Brulotti

Antiprogressismo in Leopardi

Adriano Tilgher
 
Ciò che all’età sua Leopardi non sapeva perdonare era l’esaltazione della Ragione come forza benefica ormai destinata essa sola a reggere l’umanità, era l’ideologia con cui essa giustificava a sé stessa il suo travaglio: l’ideologia del Progresso perpetuo necessario illimitato e del Lavoro concepito come dovere supremo e somma felicità dell’uomo ed esaltato come forza demiurgica creatrice di una società più ricca, più giusta, più felice. Ideologia che nei primi anni del secolo decimonono, favorita dalla pace succeduta alle guerre napoleoniche e dai primi trionfi della grande industria, era diventata una vera e propria religione laica, il Sansimonismo, che di Francia cominciava a dilagare in tutta Europa. Contro questa ideologia che esalta le magnifiche sorti e progressive dell’umanità (La Ginestra) il poeta scocca frecce di cui il secolo trascorso dopo che furono lanciate mostra ad esuberanza quanto fossero acute e come toccassero il segno. 
Che il cresciuto commercio, i progressi tecnici, la possa de’ lambicchi e delle storte — e le macchine al cielo emulatrici (Palinodia), la diffusa istruzione possano dare all’uomo benessere e distrazione, egli ammette volentieri; ma felicità, no di certo. Felicità delle masse? E come possono essere felici le masse quando gl’individui uno per uno son tutti infelici! Egli prevede le guerre che nasceranno dalla concorrenza commerciale e industriale. L’amore universale bandito dai fanatici del Progresso come meta finale del progresso umano gli sembra una utopia, e nemmeno troppo bella: l’amore universale ucciderà l’amor di patria, e chi lo sostituirà non sarà l’amore di ognuno per tutti, ma l’odio di ciascuno contro ciascuno e l’egoismo universale. Pensare che l’intensificarsi dei commerci, il crescere del confort, il progresso tecnico significhi miglioramento morale è per Leopardi follia: in ogni età, con o senza macchine, virtù valore merito staranno in basso; ardire frode mediocrità trionferanno; il buono sarà sempre vinto, il vile sarà sempre vittorioso, il debole sarà sempre oppresso, il povero sarà sempre servo e ciò per legge di natura ineluttabile (Palinodia. Cfr. anche Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi). 
Di che si vanta questa età? Del progresso? Ma gli Antichi erano più forti, quindi più felici, di noi. Dei lumi più diffusi? Ma il sapere progredisce per opera di pochi dottissimi, non di molti semidotti. Dei suoi studi di economia, statistica e politica? Ma alla felicità contribuisce più la immaginazione che la ragione, più la poesia che la scienza, più il dilettevole che l’utile (Dialogo di Tristano e di un Amico; lettera a Giordani 24 luglio 1828). Ma se 
 
Di questa età superba, 
Che di vote speranze si nutrica, 
Vaga di mance, e di virtù nemica: 
Stolta, che l’util chiede, 
E inutile la vita 
Quindi più sempre divenir non vede 
(Il Pensiero dominante). 
 
il poeta è sdegnato e disgustato, non meno sdegnato e disgustato è «di quelli che piangono, condannano, biasimano, oppugnano, combattono la civiltà moderna e i lumi del secolo e i suoi progressi» (Discorso sui costumi degl’Italiani) e vorrebbero il ritorno al Medio Evo.
Insomma, ciò di cui Leopardi non vuol sapere non è la civiltà moderna, che molto occupando l’uomo molto lo distrae, è la Filosofia del Progresso. E non ne vuol sapere perché in essa (molto esattamente) vedeva una forma laica del Cristianesimo, un nuovo antropocentrismo, un rigurgito di Medio Evo. Infatti dire che l’uomo è oggetto delle cure di un Dio personale che lo ha messo al mondo, si è incarnato ed è morto per lui, ne guida i passi, e lo conduce a una finale felicità, e dire che il cammino dell’Umanità è retto dalla legge del progresso perpetua indefinito necessario (legge che per alcuni era voluta da Dio, per altri era Dio sesso, Dio immanente) è, in fondo, la stessa cosa, è sempre un concepire il mondo come retto da una potenza provvidente e benevola all’uomo, è sempre un fare dell’uomo il centro del mondo, il termine finale del moto delle cose. Il Cristianesimo professava il Dio-Uomo; la Filosofia del Progresso l’Uomo-Dio; ma per Leopardi il mondo non è retto da nessuna legge provvidenziale di svolgimento, è a caso, dominio di un Potere ignoto e ostile, e l’uomo non può mai essere altro che uomo cioè un animale inesorabilmente infelice. E la Filosofia del Progresso gli sembrava cullasse l’uomo in vane speranze e ne incoraggiasse la segreta viltà: «Ho il coraggio — scrive magnanimamente Leopardi — di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell'infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera» (Dialogo di Tristano e di un Amico). 
Ci sono stati, certo, pensatori più grandi di Leopardi, ma nessuno mai animato da più intrepida ed eroica volontà di scrutare la verità fino in fondo, per triste e desolata che ne fosse la vista. Nessuna meraviglia, perciò, che quella «filosofia» dell’accomodamento, dell’ipocrisia e della pusillanimità ch’è il pseudoidealismo italiano gli sia nemica e tenti ridicolmente negargli qualità di filosofo. 
 
 
[La filosofia di Leopardi, 1940]