Brulotti

Collassologia: un discorso reazionario?

Jean-Baptiste Fressoz
 
Il tema del tracollo della civiltà industriale, molto presente a partire dagli anni 70, ritorna oggi alla ribalta. Dalla pubblicazione del best-seller Collapse di Jared Diamond nel 2005 (Collasso, Einaudi), è tutto un susseguirsi di nuovi saggi, articoli e conferenze, che predicono un «crollo» a breve termine delle grandi strutture produttive e politiche del mondo industriale. Questa moda del collasso — alla quale non si riduce il pensiero ecologico contemporaneo — è ovviamente legata alla crisi ambientale: la sesta estinzione delle specie, il prevedibile riscaldamento di 3°C nel 2100 e, più in generale, lo sconvolgimento dei cicli biogeochimici, in breve, ciò che gli scienziati del sistema Terra chiamano «antropocene». Ma «crollo» è la parola giusta? È il modo giusto di descrivere e quindi di pensare ciò che sta accadendo? Senza esprimere un’opinione definitiva, vi intravedo perlomeno quattro problemi.
In primo luogo, il termine crollo è troppo antropocentrico. Poiché, di che crollo stiamo parlando? Quello della natura si è già ampiamente consumato: gli esseri umani ed il loro bestiame rappresentano il 97% della biomassa dei vertebrati terrestri; rimane solo il 10% dei grossi pesci rispetto al periodo tra le due guerre; in Germania, gli insetti sono diminuiti di tre quarti in trenta anni. Focalizzandosi sul prossimo tracollo della civiltà industriale, il rischio è di diventare ciechi davanti ai tracolli della natura che sono già in corso ed anche piuttosto avanzati.
In secondo luogo, il discorso sul collasso è alquanto «occidentalcentrico». In parole povere, è una ecologia per ricchi. Ciò che stiamo vivendo è infinitamente più perverso: il cambiamento climatico accentua le altre forme di violenza e disuguaglianza. Suprema ingiustizia, è causata dai ricchi e perseguita soprattutto i poveri dei paesi poveri. E d’altronde è proprio questa caratteristica a spiegare l'apatia generale. Quando si vede l'oceano d'indifferenza nel quale annegano decine di migliaia di rifugiati nel Mediterraneo, come si può sperare di mobilitare evocando il contadino del Bangladesh scacciato dalla sua casa dal montare delle acque? La «pedagogia della catastrofe» è un'illusione smentita dalla storia: chi si ricorda, a parte i paesi interessati, del ciclone Bhola (almeno 300.000 morti in Bangladesh nel 1970), del tifone Nina (170.000 morti in Cina nel 1975) o del ciclone Nargis (130.000 morti in Birmania nel 2008)? E in Europa, cos’hanno cambiato i 70.000 morti dell'ondata di caldo del 2003? Bisogna riconoscere al capitalismo la sua straordinaria resilienza di fronte ai disastri di ogni tipo.
In terzo luogo, l'attuale discorso sul crollo mescola due cose: la perturbazione del sistema Terra e la sesta estinzione, che sono comprovate, e l'esaurimento delle risorse fossili che viene costantemente rimandato. Il problema è che questi due fenomeni si svolgono su scale temporali assai diverse: secondo i climatologi, per non superare i + 2°C nel 2100, occorrerebbe lasciare sotto terra i due terzi delle riserve di petrolio, di gas e di carbone economicamente sfruttabili [1]. In altre parole, il capitalismo fossile sta a meraviglia, è nel pieno vigore degli anni, il suo tracollo è poco probabile, ed è proprio questo il tragico della situazione.
In quarto luogo, il discorso sul crollo spoliticizza la questione ecologica. Un po' come gli intellettuali marxisti degli anni 70 che attendevano il crollo del capitalismo sotto il peso delle sue contraddizioni interne (la famosa caduta tendenziale del saggio di profitto), non avrebbe senso aspettare il crollo del capitalismo fossile in quanto sarà «la natura» a deciderlo. La lotta ecologica non deve mobilitarsi contro, ma per il crollo, quanto meno del capitalismo fossile.
Tutti questi problemi, il crollo li deve alle sue origini intellettuali e politiche. All'inizio del XIX secolo, le élite liberali uscite dalla Rivoluzione francese utilizzavano già questo discorso per reprimere gli usi della natura — in particolare le terre comuni forestali — delle masse contadine liberate dagli obblighi feudali. Nello stesso momento, in Inghilterra, Malthus spiegava che occorreva tagliare gli aiuti ai poveri per evitare che prolificassero pericolosamente. Durante tutto il XIX e il XX secolo, il crollo viene sostenuto prima di tutto dai cantori dell'industria e dell'Impero: è l'economista Stanley Jevons a preoccuparsi per il dominio della Gran Bretagna a corto di carbone; è Paul Leroy-Beaulieu a giustificare il saccheggio delle risorse coloniali nel nome del previsto crollo dell'Europa; è la commissione Paley istituita da Truman ad organizzare il drenaggio di materie prime dal Terzo mondo; ed è ancora il Club di Roma, un accolita di industriali e scienziati della guerra fredda ad aver stranamente sedotto la controcultura [2], ed i cui lavori hanno avuto un ruolo determinante nell'elaborazione del programma cinese sul figlio unico [3]. Si noti per finire che negli anni 90, quando la questione climatica è emersa nello spazio pubblico, il discorso del crollo inizialmente ha prodotto effetti su una cricca di consulenti che lavoravano per il Pentagono, neo-malthusiani ossessionati dai loro fantasmi razzisti — orde brune di rifugiati a causa del clima — desiderosi di prevedere anche i nuovi campi d’intervento dell'esercito americano in un Global South in preda al collasso generalizzato. Se in Francia si conosce soprattutto la «collassologia» di sinistra, quella di Yves Cochet, di Pablo Servigne e di Raphael Stevens che tentano di costruire una politica post-apocalittica emancipatrice, non bisogna dimenticare che il crollo nel corso della sua lunga storia ha alimentato le passioni politiche più nauseabonde.
«Sbagliare il nome di un oggetto — diceva Camus — significa incrementare l'infelicità di questo mondo». Se ottimisti, si potrebbe dire del crollo che la sua funzione politica è ancora incerta. Potrebbe diventare la tromba di una mobilitazione generale per il clima, ma potrebbe anche rafforzare l'opzione nucleare e domani, chissà, la geoingegneria. Il crollo scompare e riappare, retrocede o torna a rinvigorirsi adattandosi ai successivi futuri. Nell’attesa, le catastrofi si moltiplicano dappertutto, specialmente al di fuori di una civiltà occidentale che da due secoli non cessa di ammirare la sua potenza nel prisma del suo crollo.
 
 
[1] Unburnable Fossil-Fuel Reserves, di Michael Jakob e Jérôme Hilaire, Nature, vol. 517, 2015, p. 150-152.
[2] Il Club di Roma, finanziato dalla famiglia Agnelli (Fiat), è stato guidato dall'industriale Aurelio Peccei e Jay Forrester, l'inventore del computer digitale per le esigenze del programma nucleare statunitense, vi ha svolto un ruolo centrale.
[3] Fatal Misconception: The Struggle to Control World Population, di Matthew Connelly, Heron and Crane, 2008