quale situazione si trovi il nostro funambolo, sempre in bilico sulla corda ma ormai privo del suo bilanciere. Si domanda da quale parte finirà col cadere e se non sia venuto per lui il momento di scegliere: sarà a sinistra, fra coloro che giustificavano l'oppressione e che, attenuata questa, mantengono indisturbati la stessa fede? O sarà a destra, fra chi — partigiano da sempre della forza — combatte a cuor leggero e con la coscienza tranquilla l'imperialismo dei popoli colonizzatori?
L'uomo di sinistra continua a essere anticolonialista. Per tutta la vita egli ha detestato dal profondo del cuore coloro che sfruttavano i poveri algerini. Però, quando gli arabi massacrano i francesi non può fare a meno di essere dalla parte dei massacrati; se invece accade che le nostre truppe procedono a quello che si suol chiamare un «rastrellamento», eccolo cambiar campo nuovamente e ritrovarsi con gli arabi. «La giustizia — scrive Simone Weil — questa fuggiasca dal campo del vincitore...». Occorre che fugga prima ancora che vi sia una vittoria, e che abbandoni contemporaneamente tutti e due i campi? Ed ecco che l'uomo di sinistra si trova costretto a condannare insieme i colonialisti e i colonizzati, e per le stesse ragioni.
La situazione nel campo comunista non è molto più chiara, dal punto di vista dell'uomo di sinistra. Egli accoglie con sollievo la promessa che i campi di concentramento saranno aboliti, ed i processi condotti secondo le regole; il fatto che Lisenko venga messo discretamente a riposo gli sembra una vittoria del buon senso e un ritorno alla ragione. Ma il nostro uomo è prudente, e non si lascia convincere del tutto: ciò che succedeva ieri potrebbe succedere di nuovo domani. Prima di disarmare completamente, vuole vederci chiaro. Ma la distanza che lo separava dagli anticomunisti di destra aumenta, giacché il loro odio del comunismo cresce in proporzione diretta del timore che hanno di vederlo tornare alle sue origini. Nel comunismo non è l'ingiustizia che essi odiano, bensì la concorrenza, e ciò che più temono è che un giorno i comunisti possano dirsi giusti ed essere giudicati tali.
«Aggrappatevi al dogma, cedete sulla morale» diceva un gesuita ai suoi penitenti. L'uomo di sinistra ripone la sua salvezza nell'inverso. In materia di dogmi — suoi o altrui — deve essere pronto a cedere, ma la sua morale deve rimanere ferma; è il suo ultimo appiglio. Non si ha il diritto di massacrare donne e bambini: una libertà ottenuta a costo di simili delitti non può che preludere a nuove schiavitù. Indubbiamente gli schiavi cambierebbero colore, razza, origine, forse sarebbero reclutati tra i negrieri del passato; ma questo non ha importanza. le colpe peggiori non possono essere punite in tal modo, perché simili punizioni finiscono col corrompere anche chi le infligge.
Quanto a coloro che ieri erano nel torto, l'uomo di sinistra è disposto ad ammettere la loro buona fede, purché ritornino alla ragione. Vorrebbe che vi tornassero con un po' di pudore. Non esige autocritiche, giacché non è mai stato fautore delle confessioni pubbliche, per quanto sincere. Non è dato a tutti accusare se stessi con dignità. No: egli ritiene che la politica sia, in certo qual modo, l'amministrazione di una verità da parte di un partito. Tale essendo il caso, sarebbe opportuno cambiar di gerenti. Giacché sono sempre gli stessi a tener bottega: solo, oggi riconoscono di aver venduto per trent'anni merce avariata. Non è una buona garanzia per i prodotti che ci offriranno domani.
 
[Tempo Presente, anno I, n. 3, giugno 1956]