Brulotti

Dell'incompatibilità. Tra nucleare e violenza

L’incompatibilità senza recupero 

 
«Se uno spirito prigioniero ignora la propria prigionia, vive nell’errore.
Se l’ha riconosciuta e si è affrettato a dimenticarsene per non soffrire,
abita nella menzogna».
Simone Weil 
 
Addentrarsi nel pensiero di Anders non può scindere dalle questioni storiche del tempo in cui visse, anche oggi terribilmente contemporanee, e di come il vissuto tenda a comporre il pensiero di qualunque sensibilità critica verso il circostante. 
Nella vita di Anders i campi di concentramento nazisti (oggi moderni C.P.R. e carceri per tutti gli indesiderabili), le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki (oggi guerre ovunque, con tecnologie avanzatissime), la diserzione dalla persecuzione e l’esilio degli ebrei (oggi la migrazione forzata di milioni di esclusi che scappano dalle terre native, depredate dal commercio e dalle guerre), e la conseguente realtà dell’industria di massa e del dominio tecnologico nell’America degli anni 30 (oggi dove sfruttamento e oppressione sono ancora gli imperativi del dominio), divengono passaggi ineluttabili della formazione di una critica radicale al mondo di morte in cui ci troviamo. 
Il pensiero di Anders parte dalla critica alla tecnica e alla conseguente era tecnologica. Essa trova il suo fulcro nella cosiddetta vergogna prometeica, cioè il riconoscimento della sottomissione esistenziale da parte dell’uomo alle cose che produce. Questa vergogna colpisce in prima istanza la percezione, la distanza che si crea fra la macchina e l’uomo, dove quest’ultimo diviene totalmente inferiore a tutti i prodotti fabbricati, regredendo alla condizione di antiquato. Esiste un rapporto che supera la reificazione: l’uomo è un essere che prova emozioni e invecchia; al contrario, la macchina compensa la sua certa morte quando non serve più con la sostituibilità. In questo senso, l’unicità dell’individuo viene a soccombere con l’utilità della sua oggettivazione, diventando il dispositivo perfettamente adattabile al mondo mercificato: ogni uomo può essere un arnese da lavorare e qualcosa di consumabile. Va da sé che una delle armi più creative degli spiriti ribelli, cioè di chi si oppone a questa situazione tecnica, viene messa in seria difficoltà: la facoltà di immaginare. 
L’ambiente della produzione cambia a grande velocità. E allo stesso tempo, in maniera inesorabile, quasi inavvertitamente, cambia anche l’uomo. Essa, infatti, influenza gli atti e i gesti, la concezione del tempo, i movimenti, i desideri e i sogni. Il bisogno della produzione di merce giustifica le attitudini più macabre, dando un senso alla continua e sanguinosa ricerca di potere e profitto. I desideri rimangono sospesi nella dittatura dell’ordine delle cose. 
La tecnica fa sopravvivere la svendita della propria vita sul mercato di scambio, chiamata in altri termini produzione della miseria generalizzata.

L’industria ha in seno il suo totalitarismo e quindi, per spezzare questo vortice entrare nel rifiuto vuol dire ribellarsi contro la sopravvivenza. 
Sostenere questo rifiuto è dire anche: «Ci rifiutiamo di produrre!».

Fondamentalmente il mondo della tecnica e delle macchine non vuole solamente che le nostre attività quotidiane siano al suo servizio, ma anche che i pensieri, debellando quelli più pericolosi, siano circoscritti dai suoi ingranaggi. In definitiva fare del proprio vissuto un sentimento di inferiorità, quella docilità ragionata che ci fa sentire inermi davanti all’esistente. Di conseguenza, con il dominio della tecnica, si è arrivati a produrre l’arma più devastante, il simbolo di un mondo basato sulla guerra: la bomba atomica. 
Il nucleare e la bomba atomica definiscono l’idea che in un qualsiasi momento l’intera umanità potrebbe essere estinta. Nell’era del volgere lo sguardo, la sua forza e il suo micidiale fine producono un ambiente sordo e afono con una catastrofe a portata di mano. La bomba atomica è l’oggetto-cardine che ha posto il mondo nella prospettiva concreta della propria fine, senza la possibilità che da questa fine nasca qualcosa di altro. 
L’assioma fra tecnica e produzione di dispositivi da guerra, rende tangibile una banalità di base: chi produce detiene potere e questo potere permane in ogni dimensione dell’esistenza umana. 
Anders ci indica, attraverso i suoi scritti, che se il potere diventasse perfettamente totalitario, la conseguenza sarebbe terrificante: l’incapacità di ognuno di immaginare mondi altri, con il conseguente affossamento latente della propria unicità. Questo continuum lascia il posto all’uomo qualunque, a quel soggetto oggi così vicino al buon cittadino rispettoso delle leggi e della morale del denaro. Il totalitarismo della produzione e l’intero universo delle macchine scandiscono i tempi umani, a tal punto da plasmare i contenuti e la sua acerrima difesa. 
La comunità della produzione è anche quella della delazione, del tutto deve restare così com’è. La maggior parte degli individui, in questa continua ricerca di bisogni, dimenticando i propri desideri di liberazione, divengono i guardiani dell’industria. 
Chiunque voglia o tenti di infrangere l’esistenza scandita dai tempi della macchina, subisce non solo la repressione di chi ha tutto l’interesse di difendere il dominio, ma anche di chi ne è cliente e ne accetta con somma servitù i suoi servizi alienanti. 
Il ricatto della tecnica esige che l’uomo debba esclusivamente servire, mediante il lavoro e il consumo degli oggetti, per far continuare i mezzi di produzione.

I prodotti, a loro volta, tendono a rendere l’uomo schiavo della tecnica. 
Oggi la tecnica però, come il mondo dominato dal denaro e dall’autorità, non ha completamente recuperato la totalità degli individui. Oggi esistono ancora donne e uomini con delle tensioni verso la libertà, che non ne vogliono sapere di diventare parte integrante degli ingranaggi di questo mondo. 
Le tesi di Anders oltre ad affilare le armi della critica, tendono anche a mettere in chiaro che lo scatenamento delle cattive passioni che danno forza alla trasformazione, come diceva Bakunin, è ancora possibile. 
L’essenza di chi vuole farla finita con questo mondo e di chi ne subisce tutta l’oppressione che produce è l’estraneità. Tentare di divenire liberi significa essere estranei; allora la libertà può essere quella esperienza di fuga dalla realtà che ci sottomette al suo ordine. 
Subire la realtà ma sognare di cambiarla e cercare di rovesciarla attraverso l’azione, portandosi appresso il peso di appartenere ad un mondo in cui ci si vergogna di esistere. 
Essere estranei al mondo significa che si può afferrare la possibilità di disertarlo in ogni momento. Una diserzione che sogna ed agisce contro quei dispositivi che ci fanno retrocedere alla funzione di cosa. 
La vergogna prometeica è lo scarto fra la perfettibilità della macchina, coadiuvata dalla sua obsolescenza programmata, e la lacerante estraneità dell’umano. La scelta è fra un mondo senza uomo o un’infinità di mondi di liberi e di unici.
[...]
Oggi sperare non basta, perché la speranza è un avvento messianico che tarderà sempre ad arrivare.

In una situazione in cui vale solamente l’agire in prima persona, senza delega, speranza è solo la parola per la rinuncia a una propria azione, ci dice Anders.

E la produzione e il possibile uso della bomba atomica, non avvicina tutti alla guerra?

La tecnica oggi si lega in modo inesorabile alla guerre pensate dai potenti di questo mondo. Oggi viviamo in uno stato di guerra permanente, finalizzato ad eliminare gli incontrollabili interni, di chi non vuole piegarsi agli imperativi dell’oppressione. Al fianco esistono guerre che a suon di bombe vorrebbero esportare democrazia, guerre dal sapore amaro del consenso.

Da qui, si pone una scelta: o inginocchiarsi alla pacificazione armata, accompagnata dal suo carro di guerre e sfruttamento, o fare della propria vita la rivolta incondizionata contro questo tutto. 
La guerra è una costante nella storia del capitalismo, iniziata contemporaneamente con la nascita del mercato e degli stati.

La guerra ha anche la capacità di rendere gli individui sostenitori dello Stato, che semina ovunque povertà, devastazione e genocidi. 
La guerra globale è la ricerca di una cultura della conquista, della sottomissione degli individui alle logiche di morte del Capitale.

Oggi non esiste più uno spazio neutro della guerra perché all’interno dai miserabili confini della democrazia esistono leggi, tribunali, militari nelle strade e galere per colpire chi è considerato un nemico interno. 
La democrazia ha lo scopo di tutelare i fini di qualunque Stato, il quale, oltre ad essere un’amministrazione burocratica è anche e soprattutto una burocrazia bellica, protettrice di qualunque commercio. E quando la guerra supera i confini adulterati del piccolo giardino di casa propria e, prepotentemente, torna rompendo quel silenzio assordante, si piange e si maledicono solo alcuni sanguinari. Questa guerra che piomba nel proprio vivere non si focalizza più sui colpevoli della povertà ma si scaraventa nella società tutta. 
Alla stupefacente creazione del nemico integralista viaggia la menzogna che è lui ad essere il solo responsabile. Dimenticando che sono in primis tutti i poteri sorretti dalla guerra, con le loro politiche di oppressione e di morte, ad essere gli artefici principali del sangue che sgorga a fiumi. Il cosiddetto pericolo integralista di oggi è la diretta conseguenza del colonialismo occidentale diffuso in ogni parte del mondo. 
Senza fare un orribile paragone quantitativo, è possibile avere un’idea di quanta morte l'occidente abbia disseminato, anche grazie al suo progresso tecnico delle armi da guerra? Probabilmente le cifre farebbero inorridire anche le coscienze più sopite... 
Quali conseguenze nei ritmi della vita scanditi dai tempi di guerra?

La paura fortifica l’obbedienza. L'opinione pubblica chiede a gran voce, gonfiandosi in un coro di vibrante protesta, sempre più divise tra le gonadi. Gli spazi vengono ristretti da decreti che piombano sulle poche libertà rimaste e la propaganda fascista si instaura per fomentare razzismo e guerra fra poveri. 
Come fermare tutto questo?

[...]
Il sabotaggio del sistema mercantile avviene anche liberandosi dal vecchio mondo che ci portiamo dentro.

La liberazione non ha peggior nemico di chi pretende di cambiare senza scrollarsi di dosso gli aneliti di questa civiltà poliziesca. È troppo tempo che imparare a vivere significa cupamente vedere la morte viaggiare nelle vite. Dipende solo dagli esclusi, dai fuorilegge, dagli spiriti alla ricerca di cieli stellati, da chi occupa gli spazi per prendersi il tempo di stravolgere le proprie vite, da chi è ostile a questo mondo, da chi non abbassa la testa davanti ai potenti e ai loro servi o anche da chi ha, fin ad oggi, solamente sognato di farlo. 
Darsi all’invenzione della vita, darsi all’anonimato dei desideri anche se la situazione tecnica vorrebbe impedircelo.
Ciò che è non va negato in nome di ciò che era o di ciò che sarà prematuramente, ma per dare finalmente vita a tutto ciò che desideriamo e che potrebbe divenire, nelle sue smisurate possibilità. 
Il contributo di Anders è prezioso perché è spinto da una tensione etica intransigente, incompatibile a qualsiasi forma di recupero filosofico, morale o politico.

Un contributo che annuncia diserzioni da questo mondo e sogni di un’insorgente aurora, affinché la sete di libertà possa contagiare in ogni dove. 
 
Isodore Maldoror 
 
[dalla post-fazione]

 

 

Günther Anders
Dell'incompatibilità
Tra nucleare e violenza
 
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