Brulotti

Sole nero

«Voglio che le poesie di François Villon, Charles Baudelaire, Edgar Poe e Gérard de Nerval diventino vere, e che la vita esca fuori dai libri, dalle riviste, dai teatri o dalle messe che la trattengono e la crocifiggono...».
(A. Artaud, lettera da Rodez del 6 ottobre 1945)
 
Ci sono individui la cui impossibilità di essere normali, di adeguarsi alle norme sociali che regolano la vita comune, è più forte di ogni dolore, di ogni terrore, di ogni minaccia. In essi il desiderio di arrivare fino in fondo alle proprie possibilità, tensione che comporta il rifiuto di tutto ciò che è già dato giacché tutto si vuole creare da sé, è talmente bruciante da renderli pronti a sfidare la ragionevolezza. Lo spettro della fame, del freddo, della pubblica riprovazione, delle percosse e di qualsiasi altra punizione con cui la società difende la propria immonda rispettabilità, financo la morte, non ha presa su di loro che continuano, testardi, a cercare di possedere se stessi, laddove gli altri si accontentano di avere un buon conto in banca. «Non sarà la paura della pazzia a farci lasciare a mezz’asta la bandiera dell’immaginazione», scriveva André Breton in un’epoca in cui, sull’altro versante, non era la paura della galera o dei plotoni di esecuzione a far lasciare a mezz’asta la bandiera della libertà.
Inutile negare che questi individui, a volte salutati come «eroi romantici» da quella pubblica ipocrisia che si nutre quotidianamente di viltà, non sono molto numerosi. Per i più, infatti, il piacere dell’avventura è limitato alla primavera della giovinezza. Solo a vent’anni tutto è permesso, il bighellonare e le notti in bianco, il sangue agli occhi e il coltello in tasca. Dopo, tutto si ingrigisce, si avvizzisce, cade e muore stretto nella morsa dell’inverno sociale. Come ama ripetere il buon senso quando indossa i panni del boia, bisogna mettere la testa a posto: sul ceppo del conformismo. E chi si decide ad uscire dai meandri dell’avventura per salire sulla ribalta-patibolo della carriera troverà sempre una poltrona, in un consiglio comunale o in una collana editoriale, su cui accasciare la propria nullità. 
Sotto i nostri occhi abbondano innumerevoli esempi in tal senso. Eppure questa eventualità, per quanto giudicata da molti rassicurante, non può che lasciare indifferenti i pochi che si ostinano a vivere, per dirla con un anarchico poeta, «con il cuore gonfio di sogni e negli occhi le stelle». Nessuna domanda di grazia verrà mai sottoscritta da questi condannati. Ma come è possibile andare alla ricerca di se stessi quando si è circondati da nemici e dalla loro immagine riflessa ovunque? Come può uno sguardo che vuole estendersi all’infinito sopravvivere alla perdita d’orizzonte? Se non è la polizia, non è forse la follia o il suicidio a bussare alla porta?
 
Poco noto in Francia, praticamente sconosciuto in Italia, Stanislas Rodanski ci offre una delle più sconvolgenti testimonianze di questo dramma interiore. Tanto più sconvolgente se si considera che non avvenne sulla carta, dove le acrobazie più spericolate sono concesse a chi sa di avere comunque sotto di sé la rete di protezione della finzione, ma nella vita reale. Il nome di Rodanski affiora e scompare come un lampo nella storia del surrealismo del dopoguerra. Nel 1944, a 17 anni, apre le pagine di aprile del suo diario con una citazione di Amiel: «Sembra che il fuoco abbia raggiunto le polveri...». In anni oscuri e difficili, durante i quali conoscerà anche i campi di concentramento nazisti, cercherà in tutti i modi di far prevalere la propria ambizione di gloria e di purezza («Sarò mai abbastanza puro per essere degno del mio bel paese interiore?») sulla coscienza dell’assurdo e sulla vertigine della disperazione che lo braccano («Mi riempio di nero!»). Nel 1947 Rodanski incontra André Breton ed entra a far parte del movimento surrealista, partecipandone alle iniziative. La sua firma compare in calce al manifesto Rottura inaugurale, diffuso nel giugno del 47, col quale i surrealisti fanno i conti con le delusioni politiche del passato, rivendicano la dimensione prevalentemente etica del movimento e ribadiscono che «Il sogno e la rivoluzione sono fatti per venire a patti, non per escludersi. Sognare la Rivoluzione, non significa rinunciarvi, ma farla doppiamente e senza riserve mentali. Sventare l’invivibile, non significa fuggire la vita, ma precipitarvisi totalmente e senza ritorno».
Ma per quanto ancora in grado di attirare un certo numero di giovani appassionati di rivoluzione, di sogno e di poesia, il surrealismo del dopoguerra era diventato oramai l’ombra di se stesso, avendo perso da tempo l’insolente libertà e l’iconoclastico furore che lo contraddistinguevano negli anni 20. Dal momento in cui la Rivoluzione surrealista era degenerata nel Surrealismo al servizio della rivoluzione, dal momento in cui i surrealisti avevano deciso di saltare sul carro del partito comunista, il gruppo si era trasformato in organizzazione e le idee si erano cristallizzate in dottrina.
Nell’immediato dopoguerra anche le speranze legate alla rottura rivoluzionaria, dopo le batoste riportate in Russia e in Spagna, avevano perduto la fragranza del loro sapore. Per Rodanski, come per altri giovani che si erano avvicinati in quel periodo al movimento, tutto ciò in effetti rappresentava meno di nulla. Ai suoi occhi gli aspri dibattiti politici degli anni 30, così come i padri fondatori del “comunismo” tanto amati da Breton e compagni (i vari Marx, Lenin e Trotski), erano solo cenere del passato che veniva a coprire con una spessa coltre di ideologia i sentieri del presente. Più che dai grandi militanti rivoluzionari che con la loro politica avevano condotto il surrealismo alla morte, Rodanski era affascinato dai grandi dandy che con il loro entusiasmo lo avevano portato alla vita. Fra questi spiccava il precursore Jacques Vaché, l’amico di Breton ai tempi della prima guerra mondiale, morto per aver ingerito una dose troppo forte di oppio, con cui Rodanski arriverà a identificarsi fino al punto di vivere in prima persona la celebre lettera del 14 novembre 1918: «... che film che farò — Con automobili impazzite, ci pensate, ponti che crollano, e mani maiuscole che strisciano sullo schermo verso chissà quale documento!... Sarò anche trapper, o ladro, o cercatore, o cacciatore, o minatore, o scandagliatore — Bar dell’Arizona (Whiskey — Gin and mixed?), e belle foreste da sfruttare, e sapete quelle belle brache da cavallo con tanto di pistola a ripetizione, rasato a puntino, e bellissime mani da solitario. Tutto finirà in un incendio, potete scommetterci, o in un saloon, una volta arricchito — Well...».
Fin dall’infanzia — in seguito alla visione del film Orizzonte perduto di Frank Capra — Rodanski aveva preso congedo da ciò che viene comunemente percepito come reale. Il mondo delle cose, ciò che va da sé, non gli interessava. Per lui esisteva solo Shangri-là, la città degli orizzonti perduti che compare sulle vette dell’Himalaya ai sopravvissuti dell’incidente aereo nel film del regista americano. L’oggetto della sua ricerca e il soggetto della sua perdizione. Julien Gracq avrebbe avuto modo di ricordare il «distanziamento atono» di Rodanski, il quale con i suoi silenzi abissali metteva a disagio chi lo avvicinava. Surrealista del silenzio, lo ha definito qualcuno, maestro in questa rude protezione dai curiosi. Da qui il suo rifiuto di ogni identità, la sua totale estraneità: «Vedo la mia anima in questa assenza. Lontano». Perché esiste una avventura interiore che pone l’altrove fuori da ogni mappamondo. Si situa oltre le carte tracciate, in un tempo impalpabile. I suoi eroi sono senza coraggio per il mondo attuale, senza fede verso il qui ed ora. Personaggi di passaggio, vanno alla ricerca dell’ignoto, della terra incognita sfuggita alla loro millenaria memoria. Non strepitando, non militando, non agitandosi, sembrano quasi immobili. 
Non volendo né potendo distinguere tra fantasia e realtà, costretto ad errare fra questi due estremi, Rodanski da un lato riterrà di essere l’incarnazione di personaggi quali Tristano o Lancillotto (alla ricerca di Isotta o del Sacro Graal), dall’altro di trovarsi in un romanzo poliziesco, in un film, in mezzo a spie, serial killer e vampiri. Vive i suoi giorni inseguendo segni, intuizioni, incontri, tutto ciò che il caso gli pone davanti. Così, mentre gli altri surrealisti si dedicano a produrre opere d’arte, Rodanski si abbandona senza freni all’eccesso e alla provocazione, venendo più volte arrestato, subendo ricoveri ospedalieri durante i quali conoscerà la tortura dell’elettrochoc («Non si tratta di creare un’opera, ma di affermare un atto di presenza nei confronti di me stesso, il solo atto di fede di cui sia capace. Un atto di fiducia che sia come l’amore: con l’ombra e la preda fuse in un unico fulmine nel quale, la vita e la morte, la ragione e la follia, il sogno e la veglia, l’alto e il basso, cessano di essere percepiti differentemente. Un’illuminazione unica, il punto del giorno che cerco appassionatamente di determinare»).
Nel gennaio del 1948 esce il primo numero di Néon, prima pubblicazione surrealista del dopoguerra, la cui redazione è composta da Sarane Alexandrian, Henri Heisler, Véra Hérold, Claude Tarnaud e dallo stesso Rodanski che dà anche il nome alla rivista, il cui motto è: «N’être rien; Etre tout; Ouvrir l’être» (Non essere niente, essere tutto, aprire l’essere). Qui si sondano gli abissi dell’inconscio, come di consueto, ma si ostenta anche una distanza incolmabile da ogni forma di coinvolgimento politico, cosa che non potrà essere tollerata a lungo dall’ortodossia surrealista. Nel marzo dello stesso anno, in una dichiarazione rilasciata ad un altro giornale, Rodanski e Tarnaud precisano la loro posizione: «Nella difesa della rivoluzione ovunque, Breton conserva nonostante tutto un gusto per un sistema politico ideale, giunto alla perfezione. Se non ci disinteressiamo del sociale nel senso che vogliamo cambiare la vita, cambiare il mondo, il nostro atteggiamento, rinnovata forma del dandysmo, unico atteggiamento scandaloso dell’epoca, è sostanzialmente apolitico». Stando così le cose, il connubio di Rodanski con i surrealisti non dura a lungo. Dopo soli tre numeri Breton interviene per riportare l’ordine, prende in mano le redini di Néon, cambia perfino il motto (che diventa «Naviguer, Eveiller, Occulter»: navigare, svegliare, occultare) e liquida la vecchia redazione che verrà espulsa quasi in blocco dal movimento l’8 novembre 1948, assieme a Victor Brauner, con l’accusa di «lavoro frazionale» (in termini non burocratici, i giovani surrealisti preferivano visitare il pittore romeno piuttosto che recarsi ai quotidiani appuntamenti collettivi al caffé con il Maestro). Fra gli espulsi, naturalmente, c’è anche Rodanski, il quale pochi mesi prima aveva tentato di rifarsi una vita in estremo oriente, arruolandosi in un reggimento di paracadutisti. Invece, durante un permesso a Parigi, preferirà diventare un disertore e riprendere la strada dell’eccesso.
Non si sa fino a che punto l’esclusione dal gruppo surrealista abbia contribuito agli avvenimenti successivi. Si può comunque dire che Stanislas Rodanski si ritroverà solo, con nulla da perdere, pronto a realizzare le sue aspirazioni («Sfido chiunque ad eguagliare il mio destino unico»). Nell’agosto del 1949 viene tratto in arresto e rinchiuso nella sezione di massima sicurezza per “pazzi criminali” di Villejuif. Vi rimarrà per oltre tre anni, fino all’ottobre del 1952. 
Il suo sguardo, che voleva spaziare all’infinito, si era infranto contro il muro in cemento armato della Società, che lo aveva legato con la camicia di forza ad un letto di contenzione. Senza via di scampo, all’idea del suicidio Rodanski preferisce quella dell’esilio. «La solitudine ha bisogno di qualcuno per liberarsi del tempo presente», scrive dalla sua cella di Villejuif. I giochi sono ormai fatti. Ma se esilio deve essere, non può prendere né la strada dell’altrove geografico (in qualche Harrar lontano), né quella della quiete bucolica (in qualche campagna vicina). No, Rodanski continua a vivere il suo film immaginario, continua a sognare una sua trama. Per sopravvivere ha bisogno di un «mondo intermediario», dove mettersi a margine. Nella notte fra il 31 dicembre 1953 e il 1 gennaio 1954, mentre in tutto il mondo si celebra l’avvento del nuovo anno con feste e brindisi, Stanislas Rodanski si presenta ai cancelli dell’ospedale Saint-Jean-de-Dieu, alla periferia di Lione. Agli infermieri che gli aprono sbigottiti, chiede di entrare volontariamente nell’istituto. Non ne uscirà mai più.
Nel gesto di questo ragazzo di 27 anni, che nel giorno in cui la felicità è un obbligo sociale si auto-reclude per sempre in un reparto psichiatrico ospedaliero dove non rivolgerà la parola quasi più a nessuno, è possibile cogliere al rovescio una delle più terribili negazioni di questo mondo e delle sue oppressioni. Piuttosto che scendere a patti con l’esistente, piuttosto che cedere alle sirene dell’integrazione, piuttosto che abbandonare il mondo abbandonando anche la vita, Rodanski si condanna sì all’ergastolo, ma ad un ergastolo liberamente scelto e che gli permetta di godere della sola libertà che gli rimane, quella del «puro pensiero» (che non è il pensiero della purezza, ma la purezza del pensiero, cioè la sua assoluta autonomia sciolta da ogni fine utilitario).
Solo molti anni dopo cominceranno a circolare alcuni dei suoi vecchi testi inediti. A François Di Dio, responsabile delle edizioni Le Soleil Noir, che va a visitarlo nel 1970, Rodanski si limita a confidare di preferire separarsi dai libri. La sua unica lettura è Artaud ed in particolare Le nuove rivelazioni dell’Essere. Dopo qualche anno, Di Dio riesce a convincere Rodanski a permettere la pubblicazione di una raccolta di suoi testi. Nel 1975 uscirà quindi La victoire à l’ombre des ailes, con una introduzione del vecchio amico Julien Gracq. Sebbene la diffusione del libro sia limitata, il nome di Rodanski comincia a destare una certa curiosità ed altri suoi testi cominciano ad apparire su riviste marginali. A partire dal 1977, Rodanski riceve la visita di Jean-Paul Lebesson e Bernard Cadoux che gli propongono la realizzazione di un filmato a partire dalle loro conversazioni, registrate su magnetofono. Rodanski, che si percepisce come l’attore obbligato di un ossessivo cinema interiore, accetta entusiasta. Il titolo del filmato sarà preso a prestito da quello che ha segnato tutta la sua vita, Horizon Perdu. È l’ultima testimonianza di Stanislas Rodanski, il quale morirà nel luglio del 1981 dopo 27 anni di esilio volontario.
Di questa esperienza umana rimangono oggi i suoi frammenti scritti che, faticosamente, stanno venendo alla luce (poesie, sogni, diari intimi, un racconto, lettere...). Rodanski infatti non aveva alcuna aspirazione a vedersi pubblicare, non scriveva per conquistare lettori e abbandonava i suoi testi qui e là, fra i pochi amici che aveva. Anche il suo stile di scrittura, quasi impenetrabile, non concede nessun favore, nessuna distensione. Come per Vaché, ancor più che per Artaud, la letteratura viene negata.
Qui abbiamo raccolto e tradotto i pochissimi testi pubblicati prima del 1954, e cioè i suoi tre contributi a Néon e le due lettere apparse sul periodico curato dalle edizioni Le Soleil Noir (scritte entrambe mentre si trovava recluso a Villejuif), a cui abbiamo aggiunto una manciata di altri suoi testi apparsi a partire dagli anni 70. Si potrà così forse cogliere la catastrofe esistenziale di una coscienza lucida e rigorosa che, nonostante tutto, non venne mai meno al suo desiderio di assoluto.
 
«È un vero Disperato che vi parla e che conosce la felicità d’esser al mondo solo adesso
che ha lasciato questo mondo e ne è assolutamente separato.
Morti, gli altri non sono separati. Girano ancora intorno ai loro cadaveri.
Io non sono morto, ma sono separato».
(A. Artaud, Le nuove rivelazioni dell’Essere)
 
 
Stanislas Rodanski
SOLE NERO
pp. 88, 5 euro
Gratis
 
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