Contropelo

Sul sessismo inclusivo

Annick Stevens
 
Si diffonde sempre più l'idea secondo cui, per lottare contro il sessismo e il dominio maschile, occorra introdurre ovunque la scrittura inclusiva, ovvero scrivere nomi ed aggettivi al plurale coi segni grammaticali congiunti maschili e femminili. Vorrei che si riflettesse senza pregiudizi sulla fondatezza di questa pratica e dei suoi effetti.

A prima vista sembra ovvio che menzionando sistematicamente i due generi grammaticali si evita di escludere o discriminare uno dei due sessi. Tuttavia, rispetto alla pratica ereditata che consiste nel designare con un solo termine al plurale tutte le persone a cui si fa riferimento, la scrittura inclusiva introduce una dicotomia persino nei gruppi misti in cui la differenza sessuale non è rilevante. Considerata da questo punto di vista, è la pratica ereditata ad essere inclusiva e la contrapposizione binaria a risultare esclusiva.

L'effetto reale della scrittura cosiddetta inclusiva e di altre dichiarazioni dicotomiche è che in ogni momento si divide in due l'umanità sulla sola base del sesso biologico. Quando si scrive «i/le lettori-trici», «i/le lavoratori-trici» o «gli/le amici-che», così come quando diciamo «lettori e lettrici», «lavoratori e lavoratrici», «amici e amiche», non si fa che ricordare incessantemente a ciascuno che, qualunque cosa faccia e chiunque sia, è la sua categoria sessuale a costituirne il segno. Di più, si lascia intendere che le attività di leggere, di lavorare o di amare non siano le stesse se attuate da un uomo o da una donna. Si carica sessualmente il linguaggio per parlare di cose che non sono sessuate ma che sono comuni all'umanità, e così facendo si introduce nell'umanità una divisione fondamentale, onnipresente, ineluttabile. Il procedimento ottiene allora un risultato opposto alle intenzioni: rafforza l'idea reazionaria secondo cui un individuo sia determinato in primo luogo dal proprio sesso, ripercuotendosi la differenza sessuale su tutte le capacità, comportamenti e realizzazioni degli individui.

 
Il problema linguistico

Fino a poco tempo fa non c'era nessun problema nell'indicare un gruppo con un plurale grammaticalmente maschile, perché notoriamente per convenzione quel plurale è misto (e non neutro, ovvero né l'uno né l'altro) e, qualora si voglia indicare un gruppo esclusivamente maschile, allora si dovrebbe aggiungere una precisazione. Ora, diffondendo la pratica degli enunciati dicotomici, si genera un dubbio e un bisogno di precisazione in testi che finora si comprendevano subito come inclusivi, per consuetudine. Stiamo creando l'impossibilità di parlare dell'umanità come una sola.

Alcuni invertono il procedimento, utilizzando il femminile grammaticale per esprimere il plurale misto e contando sull'effetto sorpresa per «rendere visibile» un predominio che sarebbe nascosto. Ma qual è l'interesse di esprimere il misto attraverso un genere grammaticale piuttosto che con l'altro? Se il linguaggio avesse davvero un effetto di dominanza, a cosa servirebbe rovesciare quest’ultima?

Non è impossibile che, storicamente, l'introduzione del maschile come plurale misto fosse legata al predominio maschile nelle società dell'epoca. Tuttavia occorrerebbe uno studio linguistico approfondito che esaminasse tutta la varietà di espressioni del plurale misto nelle migliaia di lingue nel mondo e stabilisse una chiara relazione tra il sessismo nel linguaggio e il sessismo nella società. Di sicuro non è cosa immediata. Ma si può già osservare, se si considerano le lingue più antiche che conosciamo nel gruppo indoeuropeo, che il rapporto tra l'evidente predominio maschile in queste società e la prevalenza del genere grammaticale non è diretto ed univoco. In questi linguaggi a declinazione, alcuni casi hanno un'unica forma di plurale, comune per il maschile, il femminile e il misto, e in questi casi la precisazione sessuale, se necessaria, è data dal contesto o da un termine aggiuntivo. Nel corso della scomparsa delle declinazioni, i casi morfologicamente sessuati sono stati selezionati, comportando la generalizzazione del maschile come plurale misto; tuttavia, questa evoluzione non riflette un'intensificazione del sessismo in tali culture. D'altra parte, i Greci del V secolo già s'interrogavano con perplessità prima della nostra èra sull'origine dei tre generi grammaticali (maschile, femminile e neutro), che per la maggior parte delle parole non hanno alcuna giustificazione. Perché quindi ritenere che il linguaggio rifletta fedelmente lo stato mentale di una cultura, dato che non è un'istituzione stabilita da decisioni consapevoli e volontarie, quanto un processo evolutivo di cui gli utilizzatori ignorano l'origine delle particolarità morfologiche?

Certo, nulla impedisce di intervenire volontariamente in questo processo per uno scopo specifico, come si fa d'altronde quando si stabilisce l'ortografia e se ne formalizza un buon uso. Se fosse assodato che gli usi linguistici hanno un effetto sulle strutture sociali, sarebbe perfettamente consigliabile orientarli nel senso che si ritiene giusto socialmente. Ma è questo il caso? E soprattutto, in quale misura rispetto ad altri fattori del dominio?
 

Il problema del dominio

A riprova del dominio attraverso la lingua, prendiamo la famosa regola «il maschile prevale in grammatica». Alcuni testimoniano di aver vissuto l'apprendimento di questa regola come un'oppressione. Io ne ho un ben altro ricordo. Ogni volta che veniva evocata questa regola, nella scuola elementare, insegnanti e studenti di entrambi i sessi dicevano: «il maschile prevale... in grammatica!», indugiando in particolare sulle ultime parole con sguardi complici ed ironici, e non era necessario che un bambino pretendesse di prevalere negli altri aspetti. Lungi dall'avere un effetto di dominanza, la regola era l'occasione per riaffermare che quanto era vero in grammatica non era vero in altri ambiti, e che non si sarebbe tollerata alcuna discriminazione, di qualunque genere.

Pur ammettendo che il plurale maschile possa avere un effetto incoraggiante sulla discriminazione sessista, quanto peso avrebbe questa regola grammaticale in relazione a ciò che resta del dominio maschile nelle nostre società? Si sosterrebbe seriamente che la grammatica è un elemento importante nel mantenimento del «soffitto di cristallo» [espressione utilizzata per indicare le difficoltà di accesso a incarichi superiori da parte delle donne o di altre persone “svantaggiate”], nella violenza contro le donne, nella tentazione sempre rinnovata di giustificare «scientificamente» alcune differenti attitudini tra i sessi? È assai più chiaro che l'esigenza di una scrittura inclusiva e l'esacerbazione del dibattito che essa suscita distolgono l'attenzione da fattori di sessismo ben più determinanti ed impediscono di riflettervi in modo più sereno, più intelligente, e di conseguenza più efficace.

Per tutte queste ragioni, penso che in questa battaglia il femminismo sbagli bersaglio e lasci i suoi veri nemici alquanto tranquilli. Peggio ancora, si ritorce contro se stesso realizzando ciò che afferma di voler abolire, la divisione dell'umanità in due gruppi contrapposti. 
Personalmente, rifiuto di essere inserita in una categoria dicotomica che si sovrapponga a tutte le altre anche quando la distinzione non abbia alcuna pertinenza con la questione. Sono molto felice di essere una donna, ma sono anche una miriade di altre cose indipendenti dall'essere una donna e non voglio che venga loro assegnato un segno femminile che le orienti quando non lo sono.

Irritata dalla velocità di diffusione della scrittura inclusiva negli ambienti «benpensanti», ho inteso far circolare alcuni argomenti che ne mostrino gli effetti perversi, per metterli a disposizione di tutte le persone che non osano più sottrarsi a questo procedimento per timore di essere considerate reazionarie, conservatrici, aggrappate al loro privilegio per gli uomini e alla loro sottomissione per le donne. Io rivendico il carattere convenzionale della lingua e insisto sull'urgenza di condurre una riflessione approfondita sulla lotta contro ogni dominio, cominciando ad identificarne le vere cause.