Brulotti

Sportivi, vi odio!

Arthur Cravan [Rémy Ricordeau]
 

Parallelamente alla vecchia esaltazione religiosa del sacrificio che, oggi desacralizzata, rimane nondimeno una perenne apologia della rinuncia, è coerente con la morale dei nostri padroni voler riaggiornare la non meno antica esaltazione dello sforzo.

Sarebbe tuttavia sbagliato vedere in questo insistente invito allo sforzo solo una forma modernizzata della tradizionale sollecitazione al lavoro. Innanzitutto perché viene rivolto a tutti, e quindi anche a coloro che, bene o male, sono per l'appunto privi di questo lavoro (o se ne sono privati da soli). Dobbiamo intendere questa esaltazione anche come un invito urgente all'oblio: di se stessi, della percezione che si ha del mondo, di ciò che si è e di ciò che si potrebbe essere.

Sotto tutti gli aspetti, lo sport e l'ideologia del superamento di sé che esso veicola rispondono a questo scopo. Così il noto motto di uno dei suoi più famosi propagandisti è diventato il principale espediente retorico del dominio: l’importante è partecipare — una partecipazione che ovviamente deve essere considerata nel senso più ampio. Attivi al lavoro, allo stadio, al seggio elettorale... O passivi davanti alla propria Tv. La pratica di uno sport è ovviamente uno sfogo (quindi partecipa all'oblio) delle frustrazioni più diverse, e l'incoraggiamento al suo sviluppo è quindi una delle punte di diamante della strategia di integrazione di tutte le rivolte che la nostra epoca non manca di suscitare. Inoltre, il tentativo di mettere in riga la gioventù ribelle delle periferie passa prima attraverso un inquadramento sportivo, essendo lo sport inteso qui come una forma di comunicazione e di espressione ammissibile da una gioventù che ha come unico linguaggio quello della rivolta disperata. Già si conoscono i corsi sportivi organizzati nell'ambito delle operazioni «anti-estati calde»; adesso si costruiscono le scuole di polizia nel cuore delle città, e la pratica sportiva consensuale viene presentata come elemento centrale di riconciliazione, un possibile dialogo tra i giovani e la polizia, essendo come prima essenziale partecipare.

D'altra parte la spettacolarizzazione dello sport, la sua divizzazione, permette anche di mantenere la finzione di una possibile ascesa sociale, democraticamente accessibile a tutti e trascendente i criteri di origine sociale o etnica (i calciatori noti non sono di origine modesta? e i migliori fra loro non sono neri?). Diventando ideologico, lo sport è diventato pedagogia civica, partecipando in ciò al mito del successo individuale e della realizzazione di se stessi. Perché in quel suo stesso movimento suscita e consente un'identificazione con i modelli dominanti a cui conviene aderire: quelli dei combattenti e dei vincitori, fuori dei quali non c'è salvezza. Passiva o attiva, con o senza illusioni circa il suo obiettivo finale, l'adesione a tale ideologia ovviamente passa innanzitutto attraverso la negazione della propria libertà. Perché l'esaltazione del «superamento di se stessi» è prima di tutto per coloro che vi si impegnano, a prezzo di una rinuncia di sé e di una contrizione permanente. Ad esempio, è sufficiente vedere una persona che fa jogging in pieno sforzo per capire a quali flagellazioni essa si condanna nell'espiazione di una falsa coscienza sempre più invasiva (si sa che in materia di alienazione, foss'anche la più moderna, i vecchi riflessi religiosi non sono mai molto distanti).

E allora, presto per strada non vedremo che sportivi? Abbiamo imparato a sputare sui preti (o sui loro omologhi musulmani, israeliti o quant'altro) e su tutti i sostenitori di un qualsiasi ordine — ora è bene non dimenticare gli sportivi!
 

[Mordicus, n. 6, ottobre 1991]