Brulotti

Chiodi di sabotaggio

Georges Schwartz è un uomo minuto, fragile e riservato. Nasce a Mosca nel 1905, in una famiglia agiata e colta. La madre polacca ed il padre ucraino lo affidano alle cure e agli insegnamenti di una governante tedesca e di un precettore francese; imparerà quattro lingue. 
Bambino prodigio, a cinque anni inizia a suonare il pianoforte (a quindici anni terrà concerti in Russia e in Polonia con un repertorio di Bach, Liszt, Chopin e Scriabine). Ma la rivoluzione d’ottobre colpirà duramente i suoi genitori, che si vedono sequestrati i propri beni dai bolscevichi e sono costretti a prendere la via dell’esilio. Benché si appassioni alla rivoluzione, Schwartz è ancora troppo giovane per rifiutare di seguirli; raggiungono la Polonia nascosti su un carro bestiame. Quando la sua famiglia si trasferisce in Francia, nel 1924, abbandona la carriera musicale per dedicarsi agli studi di medicina. Tre anni dopo decide di iscriversi anche alla facoltà di lettere. 
Dopo essersi sposato ed aver ottenuto la cittadinanza francese, nel 1932 viene chiamato a prestare servizio militare. Arruolato in qualità di medico ausiliario, si rivela ostinato ed indisciplinato e per questo viene degradato a soldato semplice. Nel 1934 si laurea in medicina con una beffarda tesi sulla «sterilizzazione eugenetica degli anormali», in cui dimostra tutta l’assurdità scientifica di quella pratica sostenuta all’epoca dal nazismo crescente. Due anni dopo si stabilisce a Vitry-sur-Seine, ad una decina di chilometri a sud della capitale, dove eserciterà la professione di medico fino al 1970.
In quella periferia abbandonata, piena di miseria, tristezza, drammi e solitudine, diventa il medico dei poveri, curando i clochard, gli immigrati, gli emarginati e coloro che non hanno accesso al servizio sanitario pubblico. Nelle sue puntate a Parigi, al quartiere latino, presta gratuitamente soccorso ai bohemien più disadattati, dispensando medicinali offerti dai laboratori con cui è in contatto oppure pagati di tasca propria. 
Allo scoppio della guerra mondiale, viene mobilitato in qualità di medico-luogotenente e inviato al fronte, sul prolungamento della linea Maginot, per curare i feriti dei bombardamenti nazisti. Di origine ebraica, nel 1941 entra a far parte della Resistenza di cui diventa uno dei responsabili nell’Alta Loira. Combatte nell’ombra, assieme alla moglie Hala. 
Riuscirà a fare ritorno a Vitry solo alla fine della guerra, nel 1945, allorché scopre l’esistenza dei campi di sterminio nazisti e apprende che tutti i suoi cari — suo padre, sua madre e sua sorella — sono morti ad Auschwitz. L’anno seguente riapre il suo studio e si specializza in omeopatia, pratica medica a cui si dedicherà completamente.
Georges Schwarz è una sorta di asceta: non beve, non fuma, non mangia carne, vive la propria vita annullando quasi se stesso e cercando di aiutare gli altri. Ma la guerra, con i suoi orrori, ha stravolto il suo animo. Sarà lui stesso a parlarne, spiegando attraverso quale via sia pervenuto alla poesia: «Alla liberazione, tornato a casa, mi sentivo completamente spaesato. La clandestinità mi aveva insegnato a vivere come un lupo selvaggio. E qui, volente o nolente, dovevo rientrare nella routine amministrativa. È tornata la regolarità con tutto il suo casino. La maggioranza dei miei compagni non ha retto: si ubriacavano da mane a sera, le loro donne li abbandonavano. Siamo diventati personaggi inesistenti... È nato in me un bisogno di resistenza, ma resistenza su un altro piano — il piano poetico. Ho avvertito il richiamo irresistibile di conformare la mia vita alla poesia, pena il decadimento».
Per scongiurare questo decadimento, nel 1947 Georges Schwartz inizia a scrivere poesie e a dipingere quadri (alla sua morte ne lascerà oltre 400). Ma, così come nella sua professione si era messo al servizio dei più deboli, anche in ambito letterario si mette «al servizio esclusivo della poesia». L’anno successivo, quando pubblicherà la sua prima opera Pointes de feu, si firmerà quindi Paul Valet («L’ho scelto per quello che significa, non sono libero di scrivere ciò che scrivo: il pensiero va al di là della parola e, per esprimere il mio pensiero, occorre che lo sottoponga alle leggi della parola. Io sono quindi il valletto della parola, il valletto della poesia»). Ma la poesia di Valet non ha nulla di servile. Riesce a coniugare discrezione e rivolta. Sembra scritta con il coltello. I suoi versi sono fendenti secchi, privi di inutili orpelli. Vanno dritti al bersaglio. Ruggiscono il rifiuto globale del mondo avvilito e nauseante che ci circonda, con le sue menzogne e le sue infamie. 
Pessimista, tragico, ma sempre ironico, Valet aspira ad una libertà integrale, irreconciliabile con ogni forma di potere e di riconoscimento. Come ebbe a dire chi lo conobbe, «nessun riparo sociale, politico, letterario o confessionale trovò grazia ai suoi occhi». In quegli anni dell’immediato dopoguerra l’ambito culturale francese è dominato dagli intellettuali stalinisti, usciti “vittoriosi” dal conflitto bellico. Sartre, Aragon ed Éluard reggono saldamente il timone, epurando alla loro destra (Céline e camerati) e boicottando alla loro sinistra (Breton e compagni). 
Ma in fondo Valet è un poeta «resistente» e del tutto sconosciuto. Potrebbe quindi essere accolto ed accettato, ovvero arruolato e recuperato. Valet non ci sta. Poeta del rifiuto, vuole rimanere un uomo libero. Nella sua opera Sans muselière, su cui Henri Michaux attirerà invano l’attenzione, compare la sua Risposta a chi intendeva arruolarlo nei ranghi di un qualsivoglia partito, riducendolo al ruolo di piffero della propaganda militante:
Ma io so
Che un abbraccio fraterno senza patria né partito
È più forte di tutte le dottrine dei dottori
Ma io so
Che per liberare l’uomo dagli altari della miseria
Non basta spezzare gli idoli
E metterne altri al loro pubblico posto 
[...]
Non si libera l’uomo dai suoi maledetti Stati
Condannandolo a vita ad un modello di Stato
Non sorprende allora che i suoi versi vengano apprezzati e pubblicati anche da una rivista anarchica, Témoins, dove si osserva che «esistono poche poesie più discretamente a vivo della poesia di Valet... la poesia di Valet rifiuta il canto — vien quasi voglia di dire che si rifiuta. Non è senza grandezza. Una parola come interiore al silenzio; e all’angoscia. Non è nemmeno priva di rischio». Diventato poeta e pittore, nel corso degli anni Valet diventa amico di Éluard, Prévert, Char, poi di Cioran, Michaux e Dubuffet. Sordo agli inviti degli amici che lo vorrebbero a Parigi integrato nel bel mondo delle lettere, Valet rimane con ostinazione «l’eremita di Vitry»*, un individuo fuori dal mondo, che non chiede nulla al mondo e non scambia nulla con il mondo («l’utilità e i successi mondani non hanno presa su di me»). Qui, oltre alla sua attività medica, alla poesia, alla pittura e alle traduzioni (sarà il primo a tradurre in francese il futuro premio Nobel Joseph Brodsky, oltre ad Anna Akhmatova) combatte un’altra battaglia. Quella contro le fabbriche Rhône, le raffinerie di petrolio le cui ciminiere inquinano l’aria di Parigi e delle sue periferie, avvelenano la Senna e i corsi d’acqua, uccidono esseri umani ed animali.
Il dottor Schwartz sa bene di cosa parla. Ma nessuno lo ascolta. Gli abitanti del suo quartiere gli sono grati per la generosità e la disponibilità, ma non possono mettersi contro la fabbrica che garantisce a quasi tutti loro qualche briciola di sopravvivenza. Quanto ai camarade, in quegli anni non hanno grande considerazione per la questione ecologica, preferendole di gran lunga il miserabilismo operaio. Ai loro occhi di apologeti del progresso, la natura appare il giardino romantico ed ingenuo della fabbrica. Ecco perché Schwartz si ritroverà solo nel denunciare l’alleanza fra sindacati progressisti ed imprenditori conservatori, vera congiura contro la salute dell’intera popolazione.
Benché privo di ogni sostegno, Schwartz non demorde. Ogni settimana tappezza i muri di manifesti contro gli avvelenatori, inviando lettere infuocate e feroci a dirigenti d’industria e ministri. Ma il gigante rimane impassibile di fronte a quelle punture di zanzara. Schwarz grida nel deserto. Finché, a furia d’esser ripetute, le sue urla finiscono con l’offendere l’amor proprio di qualche capo d’industria. E il gigante si muove. Prima con le intimidazioni e gli avvertimenti. Poi, con i fatti. Schwarz viene aggredito e picchiato per strada da alcuni sicari, contemporaneamente viene portato in tribunale da alcuni legulei che lo accusano di diffamazione. Resisterà a lungo, continuando a denunciare sempre più forte i responsabili dell’inquinamento della città, mentre i suoi nemici tenteranno in ogni modo di farlo tacere e di portarlo alla rovina. Lui si batterà solo contro tutti, contro gli industriali di destra che proteggono i propri profitti e contro i politici di sinistra che difendono i propri sovvenzionamenti.
Quanto questi fatti abbiano contribuito ai gravi disordini neurologici che hanno colpito Georges Schwartz/Paul Valet all’inizio degli anni 70, non siamo in grado di dirlo. Questo cavaliere solitario, questo uomo-contro, questo asceta del NO, conoscerà gli orrori degli ospedali psichiatrici. 
Ciononostante continuerà a suonare il pianoforte, a dipingere e a scrivere («Essere pazzi piuttosto che in ginocchio!») prima di spegnersi l’8 febbraio 1987.
Chi lo ha conosciuto lo ricorda come «un santo laico, uno di quegli uomini luminosi e modesti, che partono in punta di piedi e scompaiono senza lasciare traccia nella memoria degli uomini». Una memoria infestata purtroppo da coloro la cui luminosità è più che altro un effetto dei neon della vanità. 
È anche per questo, per iniziare a fare a meno di quella luce artificiale, che abbiamo qui raccolto alcune poesie di Paul Valet, tratte dalle sue opere dai titoli spesso significativi (come Punte di fuoco, Senza museruola, Poesia mutilata, I pugni sulle i, Parole d’assalto, Tabula rasa).
Contrariamente a chi alimenta fuochi fatui, «Paul Valet distilla acqua d’archibugio».
 
 
Attraverso il muro dei miei sensi
percepisco altri murati vivi
 
Da secoli e secoli, grido: Aiuto!
Mi viene risposto: Attenda il suo turno
 
 
(*) «L'eremita di Vitry» è il titolo di un testo di Emil Cioran dedicato a Valet che abbiamo inserito a mo' di postfazione
 
 
Paul Valet
CHIODI DI SABOTAGGIO
pp. 72, 4 euro
Gratis
 
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