Brulotti

Apocalissi e ragion di Stato

Nicola Chiaromonte
 
A Parigi, Robert Oppenheimer ha dichiarato che, lui, all’Apocalissi atomica ci crede; e ha anche spiegato che, per Apocalissi, egli intende la distruzione dell’umanità, non solo un qualche immenso disastro: «Non è più lecito credere che il genere umano possa sopravvivere a una guerra atomica».
Interrogato sull’efficacia di un controllo internazionale o di un accordo di disarmo, il celebre fisico ha risposto che si tratta di palliativi, e per di più irrealizzabili, perché, data l’evoluzione attuale della scienza, ogni misura di controllo su cui ci si accordasse sarebbe probabilmente superata dopo due anni.. Quanto alla «bomba pulita» di cui va così fiero il suo collega Edward Teller, Oppenheimer ha fatto notare che si tratterebbe pur sempre di un congegno capace di distruggere ogni cosa nel raggio di ottocento chilometri quadrati, quindi non eliminerebbe il carattere di «suicidio cieco» implicito nell’uso di armi simili.
La ragione del pessimismo di Oppenheimer è semplice: egli non ha alcuna fiducia nella saggezza non solo, ma neppure nel semplice comprendonio, degli uomini di Stato, dei militari e degli esperti da cui dipendono, oggi, le «grandi decisioni». Lo scienziato non dice che gli uomini di Stato, i militari e gli esperti sono dei folli e degli stupidi; dice che essi si trovano in una situazione tale da non poter agire altro che follemente e stupidamente: devono cioè ignorare deliberatamente l’enormità dei problemi che la loro azione solleva. Se la riconoscessero dovrebbero cessare di agire come agiscono, ma per riconoscerla dovrebbero adottare un principio d’azione diverso da quello che solo capiscono: la ragion di Stato. Le armi atomiche, e quelle non meno terribili di cui non si parla ma che esistono, esigerebbero che si pensasse in termini di destino dell’umanità e di natura dell’universo, non di Stati. Ma l’universo e l’umanità son concetti vaghi, quello di Stato invece è un concetto preciso, o così sembra.
Quindi si è disposti a adottare tutti i palliativi immaginabili (e anche questo solo in teoria), ma non le misure radicali, sole efficaci. E la misura più radicalmente indispensabile, oggi, sarebbe l’adozione di modi di pensare commisurati alla realtà nuova di un mondo dove tutto è possibile, niente è certo, e nel quale ogni presunzione di certezza rischia di causare catastrofi. Quali siano questi modi di pensare adeguati, tuttavia, nessuno lo sa: neppure gli scienziati. Ci vorrebbe un nuovo tipo di filosofo per cominciare a indicarli, dice Oppenheimer. Oggi come oggi, si può soltanto dire che l’umiltà, la cautela, il riconoscimento della propria ignoranza ne sarebbero i postulati primi.
Oppenheimer descrive la situazione morale dello scienziato contemporaneo in questi termini: «Lo sviluppo delle scienze è stato accompagnato da una specializzazione tale che qualsiasi uomo, oggi, può possedere solo un’infima particella delle conoscenze umane.
Questo suscita un sentimento d’ignoranza e di solitudine la cui intensità sembra proporzionale al sapere... Per quanto concerne gli scienziati atomici, a questo smarrimento si aggiunge la paura di un’arma della quale nessuna cifra ha esagerato l’orrore e che dovrebbe riempire di sgomento l’animo di ogni uomo onesto che si trova a esercitare un potere».
Il paradosso proprio della scienza moderna è che questo sentimento d’ignoranza e di solitudine, questa riduzione di ciò che un individuo può sapere a una particella sempre più infima, si accompagna alla certezza di un’apertura di orizzonti sconfinati di conoscenza e di potere.
«L’idea di progresso scientifico mi sembra ormai indissolubilmente legata alla nozione di destino umano», dice Oppenheimer; e si può supporre che voglia dire fra l’altro che nessun acquisto di conoscenze, oggi, rimane puramente teorico: anche le più astruse costruzioni della matematica possono tradursi in mezzi per influenzare, modificare, o minacciare le condizioni dell’esistenza umana. 
Lo scienziato non può quindi in nessun momento sentirsi esente da responsabilità, libero di giocare con le ipotesi, fiducioso, come nel secolo scorso, che le sue scoperte non possono, in definitiva, che servire l’umanità.
Secondo Oppenheimer, lo scienziato non può più neppure contare sull’idea che dal limite sempre più ristretto di ciò che un individuo può sapere e dall’accrescersi vertiginoso delle conoscenze, si finirà con lo sboccare in una sintesi armonica e globale: «La conoscenza non avrà mai più, a mio parere, un carattere globale... Siamo condannati a vivere in un mondo in cui, da ogni problema che si ponga, un altro ne sorgerà immediatamente, e così all’infinito. Uno dei caratteri angosciosi della conoscenza è la sua irreversibilità.
Temo che quelli che aspirano oggi alla sintesi o all’unità non facciano che invocare un’epoca scomparsa. Credo che una tal sintesi non si potrebbe ottenere che a un prezzo o della tirannia o della rinunzia. La sola via aperta mi sembra quella della ricerca di un equilibrio: a questo lo scienziato si esercita continuamente. Egli è obbligato all’equilibrio dalla disciplina scientifica stessa, che gli impone di distinguere il nuovo dall’abituale, l’essenziale dal superfluo, l’eroismo dalla servitù. La scienza esige una nozione di verità scevra d’ambiguità... implica necessariamente una fraternità e comunanza di spirito e d’azione senza di cui l’uomo rimarrebbe impotente, prigioniero di una visione troppo angusta della propria condizione, in un universo troppo complesso e troppo vasto. Se l’esperienza dello scienziato si potesse comunicare — e mi sembra importante che lo sia — essa permetterebbe di preparare un maggior numero d’individui alla difficile situazione dell’uomo dinanzi all’universo, situazione di fronte alla quale sia i filosofi che i governanti di oggi mi sembrano crudelmente anacronistici».
Oppenheimer, dunque, predica l’umiltà e l’equilibrio. La lezione, egli l’ha imparata da un’esperienza che non potrebb’essere più probante: dall’essersi trovato, lui scienziato, molto in alto fra quelli che ebbero a prendere grandi decisioni, e dall’avere egli stesso agito follemente, ossia senza sapere quel che faceva, privo di un criterio di scelta sicuro, alla cieca e per cieca necessità. Aveva fabbricato la bomba atomica senza sapere né se sarebbe riuscito, né che cosa esattamente avrebbe fatto se fosse riuscito; quando fu fabbricata, non seppe con certezza che uso se ne dovesse fare: se fosse logico usarla contro i giapponesi, ovvero — come proponevano alcuni scienziati — dare soltanto la dimostrazione spettacolare della sua potenza. Nel dubbio, egli fu d’accordo con gli uomini di Stato e i militari, i quali naturalmente pensavano che un’arma è un’arma: è fatta per annientare il nemico, non per essere «dimostrata». E si trova ancor oggi, Oppenheimer, a non saper dire quel che fosse giusto allora: «per quanto mi riguarda — egli ha confessato — non mi sentirei capace neppure dopo tanti anni di assumere la responsabilità che incombette agli Stati Uniti nel 1945». La responsabilità era troppo grande per una semplice coscienza d’individuo. Fu quindi presa da uno Stato, per ragioni di Stato.
Le ragioni di Stato non erano certo più chiaroveggenti di quelle di fisici come Franck e Szilard: erano soltanto più forti nell’immediato. Quegli scienziati pensavano all’avvenire, mentre i generali e i governanti pensavano all’immediato presente: terminare la guerra d’un colpo, con una prova di potenza sconfinata. Gli scienziati avevano ragione quanto all’avvenire. 
Ma la bomba era stata fabbricata per conto di uno Stato, ed era normale che le ragioni di Stato prevalessero: avevano anch’esse una loro logica, che era la logica dei risultati immediati.
Nell’immediato, quel che occorreva era la certezza dell’efficacia massima, e questa non si poteva avere che servendosi della bomba sul serio. Poi si sarebbe visto.
Quel che si è visto è la prosecuzione meccanica della logica della ragion di Stato, la logica dell’immediato e dell’efficacia. Si è arrivati a una situazione, la presente, in cui la decisione se usare o no le armi assolute finisce col dipendere non da una decisione umana, ma da un calcolo elettronico delle probabilità più o meno grandi che una certa situazione individuata da certe macchine sia quella in cui un certo Stato, essendo minacciato di morte imminente, non ha altra scelta che scatenare sull’avversario la medesima minaccia. 
Non si sapeva dove si andava nel 1945, lo si sa sempre meno oggi.
In compenso, la certezza dell’efficacia massima non manca davvero, anzi cresce continuamente. Ciò che manca è quel senso d’umiltà e d’equilibrio che dovrebbe nascere, in «ogni uomo onesto», dallo sgomento di trovarsi a esercitare un potere smisurato essendo certo solo della propria ignoranza. 
Invece, dall’ignoranza abissale in cui sono dell’«universo troppo vasto e troppo complesso» che ci circonda e ci domina, gli odierni governanti non sanno trarre altro consiglio che quello di spingere comunque le cose agli estremi. Il colmo dell’ubris.
 
 
[Tempo Presente, anno III, n. 5, maggio 1958]