Brulotti

Nel disordine dei sogni

 
A mo’ di introduzione 
 
Ce lo hanno detto e ripetuto fino allo stordimento, tutti lo sanno — «In principio era il Verbo». Può anche darsi, certo. Ma il calendario corrente segna inequivocabilmente il 2019, per cui è inutile prendersi in giro. Alla fine è l’Immagine. 
È da parecchio tempo che il Logos ha fatto fagotto, nessuno vuole più entrare nella sua tenda ed accomodarsi in posizione circolare (ovvero equidistante rispetto al centro, simbolica garanzia di parità). A chi volete che interessi la sua parola, il suo significato, la sua potenza, il suo atto, da comprendere e... ripetere in coro? No, perché con la parola gli esseri umani sono ai primi passi della loro avventura e rimarrebbero fermi se restassero immobili accanto ad essa. Chi vuole procedere oltre deve liberarsi dalla superstizione del Logos, uscire dalla sua tenda e tentare di creare il proprio mondo nella maniera più terribile che esista: incarnandolo, ognuno, individualmente. 
Suona affascinante, vero? Peccato che occorra troppo ascolto, troppa lettura, troppa memoria, troppa riflessione, troppa discussione, e poi troppa immaginazione, troppa determinazione... insomma, troppa fatica. 
Meglio restare fermi accanto a qualcos’altro. Meglio il facile e rilassante consumo passivo di immagini che prendono forma e si animano davanti ai nostri occhi, già bell’e confezionate. Senza il minimo sforzo. Di fronte ad uno schermo, nessuna equidistanza, nessuna parità: in mezzo al pubblico c’è chi sta davanti e chi sta dietro, c’è chi si può permettere una risoluzione maggiore del prodotto e chi si deve accontentare di una minore. Alla fine dello spettacolo si resta comunque tutti liberi — sì, liberi di applaudire o di fischiare. 
È quasi atroce constatare come oltre un secolo di critica alla tirannia del linguaggio — alla sua inadeguatezza a rappresentare una realtà irriducibile allo sguardo umano, alla sua pretesa normativa dell’esistenza, all’incolmabile distanza che separa le parole dalle cose, alla sua banalizzazione dell’esperienza sensibile — sembra non aver contribuito ad altro che a fomentare l’entusiastica rassegnazione generalizzata alla chiacchiera, allo slogan, alle istruzioni tecniche d’uso, ai rutti pro e contro le didascalie che accompagnano il flusso di immagini che hanno colonizzato la nostra immaginazione. Come se tutto il pensiero più sovversivo e tutta la poesia più maledetta fossero caduti ostaggio degli esperti della propaganda e della pubblicità, i quali li hanno costretti a mettersi al loro servizio. Quando un ministro degli interni cita George Orwell per difendere il potere, quando un amministratore delegato cita Oscar Wilde per stuzzicare il mercato, come continuare ad affidarsi alla virtù delle parole? Se poi, dall’altro lato della barricata, non si fa altro che invocare non un pensiero critico in grado di risvegliare ognuno singolarmente, bensì una narrazione capace di ipnotizzare tutti collettivamente... 
Ecco, davanti a tale sconsolante situazione — la miseria del presente — si capisce perciò bene quanto possa diventare imperiosa la tentazione di prendere congedo da un mondo sempre più privo di senso ed incanto, limitandosi magari a lenire le ferite del proprio animo con il balsamo del silenzio. Ma si capisce anche come chi non intende cedere a una simile tentazione, tanto comprensibile quanto mesta, si trovi sempre più stretto dalla necessità di sottrarre le proprie parole all’arruolamento forzato. 
Come fare? Nessuna ricetta magica, solo tentativi. C’è chi — alla stregua degli antichi alchimisti — si barrica dietro un linguaggio ostico, impenetrabile, quasi iniziatico, privo di ogni attraente sembianza, per non cadere preda degli «sparvieri mentali» della falsa parola. E c’è chi invece, come in questo caso, preferisce puntare su una prosa frammentaria. 
Le ragioni dietro quest’ultima scelta sono note, essendo state più volte esposte. Il linguaggio si fa frammentario per rendere palpabile l’impossibilità di esprimersi in maniera esaustiva, definitiva. Infatti, la fine dei sistemi e dei programmi non può diventare un inedito sistema o un originale programma. Le macerie vanno disperse, non devono servire da punto di partenza per erigere ulteriori monumenti. Una volta liberata da ogni pretesa «ontologica», la parola richiede discontinuità essenziale, informalità permanente, al fine di rendere il pensiero indisponibile all’essere organizzato ed espresso solo in vista dell’unità. Questa parola talvolta assente, con i suoi buchi logici che provocano salti mentali, non va confusa né con l’incompletezza, né con l’incompiutezza. Non è mancante per accidente, ma per necessità. In essa non va cercata la potenzialità di una bozza, bensì la potenza della frammentazione. 
Il frammento ci ricorda, più implicitamente che esplicitamente, che il dispiegamento della logica non può nulla per salvare il discorso dal disordine di cui pretende rendere (e fare di) conto. Ma, anziché ammutolirsi davanti a questa consapevolezza, si rimette in causa la parola. È qui che si gioca la possibilità di far apparire la pluralità, la molteplicità, la differenza. Resta ovviamente da vedere se il frammento (si) apra con la sua possibilità più che chiuder(si) nella sua impossibilità. 
Nelle pagine che seguono il linguaggio si fa anche circolare, come una spirale. I pensieri si avvolgono su se stessi, ritornano sul loro percorso, in una riflessione infinita. Effetto vortice, che si crea e si distrugge, si propaga e si disperde, attira ed allontana, cambia forma e dimensione. 
Frammentarietà, informalità, eterogeneità che sono da sempre tratti caratteristici dell’anarchismo, negazione di ogni unità sistematica ed omologante. Con la sua bussola logica capace di guidarlo nella foresta dei fenomeni, il pensiero autoritario ha imparato ad utilizzare il mondo. Lo sa identificare con nomi, misurare con calcolo, classificare con ordine. Per acquisire tutta questa conoscenza l’essere umano ha sacrificato desideri e passioni. Una volta dominati i fatti, li ha addestrati e sfruttati per ricavarne denaro. La foresta dei fenomeni è stata quindi abbattuta e devastata, sostituita dal deserto. E per acquisire tutta questa opulenza l’essere umano ha sacrificato ragioni e significati. Come se prima si fosse sbarazzato del disordine dei sogni, poi dell’equilibrio della realtà. 
La questione da porsi è un’altra: perché mai un pensiero anti-autoritario che non accetta il silenzio del deserto, ma si ostina a cercare di creare il magico mormorio della giungla, dovrebbe accontentarsi delle ammuffite alternative messe a disposizione dai suoi nemici? Perché giocare a testa o croce con una moneta, per di più coniata dal potere? Né l’erudizione della scienza né la cialtroneria dell’ignoranza, né l’acrobazia dello spettacolo né il mito della narrazione. Ma una teoria che sia occhio selvaggio, ma una poesia che sia braccio energico, in quel corpo umano che è il solo luogo in cui nasce, vive e muore la libertà. 
 
Jamala Désir
Nel disordine dei sogni
Frammenti sparsi sul linguaggio
e sulle mutilazioni del realismo
S-edizioni 
pp 100, 3 di vile denaro
(2 per i distributori)
 
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