Brulotti

Il Feticcio dello Stato

Luigi Fabbri
 
Un fenomeno che sembrerebbe autorizzare il peggior pessimismo sull’intelligenza umana è il vedere come gli uomini stentino a sottrarsi alle più dannose e peggiori superstizioni, e come, anche quelli che se ne sono liberati, tendano a ricadervi o per lo meno a sentirne sempre un po’ di nostalgia.
Ne vediamo l’esempio nel mondo sociale e politico contemporaneo nella ingiustificabile rivalorizzazione dell’istituto dello Stato, dopo che la critica di quasi un secolo — non soltanto degli anarchici —, lo aveva irrimediabilmente screditato, e più ancora l’ebbe screditato coi fatti la sua medesima onnipotenza materiale dimostratasi sempre più inutile per il bene e solo capace di fare il male. Fa pena vedere come anche degli spiriti illuminati e animati dalle migliori intenzioni si lascino riprendere dall’illusione di trovare nello Stato un’ancora di salvezza in mezzo all’attuale tempesta, e non vedano come in realtà esso non sia che il carico di piombo che solo può trascinare nell’abisso la nave già pericolante dell’umana civiltà.
Purtroppo l’idea di libertà sembra già da parecchi anni soffrire una eclissi, a causa della crisi morale e politica in cui tutti i popoli sono stati piombati dalla guerra mondiale ultima, la quale ha precipitato troppo rapidamente la crisi generale del regime capitalistico, senza dar tempo alle forze ancor sane e vergini della società di sottrarsi al baratro in cui quello sprofonda, col pericolo per tutti che sia sostituito da un sistema ancor più affamatore e tirannico. Sembra che gran parte delle generazioni cresciute nell’ambiente della guerra e dell’immediato dopo-guerra rifuggano dalla libertà e dall’autogoverno come da un’improba fatica: cercano chi pensi, decida e comandi per loro, con una specie di voluttà del servire e obbedire ciecamente, anche a costo d’essere calpestate e maciullate. È questa una delle spiegazioni della fortuna del fascismo da un lato e del bolscevismo dal lato opposto, l’uno e l’altro esaltatori e sacerdoti armati del feticcio dello Stato.
Nonostante, restano ancora sparse nel mondo forze non indifferenti tuttora fedeli alla causa della libertà umana, spiriti innumerevoli assetati d’indipendenza difensori di tutte le autonomie individuali e collettive, che vogliono pensare con la propria testa e agire secondo la propria coscienza: e combattono quindi contro le crescenti pretese autoritarie, monopoliste e accentratrici dello Stato. Gli uni, gli anarchici, giungono alle logiche conclusioni di questa lotta anti-statale, col propugnare la distruzione completa dei governi; gli altri, più numerosi, non osano spingersi fin là, ma per lo meno tentano salvare quanta maggior somma di libertà è possibile e limitare entro determinati confini l’autorità statale, frenarne le tendenze totalitarie, resistere ai suoi arbitri.
Non è qui il caso di discutere chi meglio giova alla causa della libertà, e chi più efficacemente combatte la tirannia dello Stato, fra gli un| •e gli altri. Noi siamo anarchici, e la nostra opinione è conosciuta. Quello che ci turba, però, è che anche su queste forze restate sinceramente propugnatrici di libertà si va da qualche tempo esercitando una influenza deleteria In sento anti-libertario. Le tendenze autoritarie s’insinuano tra loro subdolamente, spingendole a transazioni, a concessioni, ad ammissioni dell'errore nemico in apparenza di poco rilievo, ma che sono come il pr!mo strappo quasi invisibile, che determinerà poi la lacerazione di tutta la propria bandiera. Alcune sono ammissioni vagamente dottrinarie, che si credono imparziali • al di sopra della mischia; ma sono In realtà vere e proprie concessioni ingiustificate, che né la dottrina né l'esperienza avvalorano affatto.
Non al tratta, intendiamoci, d’una paura puerile di ammettere una verità palese qualsiasi, solo perché anche il nemico la riconosce. Se questi dice che due più due fan quattro, sarebbe ridicolo sostenere il contrario solo perché lo dice lui. Qui ci riferiamo a certe ammissioni sulla funzione «utile» dello Stato, che vediamo fare non solo nel campo democratico e socialista, ma perfino in qualche ambiente sindacalista e libertario, in cui fanno l'effetto dl una vera e propria stonatura. E sono ammissioni, si badi, completamente erronee, cozzanti non soltanto con una qualsiasi dottrina, sempre un po’ aprioristica per se stessa, ma con la più nota esperienza storica e con la più evidente realtà contemporanea. La cosa non si spiega se non col fatto che anche quando si odia un nemico e lo si combatte con passione, si è portati sempre un po’ — se non si sta in guardia contro la propria debolezza — a subirne l’influenza corruttrice e e sposarne senza volerlo i peggiori errori.
Qualche volta si arriva, per tale fenomeno, a dimenticare le verità di fatto più semplici, il passato meno remoto, le stesse proprie idee mille volte affermate; si arriva perfino a cedere al nemico la proprietà di queste idee, naturalmente falsificate e rovesciate […] Che non sono pochi, purtroppo, coloro i quali — pur essendo antifascisti, socialisti, rivoluzionari e magari «libertari» — cercano di sfuggire alla ferrea logica anti-statale della rivoluzione per la tangente del minimo sforzo governativo, allettati dall'illusione sempre rinascente di poter risolvere ogni difficoltà con qualche intervento dello Stato.
I nomi, le formule, non sl contano; e variano e si succedono con la volubilità della moda […] Sfatata o sfumata l'una, s'aggrappano all’altra; studiano e si lambiccano il cervello su tutte le forme possibili d’intervento statale — intervento, naturalmente, provvisorio, eccezionale, limitato, controllato, ecc. di cui ciascuno teme se affidato ad altri o da altri assunto per forza, ma che ciascuno, individuo o partito o classe, sarebbe sicuro di utilizzare, senza danno, per il bene del genere umano.
L’unico studio che essi ignorano, da cui anzi rifuggono come da cosa superiore alle loro forze, od alla loro intelligenza, è quello che pur ci sembra il più meritevole d'essere affrontato: !o studio di raggiungere il bene voluto attraverso la libera e diretta cooperazione degli interessati, senza bisogno dell’intervento sempre usurario e prepotente dello Stato. Non gli occhi chiusi innanzi alle molteplici difficoltà della crisi e della ricostruzione sociale, ma la loro esatta visione e lo sforzo intelligente di vincerle con mezzi di libertà e non con mezzi d'autorità.
Ma da quest'orecchio essi non ci sentono.Il feticcio dello Stato esercita su loro una tal suggestione, anche se talora inconscia e inavvertita, che il prescinderne totalmente è per essi troppo difficile, anzi impossibile. Si trovan tracce di tale suggestione morbosa perfino in alcuni che sono d’accordo con noi nel respingere qualsiasi intervento dello Stato, ma che non resistono alla tentazione di «riconoscere obiettivamente», per esempio, che il capitalismo di Stato sarebbe, dal punto di vista economico, superiore al capitalismo privato, pur essendo per conto loro negatori dello stato e avversi all’uno e all’altro capitalismo con la stessa intransigente ostilità. […]
Sempre così lo Stato! potente nel male, incapace al bene. Il bene lo fa male, e il male lo fa bene, secondo l’antico epigramma. Finché i popoli non si stancheranno di adorarne il feticcio, e non lo rovesceranno a pezzi nella polvere, per sempre.
 
 
[Studi Sociali, anno IV, n. 28, 4 dicembre 1933]