Brulotti

Senza riguardi

 
Quando ci si trova in mezzo al nulla e si è allo stremo delle forze, privi di ogni mezzo e lontani da ogni riparo, non si può avere timore della tempesta che si avvicina. Anche quando si profila spaventosa davanti ai nostri occhi, con i suoi fulmini micidiali, con i suoi vortici che sollevano ogni cosa scaraventandola lontano, anche quando si è consapevoli che si potrebbe restarne vittime, essa rimane la sola possibilità di scongiurare una sorte già segnata altrimenti tragica. Solo la tempesta può mutare radicalmente l'orizzonte che abbiamo di fronte, solo essa può travolgere ogni cosa rimettendola in discussione. Dopo il suo passaggio, tutto ridiventa possibile. Vana illusione o ipotesi concreta? Comunque sia, alla tempesta si può solo andare incontro. Con un brivido di angoscia e una speranza nel cuore.
Tale è apparsa in passato e appare ancora a molti la guerra civile. Con ciò non si intende ricorrere a quel travisamento retorico utilizzato da storici, docenti o giornalisti per esorcizzare la minaccia sovversiva. Quando devono occuparsi degli avvenimenti in Spagna nel 1936-37 o in Italia dopo il 1945, ad esempio, costoro amano parlare di guerra civile. Come se quei conflitti fossero il frutto di odi arcaici, di privati rancori, di irragionevoli istinti, e non lo scontro fra visioni del mondo e della vita irriducibilmente contrapposte. Come se si fosse trattato di un regolamento di conti personali, e non di una battaglia di liberazione. Quando la canea intellettuale parla di guerra civile, quasi sempre è per meglio tacere la rivoluzione sociale.
Ciò detto, bisogna riconoscere che non tutti hanno sostenuto le ragioni della guerra civile al solo fine di scongiurare la guerra sociale. C'è anche chi l'ha brandita contro le ipocrisie delle menzogne collettive, della propaganda di partito, della Causa superiore. E chi ha sostenuto la guerra civile come negazione della guerra statale. È un pensiero che da Chateaubriand (secondo cui «per quanto si dica, le guerre civili sono meno ingiuste, meno rivoltanti, e più naturali, delle guerre estere: gli avversari sanno perché hanno la spada in mano... sono oltraggi individuali, avversioni confessate e riconosciute ad averli spinti a battersi») arriva fino ai surrealisti (i quali dopo il maggio 68 ribadivano che «la guerra civile è la sola guerra giusta poiché si sa il motivo per cui si uccide il proprio nemico»).
Ma guerra civile è un termine che evoca singolari tenzoni soltanto a visconti o artisti d'avanguardia, giacché di fatto richiama linciaggi, stupri e massacri. Impossibile nascondere che quando si parla di guerra civile si intende tutt'altro: l'esplosione cieca e incontrollata della furia umana. Quando queste energie a lungo represse, soffocate, rimosse, trovano modo di sprigionarsi, è difficile contenerle, misurarle, indirizzarle. Si scatenano senza riguardi per nessuno. Da questo punto di vista, la guerra civile appare subito come la negazione di qualsiasi slancio etico o ideale. Alle soglie del terzo millennio poi, essa assume tratti particolarmente spaventosi — perché spaventosi sono i sentimenti alimentati da decenni nel cuore degli esseri umani e ancor più spaventosi sono i mezzi che oggi essi hanno a disposizione. 
Se si possiede questa consapevolezza, errata o esatta che sia, non è facile abbandonarsi all'apologia della guerra civile. Coeurderoy, poeta solitario, poteva sì decantare la discesa dei Cosacchi senza porsi troppi problemi, ma già Bakunin il cospiratore ebbe non poche difficoltà quando si trovò a discutere con i suoi compagni sulla necessità di dare sfogo alla cattive passioni: «Ma questa sarà la guerra civile, direte voi? Non essendo la proprietà più garantita da nessuna autorità superiore, e non essendo più difesa se non dalla sola forza del proprietario, ognuno si vorrà impossessare dei beni altrui, i più forti saccheggeranno i più deboli. Ma chi impedirà ai più deboli di associarsi fra loro per rapinare a loro volta i più forti? Sì, sarà la guerra civile. Ma perché stigmatizzate, perché temete la guerra civile? Vi domando, storia alla mano, dove son sorti i grandi pensieri, i grandi caratteri e le grandi nazioni? Dalla guerra civile o dall'ordine pubblico imposto da una qualunque autorità tutelare?... Le masse compatte sono mandrie umane, poco adatte allo sviluppo e alla propaganda delle idee. La guerra civile, al contrario, dividendo questa massa in differenti partiti, crea le idee, creando interessi e aspirazioni differenti. Alle vostre campagne non mancano l'anima, gli istinti umani, ciò che a loro manca è lo spirito. Ebbene, la guerra civile darà questo spirito».
Il ragionamento di Bakunin è semplice e ineccepibile: solo il disordine è fertile, l'ordine è una camicia di forza che soffoca ogni movimento. Ma nell'Ottocento la differenza fra sfruttatori e sfruttati, fra oppressori ed oppressi, era in fondo chiara. Se non illuminava le teste, per lo meno incideva le carni. Già le jacquerie, pur nella loro totale assenza di progettualità, prendevano di mira soprattutto i nobili. Per quanto ignoranti, i contadini impugnavano le falci per andare all'assalto dei castelli. Erano zotici contro signori. Bisognava mettere un freno alla rabbia dei primi, impedire loro di scannare i secondi? E perché mai? — si chiedeva giustamente l'anarchico russo.
Ma oggi? Oggi — con negli occhi le immagini dei film, nel cervello gli slogan della propaganda, nel cuore le merci delle vetrine — gli esseri umani privi di freni inibitori sarebbero più inclini a procurarsi armi da fuoco al fine di fare strage di vicini di casa. Soprattutto se il colore della pelle di questi vicini di casa non è identico alla propria. Nel terzo millennio la via dell'eccesso, più che condurre al palazzo della saggezza, sembra portare dritta al tugurio dell'infamia. La storia recente quanto la cronaca odierna hanno dimostrato come la guerra civile si infiammi meglio laddove non esistono né anime né idee, ma solo bassi istinti messi al servizio di beceri interessi. L'uomo-massa rimane tale anche quando si ritrova da solo.
Ecco qual è il nodo da sciogliere, quello a cui siamo tutti impiccati. Da un lato rimane inimmaginabile sperare di poter trionfare sulla menzogna del Bene Pubblico attraverso la verità del Bene Comune. La virtù della santità non fulminerà proprio nessuno. Dall'altro lato, però, le potenzialità odierne della negatività non sembrano certo giocare in nostro favore.
È indubbio che ai giorni nostri parlare di guerra civile risulti assai più comprensibile che sostenere la guerra sociale. La prima, scatenamento del sentimento in mezzo alla realtà, avanza sotto gli occhi di tutti. La seconda, destreggiandosi fra una coscienza tutta da maturare e un'utopia tutta da immaginare, si perde fra la derisione di tutti. Deve essere questa la ragione per cui da qualche anno proliferano gli apprendisti stregoni che incitano alla guerra civile (o alla guerra santa) con un sorriso tronfio sulla labbra. Poiché fra le loro conoscenze figurano anche molte formule incantatrici, sono certi di poter controllare e dirigere la potenza scatenata. Quando leggiamo le loro esercitazioni metafisiche sul tema, ci vengono in mente le parole che Orwell dedicò al suo connazionale Auden: «Quasi tutti i principali scrittori degli anni Trenta provenivano dalla mite ed emancipata classe media ed erano troppo giovani per avere effettivi ricordi della Grande Guerra. Per gente come loro le purghe, la polizia segreta, le esecuzioni sommarie, la carcerazione senza processo, eccetera sono cose troppo remote per essere spaventose. Se riescono a mandar giù il totalitarismo è perché non hanno sperimentato nient'altro che il liberalismo... Un amoralismo come quello di Auden è possibile solo se si è il tipo di persona che si trova sempre in un altro posto quando si preme il grilletto. In larga misura il pensiero di sinistra è quasi un giocare col fuoco da parte di gente che non sa neppure che il fuoco scotta». Forse troppo giovani per conoscere i colori di Sabra e Shatila, troppo sbadati per ricordare i boschi di Srebrenica, troppo lontani per guardare il cielo di Homs o Palmira, gli apprendisti stregoni brindano alla guerra civile dalle barricate del cittadinismo.
Noi no. Siamo consapevoli che le condizioni della guerra in corso non sono a disposizione su richiesta, per libera scelta, a seconda delle preferenze. Ma poiché varie parti in causa stanno combattendo la propria guerra — chi ribattezzandola guerra al terrorismo, chi guerra santa — perché mai dovremmo rinunciare alla nostra guerra, alle sue ragioni come alle sue passioni? Certo, l'ipotesi di una guerra di tutti contro tutti è assai più concreta di quella di una guerra fra poveri e ricchi, sfruttati e sfruttatori, o come dir si voglia. Ma se la prima è la realtà che ci sta inghiottendo, la seconda rimane il sogno che vogliamo realizzare. Non abbiamo bisogno di travestire retoricamente quanto ci circonda per poterlo meglio accettare, non abbiamo bisogno di teorizzare quanto già fa sentire il peso della sua presenza. Preferiamo esprimere ciò che ci manca, ciò di cui avvertiamo l'assenza, ciò che desideriamo realizzare. Perché «la morte che danza senza avere sul dorso le ali di un'idea» non è solo volgare, è anche triste, cupa, umiliante. E qualora vi sia un'idea che la infiamma, se non è la nostra, sarà sempre quella di qualcun altro — dei nostri padroni. Sarà sempre la ragione di uno Stato, o il dogma di un Dio. Ecco perché il solo modo per cercare di evitare che la guerra si alimenti nei rancori personali come nei codici istituzionali, è quello di offrirle una fonte radicalmente diversa: un'idea altra per cui vivere e morire. In mancanza di ciò, ogni conflitto cruento assumerà inevitabilmente i tratti della guerra per il potere (politico, economico, religioso) e sprofonderà nella ferocia più cieca. 
Non sappiamo cosa farcene della pace. La sola pace che conosciamo è quella dei cimiteri e dei supermercati. La guerra è in corso, chiunque se n'è ormai accorto. Ma se non vogliamo né barricarci in casa né arruolarci al servizio altrui (pubblico esercito o milizia privata che sia), cos’altro ci resta da fare? Un'unica possibilità: scegliere noi dove scavare le trincee e contro chi puntare le nostre armi. Ed iniziare ad aprire il fuoco.
 
[20/2/18]