Contropelo

Distruggere la Civiltà, distruggere la Natura

 

(Tesi sulla decivilizzazione e sul diventare pericolosi)

Wolfi Landstreicher
 
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Uno dei pregiudizi più nocivi e diffusi dei nostri tempi è la fede nella Natura in quanto entità unificata separata, persino opposta, dall’Umanità (anch’essa percepita come entità unificata). Nel contesto di questa dottrina, quel che è specificatamente Umano — generato dall’attività umana consapevole — viene chiamato Artificiale in contrapposizione al Naturale.
 
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Il concetto di Natura (secondo cui tutti gli esseri, le cose, i rapporti e le attività non creati dagli esseri umani costituiscono un insieme unificato che si pone in contrasto con tutte le cose, gli esseri, i rapporti e le attività consapevolmente create dagli esseri umani) è un prodotto dell’attività umana cosciente, quindi artificiale.
 
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Etimologicamente, «natura» si riferisce semplicemente a ciò che è nato dentro qualcosa, a ciò che è inerente ad essa; «artificio» si riferisce a qualcosa creato grazie ad abilità consapevolmente applicate. In questo senso, non esiste nessuna contrapposizione necessaria («naturale», se preferite) fra «natura» e «artificio», dato che quel che viene consapevolmente e abilmente creato può essere realizzato solo da esseri naturali (perlomeno finora) con una innata capacità di imparare ad agire consapevolmente e con perizia.
Ciò non significa che tutte le creazioni, anche le più «artificiali», siano desiderabili. Così come esistono alcune realtà «naturali» che possono causare danno, allo stesso modo ci sono molte realtà «artificiali» che risultano perniciose. Di più, mentre le nocività «naturali» sono solitamente eventi momentanei che possiamo sopportare e superare, le creazioni artificiali che ci danneggiano sono spesso concepite per essere permanenti e addirittura espansive. Quindi, il solo modo per mettere fine alla loro nocività è di smantellarle e distruggerle. Ad esempio, le istituzioni, le strutture su larga scala e i sistemi tecnologici, sono tutti creazioni dell’attività umana cosciente. Costituiscono una rete che definisce e limita le possibilità della nostra esistenza. Sono per noi nocive socialmente e psicologicamente, attraverso quelle limitazioni che mutilano l’immaginazione e la capacità creativa. Sono nocive fisicamente perché provocano o accrescono disastri, malattie, povertà, inquinamento, ecc. Superarle non richiede la sopportazione, ma caso mai un’attività umana consapevole volta alla distruzione...
Inoltre, ci sono aspetti della realtà in cui viviamo che non sono né «naturali» o «artificiali», e neppure innati o consapevolmente creati. Mi riferisco al vasto schieramento di circostanze storiche, sociali e culturali che si sviluppa fuori dal continuo e fluido intrecciarsi di rapporti umani al loro interno e con esseri non umani e cose. Sebbene si sviluppino dall’attività umana, non sono creazioni umane, ma riflettono piuttosto l’incontro della possibilità e della necessità vivendo nel mondo. Per questa ragione, spesso riflettono l’assurdità del tentativo di razionalizzare in senso istituzionale il mondo. Ma spesso forniscono anche le opportunità per sfidare tale razionalizzazione. Quindi, al fine di attaccare l’ordine dominante civilizzato, abbiamo bisogno di guardare oltre la dicotomia «naturale/artificiale» ed esplorare questo regno di contingenza storica, sociale e culturale allo scopo di cogliere ciò che possiamo usare come arma per la nostra rivolta.
 
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La concezione della Natura in quanto entità unificata è la base per due ideologie apparentemente contraddittorie, di fatto complementari, che servono l’ordine dominante rafforzando il controllo sulla nostra vita: l’ideologia morale che attribuisce il bene al Naturale e il male all’Innaturale, e l’ideologia metafisica dell’alienazione innata che considera la Natura una forza ostile all’Umanità e al suo sviluppo, una forza da conquistare e mettere sotto controllo.
L’ideologia morale viene applicata più estesamente in ambito sessuale, ma è stata usata anche contro la sperimentazione magica ed alchemica così come contro attività considerate una sfida all’ordine di dio (hybris). Nella nostra epoca viene usata contro una varietà di atti sessuali così come contro l’aborto. Le minoranze sessuali interessate all’integrazione si sforzano di dimostrare la naturalità della propria sessualità (ad esempio, sostenendo che è genetica) in opposizione all’innaturalità di certe altre forme di sessualità (la pedofilia — la cui definizione è stata estesa di recente per significare l’attrazione sessuale di un adulto per chiunque sia sotto l’età legale del consenso — e in misura minore la bestialità sono i principali esempi di desiderio “innaturale”). Ma che sia usata contro l’hybris di presunte streghe, di alchimisti o coraggiosi infedeli, o contro specifici atti sessuali, questa Natura morale è solo uno strumento per tenere a freno la passione e il desiderio, quindi per tenerci sotto controllo.
L’ideologia che considera la Natura una forza ostile che l’Umanità deve conquistare al fine di venire incontro ai propri bisogni è presente in una certa misura all’interno di ogni civiltà, ma sembra essere diventata la concezione dominante all’interno della civiltà occidentale negli ultimi cinque-seicento anni. La sua ascesa al potere corrisponde con la crescita del capitalismo e gli inizi dell’industrialismo. Era necessario cominciare ad incanalare gli sforzi creativi umani in un’attività che avrebbe sfruttato al massimo tutte le potenziali risorse economiche — naturali e umane — e questa ideologia fornisce una giustificazione allo sviluppo utilitarista: usa la malattia, gli uragani, le tempeste, la siccità, i terremoti e altre cosiddette catastrofi naturali per sostenere questa prospettiva e giustificare gli interventi tecnologici più invasivi e di sorveglianza. Più dell’ideologia morale, questa prospettiva è la moderna giustificazione del dominio e del controllo.
 
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La civiltà è una rete di istituzioni che materialmente e praticamente ci aliena dalla nostra vita e dalla nostra creatività e, allo stesso tempo, dalla miriade di rapporti con l’infinita varietà di esseri e cose che costituiscono il mondo in cui viviamo. Questa alienazione è ciò che trasforma la varietà di esseri e cose nella unità della Natura, unità che riflette l’unità imposta della civiltà.
 
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Il superamento dell’alienazione potrebbe quindi essere visto come un processo di decivilizzazione. Ma questo che significa? Non significa ritornare allo stato selvaggio, tornare indietro al primitivo, tornare alla Natura. Tutte queste idee implicherebbero un ritorno a un modo di essere che in realtà è un modo concettuale (il Selvaggio, il Primitivo, il Naturale) e quindi un ideale civilizzato. La decivilizzazione non è un ritorno ad alcunché. Il flusso di rapporti fra individui sempre mutevoli che è l’esistenza al di fuori dalla dicotomia Civiltà/Natura non è mai ripetibile. Perciò la decivilizzazione deve essere intesa ed esplorata senza modelli, senza alcun concetto di ritorno.
 
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Un processo di decivilizzazione sarebbe piuttosto un processo di distruzione e smantellamento. Di istituzioni e strutture materiali e sociali, naturalmente. Ma anche delle strutture ideologiche, delle false unità concettuali (i «fantasmi» di Stirner) che incanalano il pensiero al punto che la maggior parte di noi non si accorge nemmeno delle catene che legano i nostri pensieri. La singolarità della Natura, la singolarità della Vita, la singolarità della Terra sono tutte costruzioni ideologiche civilizzate che ci garantiscono di continuare a vedere i nostri rapporti con il resto del mondo attraverso le lenti dell’alienazione.
 
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Alla luce di ciò, il desiderio di attaccare e distruggere le istituzioni, le strutture e le persone che rafforzano il dominio del regime civilizzato diventa significativo solo quando stiamo sperimentando modi di afferrare la vita in quanto è nostra, e incontriamo gli altri esseri in quanto individui che lottano per creare ciascuno la propria vita — vale a dire quando stiamo attaccando praticamente la struttura ideologica che incanala i nostri pensieri e desideri. Questo non significa rifiutare qualsiasi categorizzazione, ma piuttosto riconoscerne i limiti come strumento specifico. La riduzione in categorie può, ad esempio, aiutarci a distinguere le piante velenose da quelle commestibili. Ma non ci può spiegare la realtà e nemmeno gli aspetti più significativi degli altri esseri: i loro desideri, le loro aspirazioni, i loro sogni...
 
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Riconoscendo e incontrando l’unicità di ciascun essere in ogni istante, troviamo le basi per determinare come portare avanti i desideri che abbiamo, per riconoscere dove la complicità e la reciprocità sono appropriate, dove il conflitto è inevitabile o desiderabile, dove l’incontro appassionato può divampare e dove l’indifferenza acquisisce un senso. Quindi, siamo in grado di capire di cosa abbiamo bisogno per realizzarli, quale posto hanno in questo processo creativo gli altri esseri e le cose e i rapporti che con essi costruiamo.
 
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Nei termini di attacco alla civiltà, ciò significa il rifiuto di ogni sua concezione monolitica, senza perdere di vista la sua natura di rete intricata di istituzioni e strutture interdipendenti. Queste ultime possono esistere solo attraverso l’alienazione degli individui dalla propria vita. Questa alienazione ne è la base. Ragion per cui non possiamo appropriarci di queste istituzioni e strutture, né cercare di afferrarle in quanto tali. Piuttosto devono essere distrutte, rimosse dal nostro cammino.
Ma lo sviluppo della civiltà ha creato molti sottoprodotti di ogni genere: materiali, attrezzi, edifici, spazi di incontro, idee, abilità, ecc. Se vediamo la civiltà in modo superficiale, come un solido monolite, allora possiamo solo lamentarci del nostro bisogno di continuare ad usare alcuni di questi sottoprodotti mentre sogniamo un futuro distante allorché vivremo in un paradiso dove ogni traccia di questo monolite sarà scomparsa.
Se d’altro canto sapremo distinguere quel che è essenziale alla civiltà dai suoi sottoprodotti e avere a che fare con questi ultimi nei termini dei nostri bisogni e desideri (cioè, in maniera decivilizzata), si apriranno nuove possibilità per esplorare come desideriamo vivere.
 
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Questa è la maniera in cui i fuorilegge, le cosiddette «classi pericolose», tendono a incontrare il mondo. Ogni cosa che non sia fissa e inchiodata è là per essere colta ed usata per creare vita. Come anarchici che riconoscono nella civiltà l’istituzionalizzazione dei rapporti di dominio e di sfruttamento, anche noi ci imbatteremo in questi sottoprodotti da usare per attaccare, distruggere e smantellare la civiltà.
 
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Ma l’idea di relazionarsi con ogni essere nella sua unicità, che effetto ha sul bisogno umano di creare con consapevolezza e capacità? Se concepiremo le sempre cangianti miriadi di rapporti che ci ruotano attorno come una Natura monolitica fondamentalmente ostile nei nostri confronti, le tecniche, i metodi e le strutture che svilupperemo avranno lo scopo di conquistare, controllare e dominare questa forza ostile (forse anche di distruggerla). Se, invece, vedremo noi stessi e gli esseri che abbiamo attorno come individui unici in una sempre mutevole interazione gli uni con gli altri, useremo sempre l’abilità e l’artificio, ma non certo per conquistare un monolite. Caso mai li useremo per aprirci la strada attraverso una meravigliosa danza di rapporti — distruggendo le calcificate istituzioni che la ostacolano.
 
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Una pratica di questo genere richiede un’immaginazione vitale e attiva oltre ad una giocosità risoluta.
Per immaginazione intendo la capacità di «vedere oltre» quel che c’è, di vedere le possibilità che sfidano e attaccano la realtà invece di ampliarla. Non parlo di un’adesione a una singola visione utopica — che, alla ricerca di adepti del dovere, tenderebbe a creare mostruosità autoritarie — ma di una propensione ad una continua esplorazione utopica senza una destinazione, senza un obiettivo.
Forse è proprio questo ciò che contraddistingue gli anarchici da altri fuorilegge. L’immaginazione ha mosso la loro concezione del piacere della vita oltre il mero consumo, fino alla creazione festosa. Certamente i modi con cui i fuorilegge hanno spesso storicamente consumato — il dispendio di quanto guadagnavano grazie alla loro intelligenza e audacia in eccessi di feste dissolute e di godimento immediato di lussurie — contrasta il valore capitalista dell’accumulazione, ma equipara ancora il benessere alle cose, riflettendo l’alienazione degli attuali rapporti. L’immaginazione attiva e pratica può mostrarci il vero benessere derivante dai liberi rapporti e da un’attività creativa.
Per giocosità risoluta intendo il rifiuto di compromettersi assumendo un’identità vincolante, il rifiuto di prendere sul serio proprio quelle cose a cui questa società dà importanza, l’insistenza sulla sperimentazione in ogni istante della vita senza preoccuparsi di un futuro che non esiste. Il mondo è pieno di balocchi, di gioco e sfide che possono accrescere l’intensità del vivere. Spesso sono nascosti, sepolti sotto la seriosità istituzionale o le necessità di sopravvivenza imposte dall’ordine dominante. Cogliere in modo insorgente e fuorilegge la vita richiede l’irruzione attraverso queste barriere.
 
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Così, un processo di decivilizzazione, di liberazione dalle costrizioni e dagli obblighi imposti dalla rete di istituzioni che chiamiamo civiltà, non è un ritorno a qualcosa. Non si basa sull’apprendimento di certe capacità pratiche e tecniche, o sull’applicazione di certe misure utilitariste. È piuttosto il rifiuto del dominio dell’utile, del dominio della sopravvivenza sulla vita, è insistere nel provare a giocare a modo nostro, per impossessarci di quel che ci dà piacere e distruggere ciò che ostacola il nostro cammino.
 
 
[Machete, n. 4, 7/2009]