Miraggi

Appunti a matita

Isabelle Eberhardt
 
È stata definita «la buona nomade», la «Louise Michel del Sahara», l’«amazzone delle sabbie», la «Rivelazione del Sahara», c’è chi è arrivato a suggerire che fosse la figlia segreta di Arthur Rimbaud. Inclassificabile ed irregolare Isabelle Eberhardt (1877-1904), scandalosa per gli uni, affascinante per altri, la sua vita è avvolta in un mistero propizio al sogno. Figlia illegittima di una nobile russa e di un anarchico armeno, nata e cresciuta a Ginevra ma ben presto appassionata abitante del deserto nord-africano, donna europea travestita da uomo algerino, convertita all’Islam ma dedita al vizio, sospettata al tempo stesso di essere una traditrice della razza bianca ed una provocatrice al servizio dei colonialisti, nel 1901 sopravvisse ad un attentato ma morì tre anni dopo, a soli 27 anni, nel modo più incredibile e paradossale: annegata nel deserto! I testi che ha lasciato, soprattutto racconti, sono stati quasi tutti pubblicati postumi (non senza passare prima attraverso il setaccio di una morale poco tollerante nei confronti dei refrattari di ogni regola e ideologia).
 
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Un diritto che ben pochi intellettuali si preoccupano di rivendicare è il diritto all’erranza, al vagabondaggio. Eppure il vagabondare è liberazione, e la vita lungo le strade è libertà. Spezzare un giorno coraggiosamente le catene con cui la vita moderna e la debolezza del nostro cuore (col pretesto di offrirci libertà) ci hanno appesantito, armarsi dei simbolici bastone e bisaccia e andar via!
Per chi conosce il valore ed anche l’amato sapore della libertà solitaria (perché non si è liberi finché non si è soli), l’atto di andarsene è il più coraggioso e bello.
Una libertà egotista, forse. Ma è la felicità, per chi sa assaporarla.
Essere solo, essere povero di bisogni, essere ignorato, straniero e a casa propria dappertutto, e camminare grande e solitario alla conquista del mondo.
Il viandante pieno di salute che, seduto sul bordo della strada, contempla l'orizzonte libero aperto di fronte a sé, non è forse l'assoluto padrone della terra, delle acque e persino dei cieli? Quale castellano può rivaleggiare con lui in potenza ed opulenza? Il suo feudo non ha limiti, il suo impero non ha leggi. Nessun servaggio avvilisce il suo passo, nessun lavoro piega la sua schiena verso la terra che possiede e che a lui si offre in piena bontà e bellezza.
Nella nostra società moderna il paria è il nomade, il vagabondo, il «senza fissa dimora». Aggiungendo queste poche parole al nome di un qualsiasi irregolare, gli uomini dell’ordine e della legge credono di farlo appassire per sempre.
Avere una casa, una famiglia, una proprietà o un pubblico impiego, avere dei mezzi di sostentamento ben definiti, essere insomma un utile ingranaggio della macchina sociale: tutte cose che sembrano necessarie, quasi indispensabili all’immensa maggioranza degli uomini, anche agli intellettuali, anche a coloro che si credono i più liberi. 
Eppure tutto ciò è solo una diversa forma della schiavitù a cui ci costringe il contatto con i nostri simili, soprattutto un contatto regolato e continuo.
Ho sempre ascoltato con ammirazione, senza invidia, i racconti delle brave persone che hanno vissuto per venti o trent’anni nello stesso quartiere, o addirittura nella stessa casa, che non hanno mai lasciato la loro città natale.
Non sentire il torturante bisogno di conoscere e veder cosa ci sia laggiù, al di là della misteriosa muraglia azzurra dell’orizzonte… Non sentire la deprimente oppressione della monotonia degli scenari… Guardare la strada che si dipana bianca verso lontananze sconosciute, senza sentire il bisogno imperioso di abbandonarsi ad essa e di seguirla docilmente, per monti e per valli. Questo pauroso bisogno di immobilità assomiglia all’incosciente rassegnazione della bestia, abbrutita dalla servitù, che tende il collo al basto.
Ogni proprietà ha dei confini. Ogni potere ha delle leggi. Ma il viandante possiede tutta intera la terra il cui limite è l’orizzonte irreale, e il suo impero è intangibile, perché egli lo governa e ne gode nello spirito.
È tutto finito: nessuna nuova illusione, né affascinanti incantesimi, né felicità nel futuro... C'è solo la pace dei dubbi giustificati e realizzati, la nebbia della disperazione nel mio cuore ferito. Quanto poco ho vissuto e quanto ho sofferto! La speranza luminosa, la giovinezza, la felicità, tutto finito... Ne ho portato il lutto... tutto è sepolto e non risorgerà più!
Ho creduto nella fratellanza degli uomini, ma nel buio giorno della sventura non sono riuscita a distinguere i miei fratelli dai nemici. Desideravo per gli uomini verità e libertà... ma il mondo è rimasto lo stesso mondo di schiavi imbecilli. Sognavo di lottare senza tregua contro il male con la fiamma e la verità dei miei discorsi accusatori... Ma nel tempio della verità, nel tempio sacro del pensiero, trovo solo un’orgia di ipocriti.
L’amore fugace, l’amore gioco e distrazione nella noia, l’amore, ebbrezza di sangue e nome dell’anima, l’amore — incubo del malato, no, non mi pento di quell'amore!
Ma non era questo che sognavo nelle mie notti insonni... No, era l'amore puro e vero la cui immagine sublime mi ossessionava!
Povera come una mendicante, bugiarda come una schiava, vestita di stracci luminosi, la vita è bella solo a distanza e attrae solo se guardata da lontano.
Ma non appena le presti attenzione, non appena la incontri faccia a faccia, ne comprendi la menzogna... Ti accorgi che la sua maestà è solo un'illusione sotto le sue false dorature e che la sua bellezza è artificiale come quella di una prostituta truccata...
 
 
Amico, come hai potuto entrare qui, senza abito nuziale?
(Vangelo)
 
Il tuo cuore ardente e sensibile, torturato e martirizzato nelle tenebre della tempesta, aspira alla felicità della beatitudine universale e crede di scorgervi la propria beatitudine.
Ma, amico mio, i santi voli dell'anima sono inutili: nell’arena insanguinata della vita c'è abbastanza spazio per il mercato dell'avidità, ma non ce n’è per il tempio luminoso dell’amore!
Eppure, se le maledizioni tacessero veramente, se Baal fosse realmente distrutto, se gli uomini si abbracciassero come fratelli, se l'ideale scendesse dal cielo sulla terra... dimmi: in questo mondo rinnovato e gioioso, tu, abituato al tuo santo dolore, saresti felice in questa festa della vita, tu che hai sofferto per l'umanità e che hai voluto la sua felicità?
Il tuo cuore — questo cuore malato, diventerebbe muto sotto il dolore così come la terra diventa sterile sotto la tempesta. Non scambierebbe la croce delle beate sofferenze e lacrime con la felicità del riposo... E se un giorno rimpiangesse il suo destino di combattente e di profeta dalle idee chiare, come un prigioniero abituato alla cattività rimpiange la sua oscura prigione?…
 
 
[Pages d’Islam, 1932]