Contropelo

Ciò che non ha prezzo

Annie Le Brun
 
È giunto il tempo in cui le catastrofi umane si aggiungono alle catastrofi naturali nella cancellazione di ogni orizzonte. E la prima conseguenza di questo catastrofico raddoppio è che, col pretesto di circoscriverne i danni reali e simbolici, si tralascia di guardare oltre e di vedere verso quale abisso stiamo avanzando con sempre maggiore certezza.
Ulteriore esempio che tutto è collegato, anche se l'attuale precipitare di avvenimenti rende sempre più indistinguibili gli effetti dalle cause. Il che va di pari passo con l'aggravarsi di quella «troppa realtà» che evocavo già diciotto anni fa, come conseguenza di una mercificazione delirante, inseparabile dallo sviluppo informatico: troppi oggetti, troppe immagini, troppi segni si neutralizzano in una massa di insignificanza che non smette di invadere il paesaggio per operarvi una costante censura per eccesso.
Il fatto è che non ci vorrà molto prima che questa «troppa realtà» si trasformi in troppe scorie. Scorie nucleari, scorie chimiche, scorie organiche, scorie industriali di ogni tipo, ma anche scorie di credenze, di leggi, di idee alla deriva come tante carcasse e gusci vuoti nel flusso del deperibile. Perché, se c’è una caratteristica del secolo che inizia, è proprio questo usa e getta che non si sa più né dove né come gettare e ancor meno pensare.
E la deturpazione del mondo va avanti senza che ce ne accorgiamo, poiché è ormai al di sotto delle spettacolari nocività il fatto che, da un continente all'altro, lo spazio sia brutalizzato, le forme deformate, i suoni malmenati fino a modificare insidiosamente i nostri paesaggi interiori.
Lo si voglia o no, si tratta di un’importante questione politica. Perché, se è impossibile definire la bellezza viva, sempre sconvolgente nel ricomporre il mondo con la sua luce inedita, i due totalitarismi del XX secolo hanno entrambi perseguitato le opere che ne erano pregne, per imporre un terrore sensibile le cui norme si sono rivelate intercambiabili, tra realismo socialista ed arte hitleriana. Fino a sostenere l'uno e l'altra la medesima immoralità dello stesso kitsch moralista, dove il corpo umano diventa altrettanto necessario quale falso testimone della menzogna ideologica.
Ad eccezione di pochi, quasi tutti i rivoluzionari hanno prestato poca attenzione a questa similitudine e ancor meno si sonopreoccupati di considerarne le implicazioni, il che non è slegato dal fatto che dalla fine della seconda guerra mondiale la bruttezza ha avuto via libera. Tanto più che negli ultimi venti anni questo abbrutimento sembra essere stato accompagnato se non preceduto da una produzione artistica (arti plastiche ed arti dello spettacolo confuse) le cui innumerevoli forme, sovvenzionate o sponsorizzate con bei soldoni, sono arrivate a sostituire ogni rappresentazione con le due facce di un continuo degrado, col pretesto sempre più fumoso della sovversione. E ciò mentre questa falsa coscienza era sostenuta dalla fabbricazione parallela di una bellezza contraffatta dall'estetica della mercificazione, in cui alcuni hanno riconosciuto il marchio di un «capitalismo artistico» (Gilles Lipovetsky e Jean Serroy).
 
Situazione apparentemente contraddittoria, ma la cui crescente banalizzazione rivela quale processo di neutralizzazione sia ormai all’opera per far accettare ogni cosa e il suo contrario, senza mai mancare di sradicare ogni traccia di negatività.
Ecco perché sarebbe troppo semplice pensare dopo Stendhal che, se «la bellezza è solo la promessa della felicità», la bruttezza diventa una promessa di disgrazia. Se ci si limita a ciò, si corre il rischio di non vedere come la nuova «estetizzazione del mondo», di cui i più si felicitano, disciplini abusi e devastazioni per aggravare, dall'alto al basso della scala sociale, una desensibilizzazione senza precedenti, indotta del resto da molto tempo — dal teatro al museo, dal centro d'arte alla fondazione — attraverso spettacoli, performance o installazioni in cui, sempre più, il cinismo va di pari passo con l'indifferenza.
La conseguenza è l'instaurazione di uno spudorato ordine del rifiuto, che non manca di mettere in discussione tutti i modi di rappresentazione, con gli uni che finiscono per svalutare gli altri nel corso di implosioni a catena che provocano altrettante spersonificazioni. Al punto che ogni essere, spogliato a poco a poco di ciò che lo legava sensibilmente al mondo, si ritrova tanto solo quanto impotente.
Sarà vero che per sfuggire a questa solitudine rimane solo la falsa comunità di una nuova schiavitù che fa la fortuna delle «reti sociali»? Sarà vero che per sfuggire all'esclusione occorre passare attraverso questo addomesticamento?
 
Qualcosa che si riteneva impossibile da raggiungere sembra ormai correre davanti agli uomini. Non è né il loro futuro né il loro presente, sono i loro sogni a fuggire da loro. E tutto accade come se non si sapesse più né afferrare, né dire, né pensare lo scarto che si approfondisce sempre più tra ciò che viviamo e i discorsi che dovrebbero renderne conto. Al punto che la critica sociale, per quanto rigorosa, finisce per non essere altro che una musica di accompagnamento, senza la minima efficacia, ridotta a concedere una buona coscienza a chi la condivide. Da quando la crisi è diventata il soggetto di tutti i dibattiti, si direbbe che la molteplicità degli approcci critici faccia il gioco del dominio. A coloro che li conducono è in effetti toccato un ruolo da specialisti, che i più sembrano molto soddisfatti di indossare, senza esserne veramente consapevoli. Solo che, più si ha a che fare con gli specialisti, meno si trova un linguaggio comune. Cosicché, invece di vedere emergere una critica della crisi, si può solo prendere atto di una crisi della critica. 
 
Perciò, interrogarsi sulla bellezza e su quanto la minaccia da ogni dove permetterebbe forse di sfuggire a questo fosco quadro? Se nessuno è in grado di definirla, ciascuno ne ha conosciuto un giorno i poteri abbaglianti, fino a quando ha dato improvvisamente un significato a ciò che sembrava non averne. Come il fulmine, essa non si lascia soggiogare. E, per questo solo motivo, meglio non dimenticare mai il suo bagliore, anche se, prima o dopo le innumerevoli volte in cui il concetto di bellezza è stato messo in discussione, Rimbaud scriveva all'inizio di Una stagione all'inferno: «Una sera, ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. — E l'ho trovata amara. — E l'ho insultata». 
Righe che non si possono leggere senza chiedersi cosa le leghi a quelle che le contraddicono nell'ultima parte di questo viaggio al termine di se stessi: «È tutto passato. Oggi so salutare la bellezza». 
 
Cos’è accaduto quindi tra l’aprile e l’agosto 1873, il periodo di quella «stagione all'inferno»? Per molto tempo questa domanda mi ha perseguitato finché, con l’aggravarsi della nostra situazione, ho finito col chiedermi se in mezzo alla più oscura delle epoche questa inversione di Rimbaud non costituisca per noi una risorsa.
Come se, dopo aver corso tutti i rischi per disertare le vie illuminate dalla Bellezza riconosciuta come tale, Rimbaud avesse all’improvviso visto che esiste una bellezza sempre altra, una bellezza che è — come l'amore che sognava — sempre da reinventare.
Sia che egli la percepisca in «pitture idiote», «tele di saltimbanchi», «immagini popolari», «libri erotici senza ortografia», «ritmi ingenui»... o nella «felicità delle bestie» e nelle «follie» di cui conosceva «tutti gli slanci e i disastri», per farsi attraversare da onde che si infrangono, le rende omaggio nello scoprirla sia plurale che singolare.
Questa bellezza, che a quel punto scrive senza maiuscola, viene da lontano, da molto lontano. Il suo genio consiste nell’aver cercato di afferrarla il più vicino possibile con una violenza senza precedenti, di esserle corso incontro attraverso i «deserti dell'amore», di essersi scontrato con essa nell'«azzurro, che altro non è che nero», anche a costo di riconoscerla quando lui non si riconosceva più. Ma per affermare nel contempo che «Io è un altro» e aprire a ciascuno la sovranità di tutti i regni del singolare. 
 
Gli dobbiamo anche l’aver ricordato che di questa bellezza è importante per ogni essere «trovare il luogo e la formula». E ce lo dice l'urgenza, nel momento stesso in cui la selvaggia correttezza della sua lungimiranza gli fa denunciare, con un secolo e mezzo di anticipo, ciò che subiamo giorno dopo giorno, si tratti dell'«orrore economico», della «visione dei numeri» e dell'universo che ne deriva, dedito «a vendere i Corpi senza prezzo, fuori da ogni razza, da ogni mondo, da ogni sesso, da ogni discendenza», oltre che a vendere «le voci, l'immensa opulenza incontestabile, ciò che non sarà mai venduto». 
Di fatto, non c'è nulla di ciò che ci ha resi gli eredi dell'immondo Secondo Impero — speculazione, colonizzazione, predazione — che egli non abbia incendiato col suo rifiuto, per disegnare tra le fiamme la sorprendente bellezza di ciò che poteva essere. Tanto imprevedibile quanto indefinibile, questa bellezza risplendeva allora nel confondersi con tale mancanza, in cui si inabissa il forte vento dell'immaginazione. Inseparabile dalla rivolta che la fa nascere, le tocca di volta in volta imporsi come forma insperata di libertà.
Ecco perché ciò che ha detto Rimbaud, ciò che ha sognato, ciò che ha rivelato, continua nel corso degli anni ad echeggiare nei più giovani che non hanno ancora abdicato su nulla. Che sia stato probabilmente il primo ad aver puntato tutto per «cambiare la vita» mi incita ancor più a riferirmi a lui, quando i sinistri albori di questo secolo sembrano volerlo definitivamente ignorare. 
 
Sta di fatto che non possiamo dimenticare tutti coloro che hanno cercato, indipendentemente dalle circostanze, di «far sgorgare la sorgente dalla roccia», per usare le parole di Pierre Reverdy. Che questo ci sia splendidamente riuscito, significa essere persuasi come Ignaz Paul Vital Troxler che «c'è un altro mondo, ma è dentro di questo».
Non esiste migliore giustificazione per rifiutare l'ordine delle cose. Essa esprime l'irruzione dell'eventuale e la bellezza suscettibile di apparirvi. Come quella che strappa all'improvviso l'oscura opacità di 1984 attraverso il modo in cui una giovane innamorata si strappa le vesti in un «magnifico gesto con cui sembra che venga distrutta tutta intera una civiltà». Bellezza che si confonde con la poesia che, per essere «di niente e di nessuna parte», agli occhi di Reverdy è «la manifestazione del bisogno incontenibile di libertà che è nell'uomo». È questa certezza che Osip Mandel’stam finirà col pagare con la propria vita, ricordando: «Ciò che distingue la poesia dalla parola meccanica è che la poesia giustamente ci sveglia, ci scuote nel bel mezzo della parola». 
Potrei moltiplicare gli esempi di questa ricerca sconfinata di ciò che non ha prezzo. In effetti, sono rari coloro che finiscono per abbandonare il desiderio di farla propria nello scintillio di un eterno presente. Che il sorgere della bellezza l'accompagni coi suoi imprevedibili orizzonti non cessa di preoccupare tutti i poteri, questo è appunto ciò che vogliono levarci fin nel ricordo. Fino a che punto continueremo a restarne indifferenti? Fino a che punto accetteremo di contribuirvi, anche solo per disattenzione? Fino a quando accetteremo di ignorare che si tratta dell'instaurazione di un genere inedito di asservimento se non di corruzione?
 
 
[Ce qui n'a pas de prix, 2018]