Brulotti

Delle capacità rivoluzionarie

Free-lancer [Luigi Galleani]
 

Una volta, quando un anarchico parlava di sciopero generale, soleva aggiungere anche l'aggettivo rivoluzionario o insurrezionale.

Ora non più.

Ora invece c'è fra gli anarchici chi si sforza a far risaltare che lo sciopero generale per avere un risultato pratico (è la parola preferita) deve essere immune da velleità rivoluzionarie.

Una volta la "barricata" era il simbolo e il segno della lotta anarchica, era il nostro grido di guerra, il nome augurale dei nostri fogli di propaganda e di battaglia, il sogno delle nostre anime rosse.

Ora non più.

Ora c'è fra gli anarchici chi mette in ridicolo la barricata, come una pazzia d'altri tempi; c'è chi nega alla lotta armata aperta piazzaiola, ogni e qualsiasi valore.

Una volta si diceva alle classi dominanti: voi squillerete le vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane. Ai vostri cannoni, noi opporremo la nostra dinamite.

Oggi non più.

Oggi si esagera la potenzialità delle armi guerresche, per concludere che alla lotta petto a petto col nemico è inutile pensarci più.

Per essere più spicci: una volta si esaltava l'insurrezionismo e tutti s'era d'accordo nel ritenere che soltanto l'urto violento fra le folle armate e i giannizzeri dell'ordine poteva aprire il varco alla libertà ed al benessere. Ora invece si cerca da alcuni di sviar la mentalità anarchica da quella concezione, e si rivestono a nuovo i vecchi e stantii argomenti del socialismo... scientifico; per dimostrare l'inanità dell'atto violento.

Il diavolo s'è fatto frate.

È il vecchio problema delle capacità rivoluzionarie che si riaffaccia più impellente che mai.

Si dice anzitutto: la folla è apatica, codarda, o per lo meno incosciente. Non ci seguirebbe nell'attacco contro le nuove bastiglie borghesi. È quanto dire: la folla è incapace di fare la rivoluzione.

L'angolo visuale, il caposaldo del programma anarchico — se così volete chiamarlo — è la necessità assoluta della rivoluzione sociale. Dente per dente noi diciamo. Sbarra contro sbarra. Alla violenza statale, risponda la violenza plebea.

Una volta ammessa la necessità della rivoluzione, bisogna vedere se c'è nelle masse la capacità a compierla. E se non ci fosse bisognerebbe crearla.
Chi giunge a negare che questa capacità ci sia, che sia possibile crearla, che quando vi fosse sarebbe presso che inutile in quanto che rimarrebbe sterile ed impotente dinanzi alle straboccanti forze nemiche; non può fare a meno di concludere che non c'è via di scampo fuori della riforma.

E in verità, riformisti della più bell'acqua posson chiamarsi coloro fra gli anarchici, i quali rimpiccioliscono e snaturano l'anarchismo negando la possibilità dell'insurrezione armata.

Fra questi ce n'è di quelli che per avvalorare la loro tesi, giungono a sentenziare che i governanti per meglio soffocare le insurrezioni fanno costruire le vie più larghe che sia possibile.

C'è chi crede che le sommosse piazzaiole, le guerriglie, le «jacqueries» non facciano né caldo, né freddo al governo.
 Basterebbe un plotone di fanteria per sedarle...

È strano che gli anarchici italo-americani che la pensano in quel modo, sostenevano e sostengono che una banda di rivoluzionari armati di rivoltelle ammazzacani, potevano impadronirsi del
 Messico, quant'è largo e lungo, e instaurarvi il comunismo.

Quali che siano i moventi e il fine delle guerriglie messicane, una cosa esse dimostrano: che non è così facile come a prima vista si pensa disperdere e sopprimere delle bande armate, quando non sian poche, e mettano in fiamme tutto un paese.

Si dirà che il Messico ha una topografia speciale. Ma l'America non è tutta in New York, né la Francia in Parigi, né l'Italia in Milano.

Chiunque sia passato in un campo minerario e abbia girato gli occhi intorno, ha potuto constatare che un centinaio di minatori armati, appostati negli anfratti delle colline, costringerebbero alla fuga un reggimento di soldati.

C'è chi dice: la massa non comprende l'atto audace dei generosi che si lanciano primi nella mischia. Rimarrebbe indifferente. La massa, rispondiamo noi, si muove sotto gli impulsi dei bisogni e delle emozioni del momento.

Carlo Pisacane e i suoi compagni furono trucidati dai contadini che avevan chiamati alla rivolta contro la tirannide borbonica. Ma qualche anno dopo, Garibaldi e i suoi mille, sbarcando a Marsala furono acclamati e seguiti dal popolo, e poterono compiere quello che era follia sperare.

Altri dicono: gli insorti non sarebbero capaci di tener fronte alla orde poliziesche. Ebbene io, sia detto fra parentesi, non ho il più pallido entusiasmo per la guerra regia, ma sono abbastanza sincero da riconoscere che la guerra, fra tanti mali, avrà recato questo po' di bene: i superstiti alla strage torneranno ai focolari e all'officina meno torpidi, più audaci, sprezzanti del pericolo.

È stato detto ed a ragione, che colui il quale ha per milioni di volte sfidato la morte durante due... o tre anni di vita di trincea, non scapperà più davanti al randello del poliziotto o alla lancia del cosacco. Egli saprà fabbricare bombe e granate a mano, e saprà farne uso.

C'è di più: dopo tre anni di guerra, il novantanove per cento dei soldati, saranno convinti antimilitaristi. E se è vero che anche oggi si ribellano e si ammutinano di fronte al nemico d'oltre frontiera, è lecito supporre che quegli ammutinamenti e quelle ribellioni si ripeteranno quando si comanderà loro di sparare contro i fratelli, i figli e le madri.

E poi in fin dei conti la rivoluzione non è la guerra su un unico fronte o intorno ad una fortezza. 
È tutto un popolo che insorge, è tutta una nazione che va in fiamme.
 Quei che considerano l'insurrezione come una bagologia giacobina, ripongono tutte le loro speranze nello sciopero generale, e dal modo che parlano lasciano supporre che lo sciopero generale basta a se stesso.

È auto-sufficiente ha detto qualcuno. Noi, — lo abbiamo detto altra volta — senza togliere allo sciopero generale il suo valore, pensiamo che di per se stesso e da solo, non basta a scardinare il regime attuale e che il proletariato dovrà sempre ricorrere all'insurrezione per liberarsi sia dall'oppressione statale, sia dallo sfruttamento economico. Lo sciopero generale non deve essere un sostituto della insurrezione: ecco tutto.

Qualcuno, commentando il recente sciopero generale in Spagna, dice che ogni volta che gli operai minacciano uno sciopero generale la paura s'impossessa della borghesia, (chi lo nega?) e soggiunge che ricorre alle misure estreme: alla legge marziale con le uccisioni per le strade, ai consigli di guerra, alle fucilazioni, per rompere lo sciopero ed assassinare gli scioperanti.

Chiunque non sia abbarbagliato da preconcetti, concluderà che se il governo ricorre alle misure estreme contro gli scioperanti, questi a loro volta, se vorranno preservare la vita e raggiungere 
la vittoria, dovranno ricorrere agli estremi rimedi. Lo sciopero generale, in altre parole, deve essere simultaneo all'insurrezione. Contro la violenza, la violenza: è legge di suprema salute.

La nostra salute, dicono gli altri, è in seno alle organizzazioni operaie.

E da un certo punto di vista non han tutti i torti, perché non son pochi quelli che, una volta oscuri lavoratori, dal seno delle organizzazioni hanno succhiato tanto latte da far della loro pancia una capanna. 
La nostra salute, quella degli anarchici essi insistono, è nelle organizzazioni operaie che riescono a produrre movimenti tali da far traballare il regime capitalista governativo.
 Si tratta quindi di domandarsi se nella sola questione economica risieda la forza rivoluzionaria che dovrà cambiare gli attuali ordinamenti sociali.

E ciò potrà essere argomento di un prossimo articolo.
 
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Ci siamo domandati nello scorso numero, se — come opinano taluni — nella sola questione economica sta la forza rivoluzionaria capace a travolgere le istituzioni sociali imperanti oggidì.

Noi, pur non negando al fattore economico la sua parte, crediamo di poter affermare che i movimenti ed i rivolgimenti sociali non sono determinati soltanto dai bisogni economici, ma da motivi di ordine politico, morale e sociale, e anche da ragioni di dignità nazionale.

Ad avvalorare questa tesi s'è spesse volte citato il caso della Comune di Parigi, e s'è detto — e certo non a torto — che il popolo parigino insorse forse più di tutto, perché punto dal sentimento patriottico mortificato ed offeso.

Ed anche nelle rivolte del 98 in Italia c'era un po' di sdegno e di rabbia contro disinganni e i tradimenti del re, della camarilla di corte, e dei generali da vedova allegra.

Del resto anche fra il prossimo sovversivo c'è chi s'augura una disfatta delle armi italiane, perché spingerebbe alla rivolta il popolo disilluso e contrito per immane sacrificio di sangue e di ricchezze, inutilmente compiuto.

E l'unica ragione che induceva Malatesta ad augurarsi la débacle dell'impero teutonico, era la speranza che i sudditi di Guglielmaccio, in tal caso, morsi dal più atroce dei disinganni, avrebbero gridato al traditore e rivoltate le armi contro coloro che li hanno trascinati alla guerra.

Ci torna sempre a mente la frase di Guglielmo Ferrero: «I destini futuri delle nazioni europee dipenderanno dall'impressione che la guerra lascerà sull'animo del popolo».

Il fragore della guerra ha infatti svegliato dal loro lungo letargo le popolazioni più apatiche e ha fatto nascere in loro un pungente interessamento per le questioni ed i problemi della vita nazionale, ed internazionale anche.

Sicché non è azzardato supporre che, per via della grande esaltazione dello spirito nazionale operatasi prima e durante la guerra europea, il problema maggiore e più pressante del dopo-guerra — che potrà acuire la lotta di classe e spingerla verso la sua fase risolutiva — non sarà una pura e semplice questione di aumenti di salari e di diminuzione di ore di lavoro.

Ecco perché noi non crediamo che la salute degli anarchici e dei rivoluzionari sia solo e soltanto nelle organizzazioni economiche, le quali per loro natura rimpiccioliscono la questione sociale ad una gretta questione di stomaco.

Né tampoco siamo portati a credere che soltanto le organizzazioni economiche siano capaci di provocare dei grandiosi movimenti che facciano traballare le colonne della società borghese.

Se il movimento operaio dovesse improntarsi ed informarsi ad una tale credenza — e per molti è una vera e propria superstizione, addirittura un dogma — sarebbe davvero un grande malanno per le sue future sorti. Perché ci condurrebbe ad escludere a priori l'imprevisto od il fortuito storico, che pure hanno tanta parte nello sviluppo delle nazioni e dei popoli, in quanto che precipitano le latenti crisi sociali.

Per le organizzazioni europee la guerra è stata un «imprevisto». Ed è principalmente perciò che sono andate a rifascio; dimostrandoci quanto avessero malcontato sulle loro «forze numeriche», sull'«educazione sindacale» e sulla «coscienza di classe» degli organizzati, nonché sulla onestà politica e la fede... incrollabile dei pastori.

Dal solco della guerra spunteranno nuovi, molteplici ed urgenti problemi, che le organizzazioni politiche ed economiche, ormai sbaragliate, demoralizzate, sfiduciate, non potranno e non sapranno risolvere. E le risolverà la folla anonima, punta dal disinganno e spinta dalla disperazione, opponendo ad estremi mali, estremi rimedi.
 

Ma v'è di più. C'è ancora da vedere se la questione dei miglioramenti economici, che informa l'attività delle organizzazioni, non possa essere sfruttata dalle classi dominanti; se cioè, per la preservazione del loro privilegio, non possano accondiscendere alle proposte di sedicenti riforme sociali, ed in tal modo acquietare gli animi e addormentare lo spirito di rivolta.

Scriveva Bovio nel 1883, nella prefazione alla terza edizione ad Uomini e tempi, e sembran parole scritte di questi giorni, da un osservatore profondo della convulsa ora storica che volge al tramonto: «Avviene sempre così, le reazioni si appiattano dietro il cartello delle riforme sociali e lì immolano la libertà e l'onore delle nazioni alla idea Fame.

Ma è vero poi che le nazioni fecero conto più del pane, che dell'indipendenza, della libertà e dell'onore? Niente costano alle nazioni i titoli della loro dignità? Innanzi a questi problemi si scopre più tardi il socialismo della reazione». 
Già sin d'ora la borghesia comincia a mettere, come suol dirsi, le mani innanzi per non cascare.

Per bocca di Asquith il governo inglese ci fa sapere che sta studiando alcune riforme «per una più equa distribuzione dei frutti dell'industria fra le varie classi della popolazione».

In occasione del minacciato sciopero generale dei ferrovieri in America, ne abbiam visto e sentite delle belle. Abbiamo letto nei giornali conservatori la proposta della statizzazione delle ferrovie. Abbiamo sentito Wilson dichiararsi entusiasticamente favorevole alle 8 ore di lavoro.

La tattica ambigua ed ipocrita dei lodi arbitrali di Wilson, il Giolittismo, e la «politica dei compensi» in Italia, il sindacalismo cattolico, e il neo-sindacalismo nazionalista in Europa, fanno davvero dubitare molto che la forza e la capacità rivoluzionaria trovino asilo nel seno delle organizzazioni economiche.

I più ardenti sostenitori della quadruplice intesa e perciò i nemici più acerrimi dell'impero teutonico, riconoscono che, malgrado tutto, qualcosa han dovuto imparare dalla Germania, e servirà loro d'ammaestramento pel futuro. Essi han riconosciuto cioè che quell'attaccamento rigido e quella fede cieca delle classi lavoratrici di Germania verso i loro governanti ed i loro padroni, ne veniva dalle molte riforme ad esse concesse, e dal miglior trattamento ch'esse godono, in paragone degli altri paesi dove l'industrialismo è più o meno sviluppato.

La vasta legislazione sociale dell'impero era informata appunto allo storico motto di Bismarck: «Lo Stato più forte è quello che dà di più».

I giornali più conservatori lardellano i loro articoli di propaganda bellica con frasi come queste: «La guerra ha messo in valore le grandi energie e la generosa abnegazione delle classi lavoratrici, che nessuno dovrà più mai disconoscere».

«Primo e più urgente compito del governo, all'indomani della guerra, sarà quello di riparare all'incuranza con cui ha trattato pel passato gli interessi più vitali del proletariato, con una più vasta e più equa legislazione sociale».

In una parola l'attuale momento politico in Europa è caratterizzato da un maggiore interessamento delle classi dirigenti per i problemi operai, e tutto fa prevedere che i governi, in nome e per conto dei capitalisti, non disdegneranno di scendere a patti con le organizzazioni operaie, sospingendo il movimento di classe nei tortuosi viottoli della riforma e della collaborazione.

Concludo: l'aggruppamento corporativo anche quando fosse una necessità per raggiungere qualche miglioramento immediato, (che in ultima analisi si risolve in un bel nulla) non sarà mai uno strumento di rivoluzione sociale, poiché per sua stessa natura e pel modo con cui è costretto a svolgere la sua azione, ammansisce anziché irrobustire le capacità rivoluzionarie della massa.
 
[Cronaca Sovversiva, anno XIV, n. 34 e 35, 19 e 26 agosto 1916]