Autopsia

Bakunin e la sua Confessione

Fritz Brupbacher
 
Per la maggior parte dei contemporanei, Michail Bakunin è uno sconosciuto. Se un certo numero di persone lo conosce solo di nome, ciò basta per odiarlo e calunniarlo. C'è qualcuno però che lo ama con fervore.
Una volta Bakunin fu veramente un grande nome. Mentre si cercherebbe invano nell'edizione del grande dizionario enciclopedico uscita nel 1866 il nome di Karl Marx, quella stessa opera del 1864 consacra a Bakunin, contemporaneo di Marx, quasi un'intera pagina che si chiude con queste parole: «Bakunin ha una personalità suggestiva, delle facoltà intellettuali brillanti accompagnate da una rara energia, ma anche da una passione fanatica».
E questo non è per caso. Bakunin è uno degli uomini che hanno partecipato alla rivoluzione borghese del 1848-1849: ma i borghesi hanno dimenticato già da molto tempo che essi furono dei rivoluzionari; hanno, quindi, dimenticato i loro eroi; hanno, perciò, dimenticato Bakunin.
Sì, ma anche Karl Marx è stato quarantottardo e tuttavia è uno degli uomini più celebri dei nostri tempi. Più di uno dirà: «Se Marx fosse stato solo un rivoluzionario borghese, sarebbe certamente dimenticato. Ma ciò che sopravvive di Marx non è l'uomo del 48, è il teorico della rivoluzione proletaria».
A questo noi risponderemo che Bakunin è stato anche lui, dopo il 1860 e 1870, uno degli spiriti che hanno dominato l'Associazione Internazionale dei Lavoratori e quando Marx l'ebbe escluso, quest'esclusione provocò la morte dell'Internazionale. Marx fu costretto ad uccidere la Prima Internazionale per impedire che essa cadesse nelle mani dei bakuninisti. Questa era, in realtà, la situazione nel 1872.
Attualmente, solo la Spagna e l'America del Sud contano un numero abbastanza grande di discepoli di Bakunin, mentre in tutti i paesi del mondo i marxisti sono tanto numerosi quanto i granellini di sabbia del mare.
Quando Bakunin fu escluso dalla Prima Internazionale, le Federazioni nazionali del Belgio, dell'Olanda, della Spagna e dell'Inghilterra lo seguirono, così come considerevoli minoranze di altri paesi. Bakunin era allora una potenza nel movimento rivoluzionario proletario.
Oggi, tra i proletari, lo stesso Bakunin, e con lui l'anarchismo, sono quasi completamente dimenticati.
Il ricordo di Bakunin è scomparso via via che scomparivano nel proletariato certe tendenze psicologiche. Diciamolo subito: via via che si è sviluppata la grande industria, è scomparsa nel proletariato l'aspirazione alla libertà, alla personalità; — le tendenze libertarie e anarchiche del bakuninismo si sono via via cancellate, insieme al ricordo di Bakunin.
Non solo è scomparso il desiderio della libertà, ma è stato riservato un vero odio a tutti coloro che continuano a volere la libertà dell'individuo: quest'odio è di conseguenza rivolto contro Bakunin e le sue dottrine. È lo stesso odio che ha generato le calunnie sparse contro la sua persona.
Dato che la grande industria ha ucciso la volontà di essere liberi, la schiavitù ha generato nei proletari la volontà di potere, non soltanto la volontà di esercitare il potere politico a spese della borghesia, ma la volontà di potere in se stesso, la sete di imporre il proprio potere su tutto ciò che ha aspetto umano. Ogni individuo dominato dalla volontà di potenza, ed in particolar modo il proletariato politicamente attivo, arriva a considerare come suo nemico mortale chiunque conservi la volontà di essere libero; e ciò maggiormente in quanto una disciplina estremamente rigorosa è diventata veramente necessaria nella lotta che il proletariato sostiene contro i suoi nemici.
Alla fase anti-autoritaria del socialismo è seguito un socialismo autoritario che ha vinto, sotto tale forma, il feudalesimo e la società borghese in Russia.
Chiunque aspiri alla libertà diventa un contro-rivoluzionario e merita l'odio e la calunnia. Essendo Bakunin l'anti-autoritario per eccellenza, merita per eccellenza la calunnia e l'odio.
Così, calunniato dal proletariato contemporaneo, dimenticato da una borghesia che ha cessato di essere rivoluzionaria, Bakunin deve accontentarsi di essere amato da coloro che, per quanto distanti da lui e dopo tanti peripli attraverso la psicologia delle diverse classi, presentono la venuta di un tempo in cui il lusso della libertà ricomincerà ad essere considerato come uno dei più grandi beni dell'umanità.
Abbiamo visto perché Bakunin è sconosciuto, perché è odiato e calunniato e perché, ciò nonostante, alcuni amici lo amino con fervore. Si tratta ora di presentarlo a coloro che l'ignorano o che di lui conoscono solo la figura menzognera inventata dalla calunnia.
 
II
 
Non si perde molto a non sapere nulla della vita di Karl Marx, si perde quasi tutto quando si ignora quella di Bakunin. Innanzitutto, la stessa sua vita è un romanzo; un romanzo che, grazie per primo a Max Nettlau e poi a Kornilow e per ultimo a Polonsky, è stato oggetto di ricerche instancabili. L'esistenza di Bakunin ha ispirato più di uno scrittore: Turgueniev e Dostoievski lo hanno utilizzato nei loro romanzi, mentre Ricarda Huch, grande romanziera tedesca, ha scritto un Bakunin, ed infine Lucien Descaves e Maurice Donnay l’hanno messo in scena.
Chiunque non sia prigioniero di una corazza dottrinaria, chiunque non abbia, una volta per sempre, deciso di appartenere ad una ortodossia militante, oppure non sia accecato dalla situazione particolare della sua classe, troverà la personalità di Bakunin estremamente seducente.
Ma è un piccolissimo numero.
Il suo fascino maggiore consiste nell’essere una figura pre-capitalista, una specie di selvaggio con molta cultura. Feudale in rivolta contro il dispotismo feudale, borghese e proletario, è l'uomo meno americano che si possa immaginare, è il meno fordiano, e tuttavia il meno staliniano degli uomini. Se oggi noi europei possiamo entusiasmarci di Bakunin, quest'entusiasmo è fatto più di nostalgia che della nostra capacità di vivere il bakuninismo. E tanto più noi saremo degli europei moderni e razionalizzati, quanto più ci sentiremo attratti da questo pagano selvaggio, dalla sua indomita forza naturale. Immagino facilmente che quelli che lo odiano di più sono quelli che non sono ancora sicuri di sé: che hanno ancora paura del diavolo dentro di sé e nei loro compagni. Così, Bakunin ridiventerà attuale il giorno in cui l'uomo comincerà a trovare insopportabile il dispotismo borghese e il dispotismo proletario.
 
III
 
Bakunin, nella «Confessione» alla quale queste pagine debbono servire da introduzione, racconta molti avvenimenti della sua vita.
Il padre di Bakunin, un nobile agiato della Russia, ricco di cinquecento servi e di dieci figli, amministrava lui stesso le proprie terre, alle quali aveva aggiunto un cotonificio che per altro non gli rendeva molto.
Bakunin era nato nel 1814, aveva perciò undici anni quando la nobiltà russa fece contro lo Zar la sua ultima fronda, la rivolta dei decembristi. Sua madre era parente dei Muraviev, ribelli, dei quali uno fu impiccato, altri tre condannati ai lavori forzati a vita, e due infine ai lavori forzati temporanei ed alla deportazione nelle colonie penitenziarie. Un altro membro della famiglia, meno glorioso, era quel Muraviev che si è reso celebre come boia della Polonia.
Quando Michail ebbe raggiunto l'età di quattordici anni, suo padre l'inviò alla scuola d'artiglieria di Pietroburgo affinché un giorno potesse guadagnarsi da vivere come ufficiale, punto sul quale il padre di Bakunin insistette in una lettera in termini precisi, dicendo che non erano ricchi.
A diciotto anni Michail Bakunin diventa ufficiale di artiglieria, senza entusiasmo. Anzi, si sentiva isolato e smarrito, aspirava a lasciare la vita militare, sognava la scienza. Ufficiale a dire il vero molto poco militare, intellettualizzato all'eccesso, si vide inviato in una piccola guarnigione perché era andato a passeggio vestito da civile in un'ora in cui l'uniforme era di rigore.
Ciò che egli voleva sapere non era quello che riguardava il servizio, ma lo scopo della sua esistenza e la funzione che gli era serbata nel grande meccanismo dell'universo. Così, essendo riuscito ad ottenere un congedo, non ritornò più nell'esercito, ma prese la decisione di diventare professore di filosofia, con grande disperazione di suo padre. Per il giovane Bakunin, d'altra parte, un professore di filosofia era qualche cosa di molto poco professorale, ma un uomo che cerca la pietra filosofale — e che la trova.
Questa pietra filosofale la cercò per cinque anni, insieme con molti compagni, discutendo giorno e notte di Kant, di Fichte, di Hegel, distaccandosi sempre di più dalla società ufficiale e dai suoi ideali, come si può vedere in una lettera che scriveva a sua sorella: «In cosa mi riguarda l'esistenza di questa società? Essa può scomparire ed io non muoverei il dito mignolo per salvarla».
Tutte le lettere di quel periodo vibrano di un'invincibile aspirazione alla libertà, unita al bisogno intenso di un’intima comunione con altri uomini animati dalle sue stesse idee.
Dal punto di vista filosofico, alla fine di questo periodo, Bakunin è hegeliano. Dal divenire «dialettico» dello spirito, egli aspetta la sua stessa redenzione e quella del mondo.
Quanto alla maniera in cui questa liberazione doveva realizzarsi effettivamente, credette di poterla imparare nel paese stesso del maestro. Così, nel 1840, all'età di ventisei anni, si recò in Germania grazie all'aiuto finanziario dei suoi amici Herzen e Granowski.
 
IV
 
In Russia, solo qualche giovane isolato incominciava allora a cercare un nuovo ideale in opposizione a ciò che lo Zar, la nobiltà e i Koupti (grandi commercianti) riconoscevano come legittimo nel pensiero e nell’azione.
Nella Germania del 1840, Bakunin avrebbe trovato una classe borghese numerosa in opposizione con la feudalità, i principi e la nobiltà; di conseguenza più di un filosofo era rivoluzionario, e la scuola hegeliana in particolare aveva dato vita ad un'ala sinistra.
Bakunin fu trascinato dal movimento democratico tedesco e strinse amicizia con Herwegh ed altri democratici. Dato che il governo russo aveva iniziato ad occuparsi di lui, lasciò la Germania con Herwegh e si recò a Zurigo. In quella città egli fece conoscenza con il sarto comunista Weitling, che fece su di lui una grande impressione. Quando Weitling fu arrestato, si scoperse nelle sue carte anche il nome di Bakunin che dovette allora lasciare la Svizzera ed andare a Bruxelles, poi a Parigi, dove visse dal 1844 al 1848.
Il governo svizzero, o più esattamente il governo di Zurigo, l'aveva denunciato come rivoluzionario allo Zar, e quindi Bakunin fu condannato in contumacia nel 1848 alla perdita di tutti i suoi beni e alla deportazione in Siberia.
Al suo arrivo a Parigi, Bakunin era già rivoluzionario in politica. Per la realizzazione del suo ideale filosofico, egli contava sulla forza distruttiva della classe politicamente ed economicamente oppressa. La miseria generata dalla classe dominante doveva, così egli credeva e così la pensava d'altra parte tutta la sinistra hegeliana, creare tra gli oppressi uno stato di spirito tale da non lasciare loro necessariamente altra via che quella di esplodere e di annientare così l'intera società.
Ed ecco perché Bakunin era sinceramente dalla parte degli oppressi. Li amava perché essi rappresentavano ai suoi occhi una forza di distruzione. Li amava nella stessa misura in cui essi stessi odiavano la classe dominante.
A Parigi, Bakunin fece la conoscenza di Considérant, Lamennais, Flocon, Louis Blanc, George Sand e di molte altre personalità. Ma l'uomo che frequentò di più fu Proudhon, che egli amava molto. Anche Marx fa parte delle relazioni parigine di Bakunin.
Nonostante tutti questi rapporti egli si sentiva isolato a Parigi. Inoltre la sua situazione economica era disastrosa, come del resto lo fu durante tutta la sua vita. Leggeva molto, sopratutto di storia, di matematica, opere statistiche e di economia, e ben presto visse molto solo. Rivoluzionario, non aveva compagni d'idea tra i suoi compatrioti che vivevano all'estero e che erano, d'altra parte, molto rari. Sotto questo aspetto, gli emigrati di tutti gli altri paesi erano più fortunati di Bakunin. Se non sentivano eserciti alle loro spalle, essi avevano almeno qualche battaglione. Bakunin era allora il solo russo rivoluzionario, il primo russo ad aver innalzato la bandiera rossa. 
L'innalzò pubblicamente il 29 novembre 1847, in un discorso pronunciato davanti ai polacchi che lo avevano invitato ad una festa commemorativa della loro insurrezione del 1831. Questo discorso pubblicato in tedesco con il titolo Russland wie es wirklich ist (“La Russia qual è in realtà”) fece un'impressione fulminante negli ambienti russi ufficiali di Parigi. L'ambasciatore della Russia domandò l'espulsione immediata di Bakunin dal territorio francese. L'ambasciata, inoltre, fece diffondere la voce che Bakunin era un agente provocatore del governo russo, ricercato e condannato nel suo paese per furto. Gli uomini credono facilmente alla bassezza, queste voci hanno avuto più eco dell’opera stessa di Bakunin; non cessarono di seguirlo per tutta la sua esistenza. Questa calunnia, accolta con compiacenza da tutti i suoi avversari, ha continuato il suo cammino fino ai tempi più recenti.
Da Parigi, Bakunin raggiunse Bruxelles. Vi trovò Marx ed il suo ambiente. Nessun avvicinamento ebbe luogo tra Marx e Bakunin. Il programma di Marx era il Manifesto Comunista e la sola classe nella quale credeva era il proletariato. Il programma di Bakunin era il suo discorso ai polacchi. Egli lottava per la liberazione di tutti gli oppressi, ma innanzitutto per la libertà dei popoli slavi.
Engels, d'altra parte, in una lettera del 6 settembre 1846, aveva scritto al suo amico Karl Marx che Bakunin era fortemente sospettato di essere una spia. Una lettera di Bakunin a Herwegh ci mostra, a sua volta, che anche l'amore di Bakunin per Marx non era molto forte.
Nel 1848, alla notizia della rivoluzione di febbraio, Bakunin corse a Parigi.
 
V
 
Il 23 febbraio 1848 la rivoluzione era scoppiata a Parigi, e dal 24 la Francia era una Repubblica. «Questo movimento scatenato dai liberali giovò alla Repubblica, di cui avevano paura, e all’ultimo momento il suffragio universale fu stabilito dai repubblicani a vantaggio del socialismo, che incuteva loro grande paura». Il treno non condusse Bakunin al di là della frontiera belga. Dal Belgio si recò, in tre giorni a piedi, a Parigi, dove arrivò il 26 febbraio, e dove naturalmente si schierò dalla parte dell'estrema sinistra, quindi per i socialisti, i quali dovevano essere mitragliati in giugno dai liberali e dai repubblicani riuniti, che li temevano come il fuoco.
Quando Bakunin arrivò a Parigi, le barricate erano ancora in piedi. Nessun borghese nelle strade: la paura li aveva paralizzati. Ovunque degli operai armati. La rivoluzione aveva ubriacato tutti. Bakunin compreso, naturalmente. Alle due del mattino, con il fucile accanto, si addormentava sul pagliericcio nella caserma dei Montagnardi; alle quattro era in piedi, correva di riunione in riunione, da un club all'altro. Era una «festa senza fine». Parlava di tutto, con tutti. Il suo amico Herzen scrisse che Bakunin predicava allora il comunismo, l'uguaglianza dei salari, il livellamento ugualitario, la liberazione di tutti gli slavi, la distruzione di tutti gli Stati all'austriaca, la rivoluzione in permanenza, la guerra fino all'annientamento di tutti i nemici. Il «presidente delle barricate», Caussidière, che tentava di far nascere «l'ordine dal disordine», avrebbe detto di Bakunin: «il primo giorno della rivoluzione è letteralmente un tesoro; il secondo giorno, bisognerebbe semplicemente fucilarlo». Caussidière, nella sua qualità di borghese poco preoccupato della rivoluzione sociale, aveva ragione di parlare così. Altri affermano che Bakunin ha diretto la famosa manifestazione operaia del 17 marzo 1848 contro la casta privilegiata delle vecchie guardie nazionali. Lui stesso ha raccontato che in principio tutti vivevano nella febbre, e che se a qualcuno gli fosse saltato in mente di affermare che il buon Dio era stato cacciato dal cielo e che la repubblica vi era stata proclamata, sarebbe stato creduto sulla parola... Bakunin si rese ben presto conto che la Rivoluzione era in pericolo e, passato il primo entusiasmo, giudicò che la sua presenza fosse necessaria alla frontiera russa, allo scopo di sollevare gli slavi contro lo Zar. Trovandosi, come sempre, in una grande penuria sollecitò dal governo provvisorio un prestito di duemila franchi. La sua intenzione era di andare in Poznania, dove avrebbe stabilito il suo centro d'azione. Il governo provvisorio gli accordò la somma richiesta e gli rilasciò due passaporti, l'uno al suo vero nome e l'altro ad un nome fittizio.
All’inizio di aprile, si recò da Strasburgo a Francoforte dove risedeva il Preparlamento tedesco. Bakunin fece la conoscenza di Jacob, di Willich e di qualche altro democratico. Poi, passando da Colonia, si recò a Berlino. È rimasta di lui una lettera scritta da Colonia il 17 febbraio 1848. Egli dice in sostanza: regna qui una calma «filistea». La mancanza assoluta di centralizzazione si fa pesantemente sentire nella rivoluzione tedesca. Il potere, egli aggiunge, è passato ormai dai re alla borghesia, la quale ha paura della Repubblica, dato che quest’ultima deve necessariamente porre la questione sociale. La sola realtà vivente in Germania è il proletariato, che si agita, e la classe contadina. Bakunin pensa che la rivoluzione democratica si verificherà nel giro di due o tre mesi. Ovunque i borghesi si armano contro il popolo. D'altra parte, nella Confessione, egli racconta che diventava sempre più triste via via che si avvicinava al Nord. A Berlino fu subito costretto a partire. Rinunciò al suo viaggio in Poznania, dove il movimento rivoluzionario era stato schiacciato. A Breslavia egli fu fatto segno della diffidenza dei polacchi, nuova conseguenza delle vergognose calunnie diffuse sul suo conto dall'ambasciatore russo di Parigi. Tristemente, egli attendeva la sua ora. A Breslavia frequentò il club democratico tedesco.
Quando ai primi del giugno 1848 fu convocato un congresso slavo a Praga, Bakunin si affrettò naturalmente ad accorrervi. Ma conviene, innanzitutto, collocare questo congresso nell'ordine degli avvenimenti.
Dal 13 al 15 marzo 1848 era scoppiata la rivolta a Vienna. La guardia nazionale e gli studenti sono padroni della città.
Il 15 maggio 1848, seconda sommossa a Vienna. L'imperatore fugge ad Innsbruck. Dopo la rivoluzione parigina di febbraio, le diverse nazionalità riunite dalla loro comune sottomissione agli Asburgo vogliono ritrovare la loro indipendenza; i tedeschi reclamano la loro unione alla Germania; gli italiani esigono di ritornare all'Italia; i magiari cercano di isolarsi; tutti infine aspirano alla libertà.
Il congresso slavo di Praga era stato convocato dal partito del ceco Palacki. Doveva essere una specie di preparlamento, analogo a quello di Francoforte. Vi partecipavano rappresentanti di nazionalità ceca, morava, slovacca, rumena, polacca, croata e serba.
I cechi, dall'inizio della rivoluzione austriaca, avevano formato un governo provvisorio diretto da Palacki. Il sogno di quest'ultimo era di realizzare una restaurazione dell'Austria e degli Asburgo sotto la tutela della Cecoslovacchia. Al posto della dominazione tedesca esercitata fino allora sui cechi, questi avrebbero al contrario dominato i tedeschi. Palacki intratteneva relazioni semi-ufficiali con l'imperatore rifugiato ad Innsbruck. Voleva guarire la malattia degli Asburgo per mezzo dei cechi.
Lo stesso Palacki presiedeva il congresso slavo. Bakunin oppose a lui ed agli altri panslavisti reazionari la sua federazione slava democratica, e cercò di svegliare la diffidenza dei conservatori nei riguardi della dinastia russa ed austriaca. Preconizzò, tra i popoli slavi, un'alleanza federativa che doveva avere come base l'uguaglianza di tutti e l'amore fraterno. Ogni forma di asservimento doveva scomparire. Non dovevano esserci più disuguaglianze, se non quelle create dalla natura. Non più caste né classi; e laddove una aristocrazia ed una nobiltà privilegiata esistevano ancora, dovevano rinunciare ai propri privilegi ed alla propria ricchezza.
I sogni di Bakunin andavano ancora più lontano. Nelle idee che si limitava di esprimere, egli vedeva solo un primo germe, un primo mezzo per rovesciare più tardi lo zarismo. Sognava la creazione di un grande Stato slavo democratico, avente come capitale Costantinopoli e che doveva ugualmente comprendere i greci, i magiari, ecc. Questo stato avrebbe formato una Repubblica, ma senza parlamento. A suo avviso era necessaria una dittatura provvisoria. Una dittatura senza alcun limite, senza libertà di stampa. Questa dittatura doveva sussistere fino a che gli stessi popoli fossero sufficientemente illuminati. L'esercizio della dittatura doveva tendere a renderla essa stessa inutile.
Il congresso, per quanto non avesse voluto accordare nessuna risonanza alle idee di Bakunin, servì tuttavia da pretesto per un intervento dell'esercito dinastico austriaco comandato da Windischgratz. Gli austriaci provocarono i cechi nominando a Praga un comandante militare reazionario. I tedeschi conservatori si rallegrarono di questa nomina e formarono una «Società per l'ordine e la pace», una specie di guardia civica per la difesa del regime austriaco. Al che gli studenti cechi prepararono l'insurrezione per il 12 giugno 1848. Bakunin, che ne prevedeva il fallimento, la sconsigliò. Tuttavia, alla data fissata ed in occasione di una manifestazione ceca, avvenne un incontro con le guardie della «Società per l'ordine e la pace», che altro non erano che l'avanguardia dell'esercito austriaco condotto da Windischgratz. Quando i tedeschi non furono più in condizione di reggere da soli, la forza armata ufficiale venne in loro soccorso ed i cechi accettarono il combattimento. Questo durò dal 13 al 17 giugno 1848 e terminò con la disfatta degli insorti. Molte leggende corsero sull'azione di Bakunin durante quelle giornate. Quel che è certo è che egli si batté coraggiosamente. Lottò contro la dispersione delle forze, lavorò all'organizzazione di un comitato centrale, cercò di far istituire una severa disciplina, studiando incessantemente le posizioni dei rivoluzionari e quelle dei loro nemici, dando una mano infine alla ripartizione delle truppe ribelli. Dopo la disfatta fuggì a Breslavia, dove arrivò il 20 giugno 1848.
Dal 23 al 26 giugno 1848, Parigi fu il campo di battaglia dove si affrontarono la reazione e la rivoluzione; diecimila operai perirono e innumerevoli vinti furono condannati alla deportazione. La rivoluzione era colpita al cuore; la disfatta del proletariato parigino fu il segnale della controrivoluzione in tutta l'Europa occidentale, così come scatenò nuovi e febbrili sforzi da parte di Bakunin per salvare ciò che poteva ancora essere salvato, per infiammare ciò che poteva ancora esserlo.
Si sarebbe detto che la rivolta di tutta l'Europa si fosse rifugiata nel suo cervello e nel suo cuore, e se quest'Europa soggiogata avesse assomigliato a Bakunin non sarebbe rimasta una sola pietra di tutto l'edificio della società feudale e borghese. La sua speranza era il proletariato e i contadini. Nonostante tutti gli smarrimenti e tutte le bassezze, la sua fede rivoluzionaria si era fortificata ed era lungi dalla disperazione; egli vedeva il vecchio mondo avvicinarsi alla propria distruzione. Considerava con supremo disprezzo il cretinismo dei parlamentari, l'Assemblea Costituente e tutte le altre mascherature pseudo-rivoluzionarie. Aveva fede solo nell'urto delle masse proletarie e contadine. «La tempesta e la vita — egli gridava — ecco ciò di cui abbiamo bisogno, un mondo nuovo, senza leggi e, di conseguenza, libero». Ovunque continuò il suo lavoro di agitatore, accendendo le passioni, organizzando la lotta. Le sue sofferenze personali stimolarono ancor più il suo vigore politico. La sua continua miseria, la rinnovata insistenza della calunnia tendente a farlo passare per un agente provocatore russo, non spezzarono affatto la forza di quest'uomo; viceversa, egli se ne ritrovò rinforzato nella sua volontà di vincere un mondo mostruoso — o di distruggerlo. Lavorava con tedeschi, polacchi, cechi. Ritornato a Berlino vi ritrovò Marx, Stirner, ed altri ancora. Espulso dalla Prussia e poi da Dresda, trovò un asilo nell'Anhalt, che era ancora «rossa». È da là che scrisse il suo Appello agli Slavi, in cui mette in guardia i suoi fratelli di sangue contro il nazionalismo e i nazionalisti, incitandoli a distruggere gli Stati russo, austriaco, prussiano e turco, mostrando loro la necessità di una azione comune con i rivoluzionari tedeschi e con i magiari. Lavora per preparare un'azione, per quanto possibile simultanea, dei rivoluzionari di tutti i paesi. I suoi piani dell’epoca, scrive Polonsky, testimoniano un'ammirevole e profonda comprensione del meccanismo della rivoluzione. Per la Boemia, egli progettava una rivolta radicale e decisiva che, anche se vinta, avrebbe sconvolto tutto. Tutti i nobili, tutti gli ecclesiastici, tutti i feudatari dovevano essere cacciati; tutti i beni dovevano essere confiscati, da una parte dovevano essere divisi tra tutti i contadini poveri e dall'altra dovevano essere impiegati per coprire le spese della rivoluzione. Tutti i castelli dovevano essere distrutti, tutti i tribunali soppressi, tutti i processi di Stato sospesi, tutte le ipoteche e tutti i debiti al di sopra di mille fiorini annullati. Una simile rivoluzione avrebbe reso impossibile ogni tentativo di restaurazione, anche se fosse tentata da una reazione vittoriosa, ed avrebbe ugualmente servito da esempio ai rivoluzionari tedeschi. La Boemia doveva essere trasformata in un campo rivoluzionario, dal quale sarebbe partita l'offensiva scatenata dalla rivoluzione in tutti i paesi, offensiva alla quale si sarebbero aggiunti tutti gli altri rivoluzionari. Si sarebbe creato a Praga un governo rivoluzionario che disponesse di poteri dittatoriali illimitati e che sarebbe stato assistito da un piccolo numero di specialisti. I club, i giornali, le manifestazioni sarebbero stati proibiti, i giovani rivoluzionari sarebbero stati inviati nei paesi per farvi dell'agitazione e creare un'organizzazione militare e rivoluzionaria. Tutti i disoccupati dovevano essere armati ed arruolati in un esercito «rosso» comandato da ex-ufficiali e sotto-ufficiali polacchi e austriaci. Tutte le vecchie istituzioni, tutte le vecchie norme della vita sociale sarebbero state annullate.
Con l'aiuto di amici cechi, che d'altra parte non poterono mantenere quanto sembravano promettere, Bakunin cercò di realizzare i suoi piani fondando un'organizzazione segreta con una direzione centrale. Si mise ugualmente in rapporto con i polacchi, che promisero del danaro e degli ufficiali. Nonostante si esponesse ad un grave pericolo, andò lui stesso a Praga per verificare a che punto stavano i preparativi. Ora, non soltanto niente era stato preparato, ma i democratici cechi furono letteralmente spaventati dal radicalismo di Bakunin. Ciò non lo scoraggiò per niente, il suo zelo per la causa cresceva davanti ad ogni ostacolo. Tuttavia dovette raggiungere la Sassonia, perché il territorio della Boemia era diventato troppo poco sicuro. La società segreta fu scoperta in seguito ad un'imprudenza commessa poco tempo prima la sommossa di Dresda. Il processo causato dai preparativi di Praga durò fino al 1851 e terminò con un gran numero di condanne a morte, che d'altra parte non furono eseguite, e con una larga distribuzione di anni di prigione.
Frattanto, in Germania la situazione era matura per un ultimo scontro tra la reazione e la rivoluzione. Ricordiamo qualche data per meglio fissare gli avvenimenti:
1848, 31 ottobre: le truppe imperiali prendono Vienna.
1848, 10 novembre: Wrangel, generale delle truppe governative e regie di Prussia, entra a Berlino. Proclamazione dello stato d'assedio. Disarmo della guardia nazionale.
1849, 3 aprile: il re di Prussia dichiara di non volere accettare la Costituzione tedesca senza il consenso dei principi, i quali naturalmente vi si oppongono. Sarebbe stato allora dovere della Rivoluzione tedesca difendere la sua Costituzione e combattere per le sue «idee». Infatti scoppiano sommosse a Dresda, nel Palatinato, nel ducato di Baden. All'epoca dell'insurrezione di Dresda, Bakunin si trovava proprio in quella città. Il 30 aprile 1849, il re di Sassonia pronuncia lo scioglimento del «suo» parlamento, e si diffonde la voce dell'arrivo dei prussiani. Il 3 maggio, il popolo vuole impadronirsi dell'arsenale per procurarsi delle armi e le truppe regie sparano sulla folla. Presto si ergono le barricate ed il re fugge.• Disgraziatamente, i capi del movimento popolare, troppo deboli come sempre, firmano un armistizio per permettere al re di riunire le sue truppe. Il 4 maggio 1849, Bakunin va alla sede del governo provvisorio della rivoluzione sassone per offrirgli il suo aiuto•. Studia la carta della Sassonia, dà istruzioni e ordini, diventa in una parola il vero capo militare dell'insurrezione. Egli dà a tutti i capi della guardia nazionale carta bianca di bruciare le case ogni qual volta simile misura è necessaria al progresso della lotta ingaggiata. «Questo diavolo di uomo non conosceva precauzioni». Si dice che avrebbe terrorizzato il governo provvisorio, distribuito armi, munizioni e viveri, e fatto mettere delle torce sulle barricate. Invece, sembra poco credibile la leggenda secondo cui egli avrebbe consigliato di mettere la Madonna di Raffaello sulle barricate per impedire ai prussiani «amanti dell’arte» di sparare•. Quando la disfatta sembrò inevitabile, avrebbe proposto di far saltare il Municipio con tutto il governo. Questo consiglio non fu accettato. Allora, profittando di una lacuna nell’accerchiamento delle truppe di assedio, organizzò la ritirata in buon ordine di circa mille ottocento rivoluzionari, con i quali contava di aprirsi un cammino fino in Boemia; ma questa truppa si disperse a poco a poco. Bakunin ed Heubner, membro del governo provvisorio, si recarono allora a Chemnitz dove, sfiniti dalla fatica, si rassegnarono a dormire. Nel corso della notte del 10 maggio 1849, dei borghesi di Chemnitz li sorpresero mentre dormivano all'albergo «L’Angelo blu», procedettero al loro arresto e infine li consegnarono al €comandante di un battaglione prussiano. Non possiamo dire se quei borghesi riscossero i 10.000 rubli d'argento promessi nel 1847 dal governo russo a chiunque riuscisse ad impadronirsi di Bakunin.
La cattura di Bakunin fece, in ogni modo, molto piacere al governo dello Zar. Da molto tempo speravano di averlo. Un alto funzionario della polizia aveva una volta proposto di coglierlo semplicemente e puramente all'estero; qualche uomo ben piantato, inviato in Europa, si sarebbe impossessato del criminale e l'avrebbe ricondotto in Russia•. Le spie di più alto grado trovarono però che il procedimento fosse troppo insolito. Questa volta, non appena venne telegrafato l'arresto di Bakunin alla gendarmeria russa, il capo di quest'ultima spedì alla frontiera un ufficiale ed una truppa di soldati con l'ordine di farsi consegnare il colpevole piedi e mani legati e di condurlo in una prigione di Pietroburgo. Lo Zar aveva avuto troppa fretta, fu costretto a pazientare ancora due anni prima di avere Bakunin nelle sue mani. I Sassoni e gli austriaci volevano essere i primi a sfogare su di lui il loro umore. Per incominciare, fu rinchiuso nella prigione di Dresda, piena di insetti. Per condurlo agli interrogatori si prendeva la precauzione di caricarlo di catene. Dopo due mesi lo trasportarono alla fortezza di Konigsstein, naturalmente sempre incatenato e circondato da sotto-ufficiali muniti di pistole cariche; inoltre un ufficiale precedeva ed un altro chiudeva il corteo; e in più tutto il gruppo era circondato da fanteria. Per quanto facesse notte fonda, gli bendarono ugualmente gli occhi prima di entrare nella fortezza. La finestra della sua cella fu chiusa con assi inchiodate. Se avessimo qui lo spazio, riprodurremmo le sue lettere scritte dalla prigione. Sono piene di saggezza e di coraggio, ma anche di rimpianto per la libertà e la società degli uomini. Perché in nessuno, forse, il bisogno di socievolezza fu così profondo quanto in Bakunin: può darsi che sia questo il tratto dominante del suo carattere. Egli preferiva il contatto della gente cattiva alla solitudine. La morte non gli pareva affatto spaventosa, ma la tomba di una cella rinchiusa su di lui lo riempiva di spavento. 
Dopo essere stato condannato a morte il 14 gennaio 1850, Bakunin vide la sua pena commutata nella prigione a vita e fu in seguito consegnato all'Austria. Un distaccamento di gendarmi venne a prenderlo alla fortezza di Konigsstein e, alla frontiera austriaca, lo consegnò ad un plotone di corazzieri che lo condusse a Praga. In questa città, si ebbe cura di mettere dei soldati muniti di fucili carichi al di sopra e da ciascun lato della sua cella. Ma ciò non turbò per niente l'appetito, universalmente celebre, di Bakunin il cui stomaco esigeva una razione doppia di quella di un uomo comune. 
Un convoglio di dragoni lo condusse a Olmutz, perché si temeva che a Praga i cechi facessero il loro possibile per liberare questo prigioniero di riguardo. L'ufficiale seduto vicino a lui nella vettura caricò platealmente la sua pistola per avvertirlo che gli avrebbe ficcata una palla in testa al minimo accenno di fuga. A Olmutz, le catene furono fissate al muro della prigione. Bakunin tentò invano di suicidarsi con dei fiammiferi al fosforo.
Il 15 maggio 1851, gli austriaci lo condannarono all'impiccagione, ma commutarono la pena in quella della prigione a vita: Bakunin doveva inoltre pagare il suo vitto.
Frattanto alla frontiera russa gli sbirri dello Zar aspettavano impazientemente l'arrivo del grande criminale. Non era ancora finito il mese di maggio, quando lo svegliarono nel pieno della notte nella sua prigione di Olmutz: erano venuti a prenderlo per consegnarlo al suo «piccolo padre» Nicola I. Una vettura accuratamente chiusa lo condusse alla stazione e di là un vagone ben piombato lo portò verso la frontiera. Pare che si rallegrasse come un bambino alla vista delle uniformi russe. L'ufficiale austriaco reclamò all'ufficiale dello Zar la restituzione della catena fornita dall'Austria. Bakunin in cambio fu caricato di catene russe che gli parvero più leggere. Incarcerato di nuovo in una vettura ermeticamente chiusa, era giunto il momento di essere condotto a Pietroburgo, nelle celle della fortezza di Pietro e Paolo.
 
VI
 
Dal maggio 1851 al marzo 1854, Bakunin restò nella fortezza di Pietro e Paolo, poi fu trasferito alla Schlüsselburg, dove rimase imprigionato fino al 1857. In tutto sei anni di cella. Per due mesi non ci si occupò di lui, poi il conte Orloff, colonnello di gendarmeria, venne a dirgli in nome dello Zar: «L'imperatore mi manda da voi e m'incarica di ripetervi le
seguenti parole: “Ditegli di scrivermi come un figlio spirituale scriverebbe al suo padre dell'anima”. Volete scrivere?». Bakunin rifletté: davanti ad un tribunale, durante un processo, sarebbe stato costretto di rimanere fino in fondo fedele al suo ruolo, ma tra quattro mura, alla mercé dell'orso, gli era permesso transigere sulla forma. Domandò quindi lo spazio di un mese, alla fine del quale consegnò la sua Confessione.
Questa era stata appena pubblicata quando io mi trovai a Mosca, nel 1921. Vera Figner, la mia amica eternamente giovane e che ha passato anch'essa ventidue anni della sua vita alla Schlüsselburg, me ne diede un esemplare, scuotendo tristemente la testa per il modo in cui Bakunin presenta la sua vita ed i suoi atti, e per il tono di queste pagine, degradante alla prima impressione. Non avevo allora il tempo di studiare la Confessione, ma qualche giorno dopo mi trovai da Radek, che vedeva con tutt'altro occhio rispetto a Vera Figner il testo di Bakunin. Egli mi disse in sostanza: 
«Bakunin era in prigione; voleva naturalmente uscirne ed è evidente che egli aveva il diritto di adottare lo stile più adatto a questo scopo». Più tardi, leggendo infine la Confessione, ho provato anch'io un senso di scoraggiamento, perché mi sono sentito un po' disorientato, per lo meno dal punto di vista puramente sentimentale. Ma ricordandomi subito che i sentimenti non costituiscono tutte le nostre facoltà e che noi disponiamo anche della ragione, ho incominciato a riflettere sulla Confessione, a ciò che più ne avevano scritto Nettlau, Polonsky e Saschin […] Nella sua Confessione allo Zar, Bakunin si pente di tutte le sue idee e di tutti i suoi atti rivoluzionari e ne chiede perdono. Ci furono delle persone che presero sul serio il pentimento di Bakunin. Esse non hanno riflettuto che l'uso di questa finzione costituiva per lui la condizione sine qua non di ottenere dallo Zar Nicola I ciò che il prigioniero desiderava, cioè la sua scarcerazione. Che questo pentimento abbia durato giusto il tempo necessario per ottenere questa liberazione, è dimostrato da tutta la vita ulteriore di Bakunin. […] Tutta la vita posteriore di Bakunin ha dimostrato che egli non aveva dimenticato le sue idee rivoluzionarie. Dopo la sua uscita di prigione, ed ancor più dopo la sua fuga dalla Siberia, egli ha dimostrato che non era diventato un peccatore pentito, come si era sforzato di farlo credere a Nicola e ad Alessandro. I numerosi anni che gli sono restati da vivere dopo la sua fuga, egli li ha, al contrario, unicamente ed esclusivamente consacrati al servizio delle sue idee rivoluzionarie.
La Confessione, d'altra parte, non gli servì a niente. Lo Zar Nicola I la lesse e vi scrisse a margine: «Non vedo per lui altra via che la deportazione in Siberia». Era il 19 febbraio 1852. Nonostante questa sentenza, lo Zar lasciò Bakunin in prigione. Nicola I morì nel 1855 e gli succedette Alessandro II. Bakunin scrisse ad Alessandro II la lettera riprodotta dopo la Confessione. Psicologicamente questa lettera deve essere interpretata come se fosse la stessa Confessione. Non cercheremo di sapere in quale misura essa ha potuto influire su Alessandro. Non sapremmo dire ora con certezza in quale misura questa lettera e gli interventi della famiglia abbiano aperto a Bakunin le porte della prigione e determinato la sua deportazione in Siberia. Rimane un fatto: il 14 febbraio 1857 Bakunin viene inviato in Siberia.
 
VII
 
Bakunin restò in Siberia dal 1857 al 1861. Nel 1861 fuggì attraverso il Giappone, San Francisco e New York ed il 28 dicembre dello stesso anno arrivò dal suo vecchio amico Alexandre Herzen, a Londra.
Da allora ricomincia la febbrile attività rivoluzionaria di Bakunin. Collabora alla celebre Cloche di Herzen, orienta a sinistra il foglio, lo fa passare dalla semplice propaganda all'azione, riunisce attorno a lui un circolo di polacchi, di cechi e di serbi, discute, predica, comanda, redige, prende decisioni e organizza tutta la giornata e quasi tutta la notte. Durante le sue rare ore di riposo, scrive delle lettere per Semipalatinsk ed Arad, Costantinopoli e Belgrado, per la Bessarabia, la Moldavia e la Belokriniza. È a quell'epoca che scrisse l'opuscolo intitolato Ai miei amici russi e polacchi, una specie di riedizione del suo vecchio discorso di Parigi. Egli vi annuncia la volontà di consacrare il resto della sua vita a lottare per la libertà del russi, dei polacchi e di tutte le altre nazioni slave. Nel 1863, andò in Svezia con l'intenzione di raggiungere in seguito la Polonia e di partecipare all'insurrezione polacca.
Dopo l'insuccesso di quest'ultima Bakunin andò a stabilirsi in Italia, dove dispiegò la sua attività dal 1864 al 18ó7. Vi riunì gli uomini più progrediti nel quadro della Fraternità Internazionale. Quest'associazione fu fondata nello stesso anno dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, di cui essa ne fu l'anticipazione in Italia ed in Spagna. Si può leggere il suo programma nell'edizione tedesca delle opere di Bakunin. È il programma di una rivoluzione che è nello stesso tempo politica ed economica, diretta da un'organizzazione internazionale segreta che ha come scopo supremo la libertà ed esige per raggiungerlo la subordinazione assoluta dell'individuo all'organismo direttivo.
Nel 1867 e nel 1868, Bakunin ed i suoi amici partecipano al Congresso della Pace che ha luogo a Ginevra ed a Berna, con l'intenzione di allargare la loro influenza a degli ambienti più vasti e essi fondano, nel 1866, l'Alleanza della Democrazia sociale, organizzazione antistatale e antireligiosa, destinata non a combattere ma a completare l'Internazionale operaia, alla quale il lavoro particolarmente economico restava attribuito, mentre ci si riservava di accordare una maggiore attenzione ai problemi di ordine culturale, senza trascurare tuttavia le questioni economiche.
Nel luglio 1868. Bakunin aderì ugualmente all'Associazione Internazionale dei Lavoratori; trasportò il suo domicilio a Ginevra e diventò, nel giugno del 1869, redattore dell'Egalité, organo degli internazionalisti romandi. I suoi articoli di quell'epoca avrebbero ben potuto figurare in un giornale sindacalista del 1913 quale La Bataille syndacaliste di Parigi.
Il conflitto con Marx non si fece attendere. Chiunque immagini che in questa lotta Marx abbia definitivamente vinto Bakunin ha una mentalità superficiale. Nell'anno 2000, o anche prima, la lotta tra Marx e Bakunin scoppierà nuovamente.
La vittoria di Marx su Bakunin non ci fu neppure nel 1872, quando il primo al congresso dell'Aia fece escludere il secondo, lanciando contro di lui l'accusa calunniosa che «Bakunin (si era) servito di manovre fraudolente per appropriarsi tutta o una parte della ricchezza d'altri, ciò che costituiva una truffa». Anche dopo il congresso, le idee di Bakunin continuarono a vivere, meglio ancora, in Spagna ed in Italia hanno durato delle decine di anni e non sono scomparse che là dove l'evoluzione economica ha fatto scomparire l'individualità e, quindi, la volontà di conservare quest'ultima. Ma quando l'abbondanza di viveri ed altre ragioni faranno di nuovo ricomparire le individualità, la lotta riprenderà tra il principio del perinde ac cadaver e la volontà di essere se stesso e di essere libero. Questo momento verrà e la nostra epoca medioevale — perché non è questo un altro Medio Evo? — dovrà lasciare il posto ad una nuova cultura.
È così spiegata la vera natura del conflitto che ha opposto Marx a Bakunin, i marxisti ed i bakuninisti della prima Internazionale. Marx rappresentava quello strato del proletariato che provava il bisogno di abbandonare la cura del pensare alla propria sorte a qualche tutore benevole e paterno, sottomettendosi a lui come lo schiavo al padrone; Bakunin, invece, rappresentava il proletariato che ha la volontà di pensare e di dirigere da sé i propri affari.
Non c'è che un'apparente contraddizione nel fatto che Bakunin, venendo da un paese retrogrado rappresenti proprio gli operai libertari. Bakunin veniva certamente da un paese economicamente retrogrado, ma nello stesso tempo l'addomesticamento capitalista non aveva ancora divorato completamente l'uomo, da un paese in cui l'uomo era ancora più vicino al pellerossa che all'automa razionalizzato — a Don Chisciotte che a Ford e Stalin.
Gli anni 1870-74 furono pieni della lotta ingaggiata contro Marx, ma fu anche il periodo in cui le idee anarchiche di Bakunin trovarono la loro formula definitiva.
Questi stessi anni sono ugualmente quelli della sua azione in Russia e della redazione del testo conosciuto con il nome di Catechismo rivoluzionario, uno dei documenti più interessanti per una certa categoria di rivoluzionari.
Significativo è il punto di vista di Bakunin durante la guerra franco-tedesca. Fin dal suo inizio, la soluzione di Bakunin fu di trasformare questa guerra in guerra civile. Dopo la disfatta di Sedan, giudicò che il momento fosse propizio per l'insurrezione armata e per la guerra rivoluzionaria contro i prussiani, ed è in questo senso che egli fece della propaganda e dell'agitazione.
Ma non si accontentò solo di questo: si recò a Lione e partecipò ad un tentativo di sommossa che falli e fu obbligato a fuggire e deluso raggiunse la Svizzera. Nel 1874, due anni prima della sua morte, benché fisicamente molto malato, partecipò ancora ai preparativi di un'insurrezione a Bologna.
 
VIII
 
La vita di Bakunin è così straordinariamente ricca di tratti pittoreschi, è una vita così viva che molti non hanno fatto attenzione ai pensieri germogliati, nel corso di questa stessa vita, nel suo cervello.
Ad ogni crescita fisica, troviamo in lui anche una crescita ideologica, una fase durante la quale ciò che egli ha vissuto si cristallizza in aforismi oppure si organizza in frammenti di sistema.
Gli anni che vanno dal 1868 al 1872 sono particolarmente ricchi di pensieri di questo genere — un genere sconosciuto alla generazione di oggi. Nel corso di questi anni, tutto ciò che Bakunin ha vissuto, tutta la sua esperienza politica si condensa in formule. Agli spiriti limitati che stanno dalle due parti della barricata, Bakunin non potrebbe insegnare niente,
perché non si trova in lui quelle macchine intellettuali che afferrano tutti i fatti che si fornisce loro e li trasformano automaticamente in salsicce — cioè in sistemi. Nate dalla vita, le idee di Bakunin procureranno una gioia maggiore ai pochi rari spiriti liberi abbastanza impertinenti da esistere ancora oggi.
Tra le pagine interessanti di Bakunin, bisogna mettervi quelle che egli ha scritto sulla scienza e dei rapporti della scienza con l'uomo. Certi pennaioli hanno fatto di Bakunin una specie di involontario buffone, di un bohemien buono a niente. Forse qualche frase presa dalle sue Considérations philosophiques (Opere, vol. III) mostrerà loro che quello che c'è di bohemien, di disordinato in Bakunin, non è altro che il caos profondamente umano degli istinti in rivolta contro tutte le tradizioni, contro tutte le leggi tiranniche che opprimono l'uomo, povera creatura istintiva, con tutto il peso della storia dell'umanità. Bakunin, uomo di un paese precapitalista, figlio di un'epoca ancora preistorica, si rivolta contro una certa forma economica della società, contro una forma inadeguata alla sua natura; si rivolta contro la razionalizzazione di tutti e di ciascuno in seno alla società umana, contro l'egemonia del principio del minimo sforzo, contro la schiavitù dell'uomo sottomesso a Dio e allo Stato, al dogma e alla teoria. Si rivolta contro tutti i padroni, qualunque siano i pretesti da essi invocati, qualunque siano i paraventi dietro i quali cercano di nascondere la loro volontà di potenza. Ed è così che si rivolta ugualmente contro la tirannia della scienza sull'uomo.
«La scienza è la bussola della vita, ma non è la vita. Solo la vita crea le cose e gli esseri viventi. La scienza non crea niente. Essa constata e riconosce soltanto le creazioni della vita. E tutte le volte che gli scienziati, uscendo dal loro mondo astratto, si immischiano di creazioni viventi del mondo reale, tutto quello che propongono o creano è povero, ridicolmente astratto, privo di sangue e di vita, nato-morto, simile all'omunculus creato da Wagner. Ne risulta che la scienza ha per missione unica di illuminare la vita, non di governarla. Si può dire, degli uomini di scienza, come tali, quello che ho detto dei teologi e dei metafisici: non hanno né sensi, né cuore per gli esseri-individui e vivi. Non possono interessarsi che delle generalità.
La scienza è la perpetua immolazione, della vita fuggitiva, passeggera ma reale, sull'altare delle eterne astrazioni.
Poiché la sua stessa natura l'obbliga di ignorare Pietro e Giacomo, non bisogna mai permetterle, né ad essa né a qualcuno in suo nome, di governare Pietro e Giacomo.
Ciò che io predico è, quindi, sotto certi aspetti, la ribellione della vita contro la scienza, o meglio contro il governo della scienza. Gli individui sono inafferrabili, per il pensiero, per la riflessione, ed anche per la parola umana che non è capace di esprimere che delle astrazioni. Quindi la stessa scienza sociale, la scienza dell'avvenire, continuerà necessariamente ad ignorarli. Ciò che abbiamo diritto di esigere da essa è che ci indichi, con mano ferma e fedele, le cause generali delle sofferenze individuali.
Gli scienziati, sempre presuntuosi, sempre vanitosi e sempre impotenti, vorrebbero immischiarsi di tutto, e tutte le sorgenti della vita si seccherebbero sotto il soffio astratto dello scienziato.
La vita è un'incessante transizione dall'individuale all'astratto e dall'astratto all'individuale. È questo secondo momento che manca alla scienza: una volta nell'astratto, essa non ne può più uscire».
Vicino all'uomo colto, il politico non ha mai goduto una fama molto brillante, certamente perché il secondo non tiene conto delle sfumature, né dell'individualizzazione, qualità la cui prima condizione è precisamente la cultura.
Le osservazioni di Bakunin sulla scienza permettono di vedere che egli, con l'individuo, fa intervenire in politica un fattore nettamente indisciplinato e selvaggio. Ora, questo tratto potrebbe giustamente condurre l'uomo di cultura a gustare la politica di Bakunin.
Nello stesso tempo e per la stessa ragione, Bakunin non potrebbe essere confuso con la folla di quei politici e di quegli uomini moderni in generale che sono o dei sadici del comando o dei masochisti dell'ubbidienza. Bakunin, d'altra parte e in un altro senso, non è molto più moderno. La nostra epoca è l'epoca del sistema Taylor, della ultra-razionalizzazione, non soltanto dell'economia e dei movimenti meccanici dell'uomo, ma anche di tutta la personalità umana. L'ideale consiste nell'organizzare l'uomo conformemente al principio del minimo sforzo, di farne una creatura che «rende» sia dal punto di vista della proprietà privata, che dev'essere aumentata, sia dal punto di vista della proprietà collettiva e dell'accrescimento di quest'ultima. Ora, per l'individuo non cambia niente che lo si razionalizzi nel senso di Ford oppure in quello di Stalin.
Tutto Bakunin, il contenuto stesso dei suoi sogni, sono il contrario della razionalizzazione. Bakunin è caos, il poeta del caos. Per Bakunin, i sogni dell'uomo hanno più importanza che tutte le realtà del mondo esteriore. Bakunin è poeta — è il caos. Perché in fondo non è soltanto l'avversario dell'ordine feudale e borghese: egli è il nemico dell'ordine.
Bakunin non è moderno. Non è un mercante ed invece oggi gli individui e le collettività sono dei mercanti. Ed è anche questa la ragione per cui Bakunin è interamente incompreso dai più.
Egli potrà ridiventare comprensibile solo in un'epoca che ne abbia il tempo. Ma, oggigiorno, né il capitalista né il bolscevico ne hanno il tempo. Essi si comprendono meglio reciprocamente, di quanto comprendano Bakunin. Si rassomigliano molto più nella loro costituzione psicologica, nelle loro virtù nei loro vizi, di quanto assomiglino a Bakunin.
È ciò che fa l'attrattiva di Bakunin. L'attrattiva della sua vita e delle sue idee.
In un libro sulla prima Internazionale, Gustav Jaeckh, uno scrittorello della social-democrazia di prima della guerra, ha definito Bakunin «eine politische Verbrechernatur» (una natura di criminale politico). Se un demolitore del Diritto è un criminale politico, il signor Jaeckh ha ragione. Bakunin vuole spezzare tutte le tavole del Diritto che restringono la natura umana.
Bakunin, mettendo l'uomo al di sopra del Diritto, è veramente, per la sua natura, un criminale, un demolitore, come del resto tutti i grandi uomini.
E quando Jaeckh trova ciò spaventoso, quest'autore mostra semplicemente che ai suoi simili manca qualche cosa perché possano comprendere la grandezza umana.
Bakunin esige la soppressione di tutto ciò che si oppone, nel «diritto», al fecondo divenire dell'uomo. Bakunin è con ciò che è nuovo, con ciò che diviene, con l'avvenire, contro il passato, il presente, il tradizionale. È con la fecondità del caos contro ciò che è condannato a morire.
Bakunin è una natura prometeica; vicino a lui Kropotkin è una specie di George Sand e Marx un poliziotto rosso, un funzionario della Ghepeu.
Bakunin è un distruttore del Diritto. L'idolatra del diritto proclama: «Vivat justitia pereat mundus», mentre Bakunin grida ciò che Rabelais aveva già scritto: «Fa ciò che tu vorrai».
Coloro che amano comandare, sanno benissimo che il miglior modo di stabilire la loro potenza attuale e futura è di chiamare individualista tutti coloro che predicano agli uomini la libertà e l'insubordinazione. Così, tutti gli autoritari hanno trattato Bakunin di individualista, per poterlo far apparire come un essere antisociale, agli occhi della brava gente inoffensiva, ma qualche poco limitata. Eppure Bakunin è tutt'altro che un individualista. Bakunin è l'essere sociale per eccellenza. È l'uomo che non può vivere senza amicizie, senza compagni, senza il più caldo ambiente fraterno.
Non si potrebbe, oggi, contare i «rivoluzionari» che possono rivendicare per sé tali qualità perché essi sono capaci di tradire un amico in nome di una «idea». Anzi ne sono fieri. Essi chiamano questo subordinarsi sinceramente alla collettività, fondersi in essa, essere socialista o comunista.
Dalla sua più tenera infanzia, Bakunin provò un immenso bisogno di fraternità, di comunione intima con gli uomini. Questa comunione, per lui, era una condizione necessaria della vita, era quasi la sua stessa vita. Se questa intima comunione, questo amore reciproco arrivasse a prevalere, niente, egli diceva, sarebbe impossibile.
Mentre si potrebbe benissimo figurarsi Marx mentre osserva gli uomini dall'alto di una torre e indica loro la strada per radio, non si potrebbe immaginare Bakunin che in mezzo ad una truppa di compagni. Se ci fu mai uomo «zoonpolitikon», incontestabilmente Bakunin lo fu.
 
IX
 
Quando nella primavera del 1873, il rivoluzionario Debagory Mokrievitch venne a Locarno per trovare Bakunin, lo trovò coricato e che respirava con fatica, con il viso gonfio e delle borse sotto gli occhi. Alzandosi Bakunin tossì terribilmente, non potendo respirare, il suo volto gonfio si fece blu. Era già in uno stato molto avanzato di infiammazione renale, cronica, complicata d'ipertrofia del cuore e d'idropisia. I nemici esteriori non avevano potuto vincere questo gigante, né spezzare in lui la speranza ed il coraggio combattivo. Ciò che tutti i suoi avversari insieme non erano riusciti a fare, la malattia poté farlo: il minor funzionamento dei reni portò l'intossicazione del sangue e di conseguenza del cervello. Il corpo rifiutò al cervello ogni sforzo superfluo. Certo Bakunin non scese fino al livello giudicato medio dai suoi contemporanei. Se si fosse trattato di uno scienziato di gabinetto, di un ministro, di un teologo od anche di un principe della Chiesa, questo cervello avrebbe ancora posseduto un valore superiore alla media. Ma non bastava più, in un tempo in cui sarebbe stato necessario un nuovo rovesciamento di tutti i valori, per adottare un nuovo atteggiamento davanti al mondo. Perché un atteggiamento nuovo, una metamorfosi dello spirito erano diventati necessari: la disfatta sanguinosa del proletariato parigino nel 1871, aveva disperso il riflusso della marea rivoluzionaria, mentre la reazione sorgente dalla guerra civile con la coscienza della sua vittoria e una nuova era di prosperità capitalista sembravano promettere ai nuovi strati proletari la loro ascensione verso l'aristocrazia del lavoro.
Bakunin comprese che le sue forze non bastavano più, in quella situazione nuova. Si considerava come un veterano della rivoluzione: il suo sogno sarebbe stato di morire nel turbine di una grande sommossa.
Si può dire che nel 1873 l'attività politica di Bakunin era giunta alla fine.
Il resto dei suoi giorni, fu gravato dai dispiaceri e dalle preoccupazioni. Egli prese parte ancora un'ultima volta, nel 1874, ai preparativi di un tentativo di insurrezione soffocata prima di nascere a Bologna. E non era più spinto, come in altri tempi, dall'amore gioioso della lotta: non potendo più vivere, cercava di morire su una barricata. Non poté realizzare quel desiderio. Morì per una crisi di uremia, il primo luglio 1876 a Berna.
 
 
[Témoins, III, n. 10-11, autunno-inverno 1955-56]