Contropelo

Di che colore è la tua Mesa?

 
Svanito nel nulla il fantasma collettivo di classe che per un secolo e mezzo si è aggirato per l'Europa (il proletariato), a fare da protagonista delle narrazioni ideologiche odierne è rimasto quello collettivo di nazione: il Popolo. Un Popolo che — come sostenuto da tutte le parti, nessuna esclusa — si sente sempre più oppresso ed umiliato, perennemente sull'orlo di una crisi di nervi. I suoi amici più reazionari si agitano perché lo vedono angariato nel suo lavoro dalle tasse, impedito nel suo benessere dal costo della vita, rovinato nella sua identità dagli immigrati, minacciato nella sua sicurezza dalla criminalità, ostacolato nella sua carriera dalla burocrazia. I suoi amici meno reazionari si agitano perché lo vedono privato del suo lavoro dalle logiche di mercato, impedito nel suo benessere dal costo della vita, colpito nella sua sensibilità dal razzismo, minacciato nel suo ambiente dalle grandi opere, ostacolato nella sua quotidianità dalla burocrazia. Se i suoi amici più reazionari se la prendono con il governo (quando è meno reazionario) ed i suoi amici meno reazionari se la prendono con il governo (quando è più reazionario), da parte sua ogni governo se la prende con chi — preferibilmente dall'esterno: l'Unione Europea, la Banca Mondiale, la Grande Finanza — trama contro l'amato Popolo che lo ha eletto.
Di tanto in tanto, una goccia fa traboccare il vaso della sopportazione ed il Popolo scende in piazza. Non sa bene cosa voglia, non sa bene cosa fare, non sa bene nemmeno perché sia arrivato a quel punto. Sa solo che la misura è colma, quindi va in escandescenze. In quest'epoca caratterizzata dal dilagare della servitù volontaria, la fine della rassegnazione sociale è diventata un evento talmente raro che, quando si verifica, fa entrare in fibrillazione tutti gli amici del Popolo. Non solo quelli che si trovano più vicini al rubinetto da cui è caduta la goccia fatale, ma anche quelli più lontani. Se il rubinetto che perde sta a valle, accorre anche chi sta a monte (ciò spiega il motivo per cui durante i primi scontri in Val Susa contro il Tav, nel 2005, erano presenti anche dei fascisti: ovviamente in pochi e capirono presto di non essere graditi). Se il rubinetto che perde sta a monte, si precipita anche chi sta a valle. Perché, quando il Popolo si muove, i suoi sedicenti amici (più che altro, aspiranti tutori) si eccitano. Per costoro non ha grande importanza chi o cosa gli abbia dato il via — è assai più importante chi gli dà il ritmo e la direzione.
Ecco perché cinque anni fa qui in Italia, allorquando il movimento dei Forconi invase molte strade del Belpaese, all'interno del ceto politico sovversivo si aprì un grande dibattito teorico-pratico: si va o si fischia? In un simile contesto del tutto sprovvisto dei consueti punti di riferimento, il Movimento si deve muovere? «Un Movimento che non si muove, che Movimento è?», si chiedevano gli uni. «Un Movimento che si muove per correre dietro a piccoli imprenditori, che Movimento è?», si chiedevano gli altri. Ora, se simili crucci hanno travagliato le riflessioni di molti kompagni doc qui in Italia, paese il cui Popolo fa fatica anche solo ad indignarsi quel tanto che basta per fare un blocco stradale, figurarsi gli interrogativi sollevati in questo ultimo mese in Francia dalla rabbia espressa nel corso delle manifestazioni dei “gilet-gialli”. Nate per protestare contro l'aumento del prezzo dei carburanti, queste manifestazioni hanno cominciato ad invadere i rondò di mezza Francia ed hanno continuato mettendo a ferro e a fuoco il centro di Parigi e di altre città. 
E più gli eventi si sono susseguiti nel corso di queste ultime settimane — quattro morti, centinaia e centinaia di arresti, violenti scontri, incendi, ed un massiccio terrorismo psicologico-mediatico che è arrivato a paventare possibili golpe ed imminenti bagni di sangue nelle strade — più questo dibattito ha assunto tratti a dir poco grotteschi. Da una parte, chi se la prende con questi reazionari che difendono la civiltà dell'automobile, dall'altra chi liscia loro il pelo annunciando che sono a un passo dall’inceppare la macchina governativa. I primi, pessimisti ad oltranza, già pregustano il recupero da parte dello Stato che verrà a confermare la loro lungimiranza politica. I secondi, più ottimisti, già pregustano l'insurrezione da parte del Popolo che verrà a premiare la loro scommessa opportunista.
Cinque anni fa ci bastò esprimere il nostro scarso interesse per il dibattito in corso sulla natura dei Forconi, preferendo evocare attraverso la metafora della Mesa Verde l'occasione di giocarsi in questi momenti altre possibilità, per far infuriare certi kompagni dalle mani sporche (di merda politica). Quanto sta oggi accadendo in Francia ripropone nuovamente la questione, mostrando per altro in profondità molti dei suoi contorni. Ci è sembrato fosse il caso di tornarci sopra.
 
Chi avverte ancora un simile desiderio, come si immagina lo scoppio di una rivoluzione? Pensa che sarà opera di una convergenza di movimenti sociali, tutti dotati della loro giusta rivendicazione, mossi da decisioni prese all'unanimità nel corso di assemblee in cui prevale l'idea più radicale? Quindi: nasce un movimento dalla causa impeccabile, alla sua testa ci sono i militanti più illuminati che lo guidano di battaglia in battaglia ottenendo vittorie entusiasmanti, le sue file si ingrossano, la sua fama cresce, il suo esempio si diffonde contagioso, altri movimenti simili sorgono, la loro potenza si incontra, alimenta e moltiplica reciprocamente, fino ad arrivare allo scontro finale durante il quale lo Stato viene infine piegato... 
Bella questa narrazione! Chi l’ha prodotta, Netflix? A quale puntata siamo arrivati?
Se poi non si vuole buttarla sul ridere, si può sempre rimanere seri. Di più, si può analizzare scientificamente. Come quei lungimiranti bordighisti che già nell'agosto del 1936 sapevano che non c'era alcuna rivoluzione in corso in Spagna. Il motivo era ovvio, un'evidenza sotto gli occhi di tutti, fastidioso anche solo ricordarlo: senza teoria rivoluzionaria niente rivoluzione, senza partito rivoluzionario niente teoria rivoluzionaria. In Spagna c'era il partito rivoluzionario (il loro, ovviamente)? No? E allora, di cosa si poteva parlare?
Poiché nel corso della storia la scintilla di sommosse, insurrezioni e rivoluzioni è quasi sempre scaturita non da profonde ragioni, ma da semplici pretesti (alcuni esempi: lo spostamento di una batteria di cannoni ha scatenato la Comune di Parigi, una protesta contro il rancio della marina militare ha innescato la rivoluzione spartakista, il suicidio di un ambulante ha avviato la cosiddetta Primavera araba, l'abbattimento di alcuni alberi ha originato la rivolta di Gezi Park in Turchia), troviamo invero imbarazzante chi, davanti a quanto sta accadendo oggi in Francia con i gilet-gialli (o ieri in Spagna con gli autonomisti catalani), aguzza lo sguardo solamente per scovarvi tracce del programma comunista, o del pensiero anarchico, o della teoria radicale, o della critica anti-industriale, o... Dopo di che, in mezzo alla delusione per non aver scorto in piazza contenuti sufficientemente sovversivi, per non aver contato masse sufficientemente numerose, per non aver notato origini sufficientemente proletarie, per non aver constatato presenze femminili sufficientemente paritarie, per non aver udito un linguaggio sufficientemente corretto — la lista potrebbe allungarsi all'infinito —  non gli resta che inorridire e chiedere a chi possa mai giovare tutta questa agitazione sociale. Cui prodest?
Se c'è chi attribuì le rivolte che scossero la Francia nel novembre 2005 ad una mossa pre-elettorale di Sarkozy, il quale avrebbe intenzionalmente sparso benzina su una piccola fiamma facile da spegnere (una delle tante bavure della polizia) per venire poi premiato in quanto efficiente capo-pompiere, allo stesso modo oggi sarebbe facile vedere lo zampino della Le Pen dietro la richiesta popolare di dimissioni di Macron. Ora che spira forte in tutta Europa un vento favorevole alla destra, perché dover attendere la prossima scadenza elettorale quando con qualche strattone è possibile anticiparla? Si tratta di una ipotesi più o meno dietrologica che, pur nella sua logicità, è del tutto idiota formulare. Ma certo che Sarkozy-il-domatore o la Le Pen-aspirante-direttrice-del-circo potrebbero aver liberato di nascosto le fiere per seminare il panico e, dopo la fine dell'emergenza, venire chiamati a sostituire l'incompetente che non ha saputo proteggere la società. 
Ma se anche così fosse... e allora? Quelle fiere siamo tutti noi ed è proprio nei momenti di libertà di movimento che aumentano le nostre possibilità di sbarazzarci per sempre delle gabbie di questo mondo. Finché siamo chiusi al loro interno siamo impotenti, capaci solo di ruggire e mostrare denti sempre più malandati. Ma in quei giorni di libertà, per quanto si possa essere braccati, tutto ridiventa possibile — anche l'impossibile. La nostra libertà è previsto sia solo provvisoria, effimero frutto di un calcolo preciso, breve clausola di un investimento a medio o lungo termine? E sia, sta a noi far sì che diventi definitiva, mandando all’aria i piani di chi era certo di poter comandare il demone della rivolta dopo averlo evocato. Se qualcuno ci lascia la gabbia aperta, non ha senso perdersi in elucubrazioni sulle sue reali intenzioni e rimaner fermi dentro pur di non servire trame oscure. Meglio precipitarsi fuori e cercare in tutti i modi di non essere ripresi.
 
Ciò detto, chi avverte ancora un simile desiderio, come si immagina lo scoppio di una rivoluzione? Consapevole che probabilmente potrà scaturire solo da una situazione eterogenea, in mezzo ad interessi contrastanti, espressi in maniera confusa e contraddittoria, si metterà per questo a sostenere interessi contrastanti, espressi in maniera confusa e contraddittoria? Il fatto che il pretesto di sommosse, insurrezioni e rivoluzioni sia quasi sempre banale significa che bisogna ripetere banalità?
È quello che in effetti pensano tutti gli aspiranti Machiavelli della rivoluzione, questi piccoli e grandi stronzi della strategia politica che non la smettono di invitare tutti non ad eccedere, ma ad adeguarsi alla situazione. Imbattibili campioni transalpini di surf sono i neoblanquisti del Partito sempre meno Immaginario, i quali per ribadire la propria invisibilità stanno sventolando a più non posso banderuole gialle fosforescenti con l’intento di accreditarsi quale Verbo dell’ala sovversiva della rivolta. Da qui, una torrenziale produzione di analisi, resoconti, narrazioni, tutti all'insegna della mitopoiesi, che vorrebbero dimostrare la ragione per cui non si può fare a meno di unirsi ai gilet-gialli.
Siamo qui di fronte ad un robusto determinismo, quello che giura sull'ineluttabilità di certi incontri che avvengono all'interno dei meccanismi storici oggettivi (quelli pratici Molotov-Ribbentrop o Mao-Chiang Kai Shek, per intenderci, ma pure quelli teorici Foucault-Khomeini o Badiou-Pol Pot). In effetti, in questa maniera è più facile far digerire qualsiasi cosa, pure la merda. Per chi considera l'avvento della destra al potere in Brasile una «occasione di ricredersi, di maturare e fare un po' meglio in avvenire», cosa volete che siano le bandiere tricolori in mezzo ai gilet-gialli? Come ha riconosciuto l'editore preferito dei neoblanquisti, la presenza dei fascisti al proprio fianco non è un problema perché «il nemico del mio nemico non è veramente mio amico, ma comunque un po' sì».
Inoltre, qualsiasi acrobazia è permessa a chi sa aggrapparsi ad un bispensiero che alterna con disinvoltura alleanze e conflitti con Oceania, Eurasia ed Estasia. Gli aspiranti generali dell'insurrezione di Stato sono così passati nel giro di pochi mesi dal sostenere i negoziati col governo in difesa della Zad (e sprangate su chi si oppone!) al tuonare che «tutti quelli che nei prossimi giorni si porranno da mediatori tra il popolo ed il governo saranno scorticati: nessuno vuole più essere rappresentato, siamo tutti abbastanza grandi per esprimerci, per vedere chi cerca di adularci, e chi di recuperarci. Ed anche se il governo indietreggiasse di un passo, proverebbe con ciò che abbiamo ragione di fare ciò che abbiamo fatto, che i nostri metodi sono buoni». Dopo aver concesso interviste ai giornalisti e partecipato a confronti televisivi con politici e poliziotti, oggi sostengono che bisogna «parlare fra di noi, non col potere. È molto importante smettere di credere che le possibilità reali siano dalla parte del potere, dalla parte di ciò che si è sempre fatto. Bisogna resistere alla logica del male necessario, al ricatto sociale». Con un paio di deretani già assisi sugli scranni istituzionali locali, ora puntualizzano che «concretamente la rivoluzione ha un solo scopo: uscire dalle strutture esistenti per costruire altro». (Qui in Italia, un mancato parlamentare di Potere al Popolo ha salutato i gilet-gialli criticando chi non riesce «a capire che la rottura con l’esistente è la pre-condizione affinché qualcosa di nuovo possa sorgere»).
Questo linguaggio refrattario al significato delle parole, perché attento solo all'indice di gradimento della loro effimera performance, non si fa scrupoli a giurare sulla virtù insurrezionale della destituzione sebbene in realtà essa sia la versione politica del licenziamento, ovvero una rimozione dall'incarico decisa dall'alto (e per questo facilmente accettabile dai gilet-gialli). La destituzione invocata dai neoblanquisti, quella che «ovviamente non significa eleggere nuovi rappresentanti» bensì «riprendere in mano localmente, cantone per cantone, tutta l'organizzazione materiale e simbolica della vita» (come dice un compagno di consiglieri comunali), è verosimile quanto… una prostituzione che «ovviamente» non significhi fare sesso in cambio di denaro, bensì sperimentare l'amore in piena autonomia e gratuitamente; oppure una polizia che «ovviamente» non significhi apparato repressivo dello Stato, bensì autodifesa dai possibili pericoli che incombono sulla propria esistenza (come direbbero un cliente di qualche pappone o un amico degli sbirri).
Se il rischio del linguaggio della rivolta è quello di non essere compreso dai nostri potenziali complici, quello della grammatica dello Stato è di essere fin troppo ben compreso e condiviso dai nostri sicuri nemici. Capiamo che ciò non costituisca un problema per chi vuole ottenere una mera riconfigurazione dell'esistente, ma chi aspira a tutt'altra esistenza umana non ha dubbi su cosa scegliere, fra la poesia dell'ignoto e la propaganda del luogo comune. La prima porta altrove rispetto al regno dell'autorità e del denaro, la seconda al massimo gironzola nei suoi paraggi. 
Non si tratta di un vezzo formale, ma di una attenzione sostanziale. Non si può nascondere che in sé l'adrenalina delle esplosioni sociali non basta ad impedire il ritorno alla normalità. Il carnevale dove tutto vale è una parentesi, chiusa la quale si torna alla disciplina. L'ebbrezza dell'attimo deve essere accompagnata dalla lucidità della prospettiva. È questo l'enorme ostacolo che devono affrontare gli anarchici, una preoccupazione soltanto loro. A differenza dei rivoluzionari autoritari, per cui la barricata serve unicamente da trampolino verso il tavolo di trattative le quali hanno bisogno di ordine per essere portate avanti, gli anarchici non possono permettersi di lasciare in piedi neanche un ciottolo del vecchio mondo. La sua riproduzione deve diventare impensabile.
 
Il guaio di tutti i militanti — disfattisti o entusiasti che siano — è che nelle situazioni di effervescenza sociale il loro cervello è tarato per porsi un unico quesito, ovvero quali rapporti diretti e produttivi instaurare coi movimenti di protesta. Quando il Popolo si muove, scatta automaticamente in loro il riflesso condizionato di trovarsi al suo fianco, gomito a gomito. Respirare la stessa aria, indossare lo stesso abito, mangiare lo stesso pane, scandire lo stesso slogan, esserci. Se non lo si accompagna, se non lo si consiglia, se non si conquista il suo rispetto, come si può pensare di indirizzarlo verso la giusta direzione?
Quindi, non appena intravedono il Popolo agitarsi, tutti i militanti gli si precipitano addosso. C'è chi, prima di decidere se abbracciarlo, gli misura il cranio, gli annusa il culo, gli verifica l'albero genealogico, e chi invece è più disponibile a tuffarsi in mezzo a qualsiasi cloaca pur di cavalcare l'onda. Gira e rigira, tutti i dibattiti sul si va o si fischia ruotano attorno a questa differenza.
Non fossero militanti, si sarebbero accorti da un pezzo che nessuno ha bisogno di loro per insorgere (gli immigrati che radono al suolo i centri di detenzione, ad esempio, non hanno affatto bisogno degli antirazzisti; sono gli antirazzisti che applaudono ed incitano a quelle rivolte ad aver bisogno degli immigrati). Ma essendo militanti, sono ossessionati dalla ricerca del soggetto rivoluzionario al cui servizio mettersi. Sarà quello giusto? Sarà mica sbagliato? E se fosse quell'altro? Si va coi sudaticci gilet-gialli o si va coi profumati studenti?
Per fortuna non tutti sono militanti. Ci sono anche quelli che non si pongono minimamente l'interrogativo di cosa vogliano ottenere davvero gli altri, giacché hanno ben altra questione che li tormenta: cosa vogliamo raggiungere davvero noi? Considerato il disordine che si è venuto a creare, poco importa per quale motivo, come si può trarne vantaggio? In mezzo a quel caos che rallenta l'intervento repressivo e facilita il mordi-e-fuggi, si possono aprire possibilità altrimenti chiuse? Lontano da quel caos su cui si concentra il controllo repressivo, si possono raggiungere obiettivi altrimenti invulnerabili? Ecco che ritorna il riferimento alla Mesa Verde.
Se quanto riportato dai giornali è vero, un clamoroso esempio concreto in tal senso è avvenuto nel corso della manifestazione del 24 novembre a Parigi. Mentre gli Champs-Elysées erano teatro di violenti scontri, la boutique Dior che si trova proprio sulla «strada più bella del mondo» è stata assaltata ed avrebbe subito un furto di gioielli per un valore che ammonta a 500.000 euro. Nel compatire profondamente chi pensasse che «un simile atto è del tutto inutile dal punto di vista rivoluzionario», a scanso di interessati equivoci precisiamo che si tratta solo di uno dei tanti possibili interventi in tali contesti, di una fra le tante ipotesi da esplorare. Per farlo non ha senso scrutare con scienza la composizione di classe del movimento in corso, meglio scrutare con fantasia la mappa del territorio.
Allo stesso modo, qualora si tentasse non di approfittare della protesta, ma di influenzarla, anche qui c'è una profonda differenza fra l’accompagnare un movimento per prenderne la testa e il farlo precipitare. Due piccoli esempi banali: in sé, non c'è alcun bisogno di rapportarsi con il movimento per manifestare l'odio per lo Stato ed i fascisti nel corso degli scontri, o minacciare i candidati rappresentanti chiamati a trattare. Nel primo come nel secondo caso si va contro le rivendicazioni del movimento e contro le esigenze dello Stato.
Lasciamo pure che funzionari del potere e del contropotere esprimano il proprio stupore davanti alla scoperta dell'acqua calda: la rabbia non sa che farsene di partiti e sindacati, quando è senza rappresentazione e rivendicazione diventa irrecuperabile, e difficilmente contenibile quando passa dal centro alla periferia. Chi detiene il potere in Francia, ricordando quel monito secondo cui «la politica non è risolvere i problemi, ma far tacere quelli che li pongono», ha appena pronunciato in televisione un discorso diretto al cuore degli spettatori, ovvero al loro portafoglio. Chi vorrebbe detenere il potere in Francia, rammentando quel precetto secondo cui «la politica non è che una maniera di agitare il popolo prima di servirsene», dovrà ora decidere se accontentarsi di vantare il successo politico ottenuto dalla protesta, oppure proseguirla per puntare ancora più in alto.
Ma chi vuole distruggere il potere, in Francia come ovunque, sa bene cosa non deve dimenticare.
 
«Astieniti da ciò che ha la testa sulle spalle.
Regola il passo su quello delle tempeste»
 
[11/12/18]