Brulotti

Puzza di marcio

 
C’è qualcosa di marcio nel regno della Democrazia. Un odore fetido, penetrante, si spande nei corridoi della prigione a cielo aperto che è diventata la società sotto il regno dello Stato e del capitalismo. Il velo cade. Dopo decenni di tolleranza repressiva, di un discorso che predica l’inclusione dei dannati della terra all’interno della società dei consumi, di rispetto dei diritti dell’uomo, ci ritroviamo oggi a vivere sul territorio di uno Stato che ha nuovamente dispiegato i militari nelle sue strade, che riprende a bombardare popolazioni altrove, che è quanto meno corresponsabile dell’ecatombe di sventurati che crepano durante i viaggi della disperazione attraverso il Mediterraneo, che legalizza un nuovo totalitarismo per controllare la sua popolazione col pretesto della «minaccia». Questa minaccia è malleabile in funzione degli interessi del dominio: ieri era la minaccia dei rivoluzionari che volevano distruggere la società delle merci, oggi sono gli jihadisti, che rispondono ai massacri perpetrati nel mondo intero dagli Stati con altri massacri, domani sarà la catastrofe ecologica, nascondendo che le sue origini si trovano nel modello stesso della società industriale attuale con la sua produzione di nocività, di tossicità, di cancro.
Ma il naso dei nostri contemporanei è stato ben tappato affinché non possano più sentire che c’è qualcosa di marcio. La loro capacità di parlarsi, di riflettere autonomamente, è stata gravemente compromessa dalla propaganda del migliore dei mondi e dall’onnipresenza di apparecchi tecnologici, dotati di propri valori, interposti come passaggi obbligati fra individui. Le idee critiche sono quasi scomparse dalla scena, restano solo i discorsi vuoti degli Stati, si chiamino essi democratici o islamici, repubblicani o nazionalisti. Il totalitarismo è implicito nel discorso politico o religioso, ma la realtà viene già resa ogni giorno più totalitaria con l’avanzata delle tecnologie, che sottomettono il mondo, i rapporti fra le persone, le sensibilità, l’immaginario, i sogni, alle macchine e agli algoritmi. Laggiù si demolisce un sito archeologico millenario per rendere lo spazio compatibile con l’ideologia; altrove si demoliscono montagne per costruire miniere di rame, di oro e di cobalto al fine di accrescere la produzione di oggetti tanto nocivi quanto dannosi. Laggiù si mutila e si massacra affinché l’Altro non esista più; altrove si massacra perché nient’Altro possa esistere accanto al capitalismo. Laggiù gli abiti venduti qui nei negozi vengono prodotti da milioni di schiavi; qui si rinchiudono sempre più indesiderabili in prigioni, in campi di ogni genere, oppure li si tiene sotto controllo tramite le catene tecnologiche.
D’altronde, non è «l’informazione» che manca. I fatti sono sotto gli occhi di ciascuna e ciascuno. A difettare è la capacità di comprensione. È una situazione paradossale: più veniamo bombardati di informazioni, meno ci capiamo qualcosa — nel senso in cui comprendere è una delle anticamere dell’azione. Politici corrotti che si arricchiscono con fondi destinati ai senza-tetto, poliziotti che fanno regnare la legge del manganello e del pestaggio in cella, dirigenti di banche che le lasciano con paracaduti dorati dopo aver distrutto la vita di chi aveva comprato una casa ipotecata, imprenditori che se ne fregano sovranamente di avvelenare il mondo intero con le loro produzioni, capi sindacalisti che preferiscono — è quella la loro vera funzione — amabili cene coi padroni al vociare dei rivoltosi per le strade… l’elenco è lungo. Ma il problema è che per essere realmente indignati, bisogna possedere già una dignità — ovvero un carattere proprio, con qualche convinzione che non sia mercanteggiabile o adattabile in funzione del contesto e dell’interesse. È questa dignità umana, o coscienza se si vuole, ad aver subito attacchi feroci da parte del dominio, accostandoci sempre di più alla sorte di semplici ingranaggi. Siamo come detenuti in una prigione a cielo aperto che non sanno più nemmeno distinguere il filo spinato che trattiene il loro corpo, fra mura che impediscono di vedere l’orizzonte e guardiani che li controllano. E così, quando questa prigione deve essere ristrutturata per diventare più redditizia, come avviene oggi con l’economia capitalista mondiale, c'è chi si adopera in ogni modo per far balenare ai prigionieri false opposizioni, impedendo efficacemente l’ammutinamento generale che potrebbe radere al suolo la prigione stessa. È esattamente ciò che è successo, su vasta scala, in Siria. Minacciato da un sollevamento generale e popolare, il regime (in accordo con i suoi alleati e tutti gli altri Stati) ha preferito favorire l’emergere di un nemico abietto; un ruolo che ha ben svolto lo Stato Islamico. Allo stesso modo, le democrazie occidentali preferiscono di gran lunga un pugno di jihadisti che ripetono alla rinfusa quattro sure su youtube piuttosto che un movimento di rivoltosi che si appropriano della facoltà di pensare da sé, liberamente, fuori dall’ombra di una qualsiasi chiesa religiosa, politica o tecnologica. Questa situazione genera una confusione incredibile che non farà che favorire l’avanzata del totalitarismo. La degenerazione di una lotta contro lo Stato in lotta tra clan etnici come in Libia, le guerriglie anti-imperialiste che accettano il sostegno degli Stati Uniti come nei territori a maggioranza curda nel nord della Siria, i movimenti di collera contro questo o quel progetto dello Stato che si richiamano a quella «democrazia» che hanno comunque davanti agli occhi, gli oppositori all’ingiustizia che invocano più tecnologie per «liberarci»… È su questo guazzabuglio di tutto e di qualsiasi cosa, della menzogna abbigliata di verità, dell’abbandono di ogni idea veramente critica, che fiorisce il totalitarismo, ovvero il culto del potere.
E l’odore fetido proviene da là. C’è decisamente qualcosa di marcio in questo mondo: è il potere, in tutte le sue forme.
 
 
[Fawda, n. 1, Bruxelles, estate 2017]