Autopsia

La critica del marxismo in Simone Weil

Simone Pétrement
 
Il tema fondamentale della raccolta di saggi di Simone Weil recentemente pubblicata sotto il titolo Oppressione e libertà è l'esame critico del marxismo. Fu nel primo studio Prospettive (apparso nel 1933 sulla Révolution prolétarienne con il sottotitolo Andiamo verso la rivoluzione proletaria?) che si rivelò, secondo alcuni, il genio di Simone Weil. A diversi testi più brevi fa seguito il grande saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione, di cui alcuni conoscevano l'esistenza, ma che non era mai stato pubblicato. In questo studio di mirabile densità e forza, che Simone Weil chiamava la sua «grande opera», il suo «testamento» (lo scrisse prima di entrare in fabbrica), rammaricandosi in seguito di non averlo pubblicato, la critica del marxismo è abbinata all'analisi del progresso tecnico e delle condizioni di una società libera. I frammenti e saggi che seguono, tutti inediti, ne rappresentano, per la maggior parte, una elaborazione di dettaglio, un approfondimento dell'uno o dell'altro punto (alcuni particolarmente vigorosi e belli, come per esempio il frammento intitolato Le contraddizioni del marxismo e la Meditazione sull'obbedienza e la libertà). Infine, poco prima della sua morte, Simone Weil aveva iniziato a Londra il saggio incompiuto che doveva chiudere la raccolta e aveva per titolo Esiste davvero una dottrina marxista?
Per quanto vi siano differenze di carattere e di stile fra questi vari testi — l'ultimo in particolare che, con i due frammenti relativi, si distacca dagli altri per la critica più liberamente espressa, per una forza di convinzione così profonda da eliminare ogni residuo di timidezza nei confronti di Marx, per lo stile ancora più semplice e puro e per il commovente pensiero religioso proprio degli ultimi scritti di Simone Weil — quali che fossero dunque le diversità fra i vari testi, i temi che rimangono costanti sono molti e da queste coraggiose analisi emergono sia una critica del marxismo, la sola forse che sia all'altezza del tema, sia una filosofia politica caratterizzata dalla giustezza ineccepibile dell'ideale e dalla lucidità e franchezza inflessibili nell'esame della realtà.
È bene dire subito che Simone Weil non fu mai insensibile alla generosità di Marx; sentiva ii tormento dell'ingiustizia esattamente come lui. Meglio di chiunque altro aveva capito che molte delle sue idee sono delle «idee geniali», e che la sua opera contiene «frammenti compatti, inalterabili di verità, che hanno naturalmente il loro posto in ogni dottrina autentica». Tuttavia, secondo Simone Weil, non è vero che Marx abbia costruito una dottrina. La «dottrina marxista» non è che un mito, per quanto grande il suo potere in passato e oggi. «... Non c'è mai stato un marxismo, bensì molte affermazioni tra loro incompatibili, le une giustificate e le altre no...». Le prime obiezioni che la Weil mosse a Marx implicavano un'importante scoperta sul nostro tempo. Mentre intorno a lei i militanti di cui divideva le lotte nel 1933 ritenevano di poter inquadrare gli avvenimenti contemporanei nello schema del pensiero marxista, essa era invece colpita dall'impossibilità di questa impresa e, sola, riusciva a vedere la novità prodigiosa della nostra epoca «che smentisce ogni previsione anteriore». Non è con gioia che essa percepisce questa novità, poiché uno dei fatti che smentisce le previsioni è l'assenza di un qualsiasi segno precursore, di un motivo che ci porti a credere che andiamo verso la rivoluzione proletaria; anzi, tutto sta a dimostrare che siamo diretti verso una nuova forma di oppressione, «l'oppressione esercitata in nome della funzione».
Marx aveva visto molto chiaramente le caratteristiche dei suoi tempi, ma ci nasconde quelle dei nostri. Lo schema capitalismo-socialismo, borghesia-proletariato, ci impedisce di vedere un terzo tipo di regime che sta sorgendo e che non è né capitalistico né proletario. La scoperta fatta sin da allora da Simone Weil consiste nell'avvertire che la nostra epoca è l'«era degli amministratori», come dirà Burnham: difatti quello che in seguito fu attribuito a lui come un suo pensiero originale era già stato detto da Simone Weil nel 1933 nell'articolo Prospettive. La classe sociale in ascesa che detiene già il maggior potere non è, malgrado le previsioni di Marx, quella operaia, bensì quella dei «tecnici della direzione» a stipendio fisso, quella dei direttori, amministratori, burocrati la cui importanza sostituisce, bruscamente o gradualmente, con o senza rivoluzione, ma dappertutto nel mondo, quella dei capitalisti, dei proprietari, degli azionisti e che, nelle imprese, assorbe una parte sempre più notevole di profitti. «Vi sono così, attorno all'impresa, tre cerchi sociali ben distinti: gli operai, strumenti passivi dell'impresa; i capitalisti, il cui dominio si basa su un sistema economico in via di decomposizione: e gli amministratori, i quali invece si appoggiano su una tecnica la cui evoluzione storica non fa che aumentare il loro potere».
Non è quindi vero che l'oppressione capitalistica debba essere l'ultima. Affermando questo, Simone Weil spezza le sue proprie speranze e si trova a combattere quelle dei suoi amici. «Ma nulla al mondo — essa dice — può proibirci d'essere lucidi e consapevoli». E, giudicando gli altri come giudicava se stessa, pensava che, in fondo, non occorre nutrire una grande speranza per poter agire, una volta stabilito qual è il dovere da compiere e finché sussiste una pur minima possibilità: «Non c'è nessuna difficoltà — dice ancora — una volta che si è deciso d'agire, a conservare intatta, sul piano dell'azione, quella stessa speranza che un esame critico ha dimostrato quasi senza fondamento; questa, anzi, è l'essenza stessa del coraggio ». Ammirava le parole di Ajace in Sofocle: «Non ho che disprezzo per l'uomo che si riscalda con vuote speranze».
Non basta capire quale tipo di regime si sta preparando (là dove non è già instaurato); bisogna anche ricercarne i motivi. Noi vediamo che la nostra tecnica poggia sull'impiego delle macchine e sulla specializzazione; ora la macchina crea di per se stessa una profonda opposizione tra coloro che la servono e coloro che ne dispongono. I primi sono come degli ingranaggi viventi di una cosa morta. (Simone Weil si soffermò particolarmente su questo punto: le macchine privano l'uomo delle sue capacità. Le macchine cui essa si riferisce sono quelle che richiedono soltanto un lavoro non qualificato e che umiliano l'uomo, tagliandolo fuori dal suo pensiero, data appunto la facilità del lavoro necessario per servirle). Marx l'aveva intuito senza trarne le conseguenze. Difatti, l'abolizione del plusvalore non può modificare in nulla questa degradazione che non nasce dal plusvalore; anzi è in quanto è già degradato che il lavoratore non ha diritto a consumare altro che lo stretto indispensabile per vivere. La macchina crea un abisso incolmabile tra coloro che ne dispongono e coloro di cui è essa a disporre, e•non può quindi liberare l'umanità, quali che siano i capi che comandano e quale che sia lo scopo per cui è impiegata. Quanto alla specializzazione, essa trasforma gli uomini in ingranaggi in un altro modo: «In quasi tutti i settori l'individuo, rinchiuso com'è nei limiti d'una competenza ristretta, si trova prigioniero d'un insieme che lo supera, sul quale egli deve regolare tutta la propria attività, ma di cui però non può comprendere il funzionamento. In tale situazione, non c'è che una funzione che assurga a importanza fondamentale: quella che consiste esclusivamente nel coordinare... Non si vede come un modo di produzione fondato sulla subordinazione di coloro che eseguono a coloro che coordinano possa non produrre automaticamente una struttura sociale definita dalla dittatura d'una casta burocratica».
Nulla potrebbe dimostrare con maggiore evidenza il fatto che la dittatura amministrativa è una specie di fatalità dei nostri tempi quanto il vederla svilupparsi all'interno dei movimenti operai stessi. «La lotta spontanea si è sempre dimostrata impotente, e l'azione organizzata secerne in qualche modo automaticamente un apparato di direzione che, prima o poi, finisce col diventare oppressivo». Qualche tempo dopo, Simone Weil scriverà: «Ogni volta che gli oppressi hanno voluto costituirsi in gruppi capaci di esercitare un'influenza reale, questi gruppi, si chiamassero partiti o sindacati, hanno riprodotto integralmente nel loro seno tutte le tare del regime che pretendevano riformare o abbattere».
Il più doloroso è forse che non si concepisce più, neppure come ideale, un altro tipo di organizzazione. Chi ricorda ancora l'ideale del vero socialismo, secondo il quale «ci sarà il socialismo quando la funzione dominante sarà lo stesso lavoro produttivo...»? Si è dimenticato che è impossibile fidarsi di un dispotismo, nella speranza che esso sarà illuminato. Un dispotismo di intellettuali è altrettanto pericoloso di un altro: «Ogni potenza esclusiva e non controllata diviene oppressiva... Ogni gruppo umano che esercita un potere lo esercita non già in modo da rendere felici coloro che vi sono sottoposti, ma in maniera da accrescere tale potere: è una questione di vita o di morte per qualsiasi forma di dominio». Del resto «se la produzione, nelle mani dei capitalisti, ha per scopo il gioco della concorrenza, nelle mani dei tecnici organizzati in una burocrazia di Stato avrà necessariamente per scopo la preparazione della guerra». Difatti una burocrazia sviluppa il suo potere sviluppando all'esterno quello della collettività, come il capitalista sviluppa il suo mediante lo sviluppo dell'impresa. Così, al posto dell'impresa, la nazione diventa il fine supremo al quale l'individuo viene sacrificato, in termini più esatti, teoricamente è sacrificato alla società, in pratica invece è sacrificato alla classe che parla in nome della società. Ora, se la pratica ci riempie di indignazione, anche la relativa motivazione dovrebbe farlo: «... Noi vogliamo fare dell'individuo, e non della collettività, il valore supremo... La subordinazione della società all'individuo: ecco la definizione della vera democrazia e anche del socialismo».
La scoperta della caratteristica essenziale dei nostri tempi, formulata dalla Weil nel primo articolo della raccolta, implica già una parte della critica al marxismo che verrà sviluppata nelle opere successive. Uno dei punti principali è la critica dell'idea di rivoluzione. Vi è contraddizione tra le analisi più profonde di Marx e l'idea che il proletariato possa essere liberato da una rivoluzione. Marx aveva intuito che ciò che opprime è innanzitutto il regime stesso della produzione moderna, il modo di lavoro nella grande industria. Egli esprime queste osservazioni con formule vigorose sull'asservimento del lavoro vivo al lavoro morto, «il capovolgimento del rapporto tra soggetto e oggetto... Il dettaglio del destino individuale dell'uomo che manovra la macchina sparisce come un nulla davanti alla scienza, alle formidabili forze naturali e al lavoro collettivo che sono incorporati nell'insieme delle macchine». E Simone Weil continua: «In tal modo la completa subordinazione dell'operaio all'impresa e a coloro che la dirigono si basa sulla struttura dell'offìcina e non sul regime della proprietà». Così pure ciò che Marx chiama «la degradante divisione del lavoro in lavoro manuale e lavoro intellettuale» rappresenta, secondo Simone Weil, «la base stessa della nostra cultura che è una cultura di specialisti... Gli intellettuali hanno purtroppo gli stessi privilegi sia nel movimento operaio che nella società borghese».
Infine — continua la Weil — Marx «aveva chiaramente intuito che l'oppressione dello Stato si appoggia all'esistenza di apparati di governo permanenti e distinti dalla popolazione, ossia gli apparati burocratico, militare e poliziesco». Aveva capito che lo Stato, «questa macchina annientatrice degli uomini, non può cessare di annientare fintanto che è in funzione, nelle mani di chiunque essa sia... Quale conclusione trarre da tutto ciò? La conclusione si impone da sé: niente di quanto s'è detto può essere abolito da una rivoluzione... Come mai, nonostante la grande industria, le macchine e l'avvilimento del lavoro manuale, gli operai avrebbero potuto divenire altra cosa che dei semplici ingranaggi nelle fabbriche? Come mai, se continuavano a essere dei semplici ingranaggi, avrebbero potuto nel medesimo tempo divenire la «classe dominante»? Come mai, rimanendo intatte le tecniche della lotta, della sorveglianza e dell'amministrazione, le funzioni militari, poliziesche e amministrative avrebbero potuto cessare di essere delle specialità, delle professioni e, conseguentemente, l'appannaggio di «corpi permanenti, distinti dalla popolazione»? Oppure bisogna ammettere una trasformazione dell'industria, della macchina, della tecnica? Ma tali trasformazioni sono lente, graduali; non sono l'effetto d'una rivoluzione».
Vi è, in genere, contraddizione tra il materialismo storico e l'idea che una rivoluzione possa mutare profondamente l'ordine sociale, a meno che questo cambiamento non si sia già quasi completamente effettuato. «La grande idea di Marx è che nella società, così come nella natura, niente si effettua senza la mediazione delle trasformazioni materiali... Desiderare non è niente, bisogna conoscere le condizioni materiali che determinano le nostre possibilità d'azione. Il materialismo storico, così spesso mal compreso, significa che le istituzioni sono determinate dal meccanismo effettivo dei rapporti tra gli uomini, meccanismo che dipende esso stesso dalla forma che vanno assumendo momento per momento i rapporti tra l'uomo e la natura... La struttura sociale non può essere modificata che indirettamente». Credere che una rivoluzione diretta contro l'oppressione possa modificare improvvisamente e radicalmente le cose, vuol dire credere che una trasformazione politica e giuridica sia sufficiente. In realtà invece «non vi è mai vera rottura di continuità. Nell'Impero romano, i barbari occupavano da tempo i posti più importanti... l'esercito si frantumava in bande guidate da avventurieri, il colonato sostituiva a poco a poco la schiavitù: e tutto ciò molto prima delle grandi invasioni. Allo stesso modo, la borghesia francese occupava una posizione preminente su quella della nobiltà già molto prima del 1789. Generalmente, questo capovolgimento improvviso del rapporto delle forze — che è ciò che ordinariamente s'intende per rivoluzione — non soltanto è un fenomeno sconosciuto nella storia ma, osservato da vicino, è anche qualcosa di letteralmente inconcepibile, perché sarebbe una vittoria della debolezza sulla forza, qualcosa come l'abbassarsi del piatto più leggero di una bilancia».
Ciò che ci porta a credere, come Marx stesso quando pensava alla rivoluzione, che gli oppressi e i deboli possono malgrado tutto diventare forti improvvisamente e far pendere la bilancia dalla loro parte, è che siamo tutti convinti che il numero è una forza. Ora «il numero, per quanto l'immaginazione possa portarci a credere il contrario, è una debolezza. Il popolo non è soggetto benché esso sia il numero, ma perché è il numero... Coloro che danno ordini sono meno numerosi di coloro che obbediscono. Ma precisamente perché sono poco numerosi, essi formano un insieme... Non si può stabilire coesione che tra una piccola quantità di uomini. Al di là non vi è più che giustapposizione di individui, ossia debolezza... Ma il numero è una forza nelle mani di colui che ne dispone, non nelle mani di coloro che lo costituiscono. L'energia racchiusa in una massa umana è una forza soltanto per un gruppo esteriore alla massa, molto più piccolo di essa... Se non fosse così, non vi sarebbe mai stata oppressione». Del resto, Marx sapeva bene tutto ciò, e lo espone brillantemente a proposito dello Stato borghese, «ma voleva dimenticarlo quando si trattava della rivoluzione».
Concludiamo questa critica dell'idea di rivoluzione con alcune parole amare: «La parola rivoluzione è una parola per la quale si uccide, per la quale si muore, per la quale si mandano alla morte le classi popolari, ma che non ha nessun contenuto».
Altro sintomo di fiducia cieca è la teoria marxistica delle forze produttive. Marx ammette che le forze produttive sono suscettibili di uno sviluppo illimitato. «Ai suoi occhi, la tecnica attuale, una volta liberata dalle forme capitalistiche dell'economia, può sin d'ora dare agli uomini agio sufficiente per permetter loro uno sviluppo armonioso delle loro facoltà... Ma soprattutto lo sviluppo ulteriore della tecnica è destinato ad alleviare maggiormente il peso della necessità materiale e, per conseguenza immediata, quello della costrizione sociale, finché l'umanità raggiunga uno stato propriamente paradisiaco, nel quale la produzione più abbondante costerebbe uno sforzo insignificante...».
Vi sono qui due punti da esaminare. Al primo, Simone Weil  sembra non si opponga esplicitamente, ma da quanto scrive in altre occasioni, vediamo che nulla spiega, nulla autorizza a ritenere sicura la brusca espansione delle forze produttive che dovrebbe verificarsi in seguito alla rivoluzione. In particolare, la Weil dimostra che, secondo lo stesso Marx, il plusvalore è per i capitalisti piuttosto un mezzo di potere che un mezzo di godimento. La maggior parte dei profitti viene dai capitalisti nuovamente investita nella produzione, e questo per espandere l'impresa e permettere di lottare contro i concorrenti. «Ora, non è soltanto l'impresa, ma qualsiasi specie di collettività lavoratrice che ha bisogno di restringere al massimo il consumo dei propri membri per consacrare la maggior parte del tempo a forgiarsi le armi contro le collettività rivali; al punto che finché vi sarà, sulla faccia del globo, una lotta per il potere... gli operai saranno sfruttati. In realtà, Marx supponeva precisamente, senza tuttavia dimostrarlo, che ogni specie di lotta per il potere scomparirà il giorno in cui il socialismo sarà stabilito...; il male è però che, come Marx stesso aveva riconosciuto, la rivoluzione non si può fare dappertutto contemporaneamente, e che quando è fatta in un paese essa non vi sopprime, anzi vi accentua la necessità di sfruttare e opprimere le masse lavoratrici per la paura che si ha in questo paese di finire con l'essere più deboli degli altri Stati... Del resto, anche se la rivoluzione scoppiasse contemporaneamente in molti paesi, si può per questo essere sicuri che tali paesi cesserebbero di essere avversari e rivali?».
Prescindendo, comunque, dal primo punto, il secondo — l'idea cioè che le forze produttive sono suscettibili di uno sviluppo illimitato — è esaminato lungamente da Simone Weil, in un'analisi ammirevole in cui vengono studiati separatamente i diversi fattori del progresso tecnico per comprendere di quale sviluppo ciascuno di essi sia suscettibile. Indubbiamente l'epoca in cui furono scritte le Riflessioni, quella della grande crisi economica, portava gli spiriti a dubitare del progresso tecnico e a temere che esso si urtasse a qualche ostacolo insormontabile; adesso invece, usciti come siamo da queste difficoltà pur senza averle comprese, crediamo di nuovo (e chissà per quanto tempo ancora lo crederemo) che le possibilità siano infinite. Tuttavia le osservazioni di Simone Weil sono sempre valide. Prevede, per esempio, che si troveranno certamente nuove fonti di energia «... soltanto che nulla garantisce che la loro utilizzazione esigerà meno lavoro dell'utilizzazione del carbone o degli oli pesanti». Dopo di allora stata è infatti scoperta l'energia atomica, ma è un'energia costosa.
La parte più bella dell'analisi è indubbiamente quella che riguarda la razionalizzazione del lavoro. In questo settore un progresso quasi illimitato è possibile, per lo meno nel campo dell'invenzione. Però vi è un limite alle economie che si possono fare in virtù della razionalizzazione, sia che si tratti della razionalizzazione dello spazio (concentrazione dell'industria, crescente divisione del lavoro, coordinazione in aumento), sia che si tratti della razionalizzazione del tempo (crescente utilizzazione delle macchine, cioè del lavoro già compiuto). «Da parecchi anni ormai l'ingrandimento delle imprese non si accompagna a una diminuzione, ma ad un accrescimento delle spese generali... L'estensione degli scambi, che in passato ha avuto una parte formidabile come fattore di progresso economico, ha cominciato anch'essa a causare più spese di quante non ne eviti, sia perché le merci rimangono per lungo tempo improduttive, sia perché il personale addetto agli scambi s'accresce anch'esso con un ritmo accelerato, sia infine perché i trasporti consumano una energia accresciuta senza tregua in ragione delle innovazioni destinate a aumentare la velocità, innovazioni per forza di cose sempre più costose e sempre meno efficaci man mano che si susseguono». Così anche nella utilizzazione delle macchine vi può essere un limite alle economie realizzate con l'impiego di nuovi apparecchi. I rivoluzionari si indignano al vedere i capitalisti rifiutare di accogliere certe innovazioni tecniche, ma tralasciano di spiegare «per quale miracolo certe innovazioni attualmente dispendiose diverrebbero economicamente vantaggiose in un regime socialista o presunto tale». Fare un computo del lavoro che la macchina risparmia e di quello che invece crea è, a dir vero, impossibile. «Soltanto una cosa è chiara, nell'insieme; e cioè che, più il livello della tecnica è elevato, più i vantaggi che i nuovi progressi possono apportare diminuiscono in rapporto agli inconvenienti ». Tutto sommato «soltanto l'ebbrezza prodotta dalla rapidità del progresso tecnico ha potuto far nascere l'idea assurda che un giorno il lavoro potrebbe anche divenire superfluo».
Secondo Simone Weil, la tappa ultima del comunismo «non è altro insomma che un'utopia assolutamente analoga a quella del moto perpetuo».
La teoria marxista delle forze produttive (teoria la quale, a sua volta, è legata a quella dell'oppressione) incontra altre difficoltà. Si sa che Marx ha elaborato «una concezione affatto nuova dell'oppressione», considerandola non più come usurpazione pura e semplice (che non ne spiegava la forza invincibile), ma come organo d'una funzione sociale. «Questa funzione è quella stessa che consiste nello sviluppare le forze produttive...; tra questo sviluppo e l'oppressione sociale, Marx e Engels hanno intuito dei rapporti reciproci. Anzitutto, secondo loro, l'oppressione si stabilisce soltanto quando i progressi nella produzione hanno portato una divisione del lavoro sufficientemente avanzata...; d'altra parte l'oppressione una volta stabilita, provoca lo sviluppo ulteriore delle forze produttive... fino al giorno in cui, divenuta per esso un ostacolo e non più un aiuto, essa scompare puramente e semplicemente».
Per quanto geniale, la scoperta che l'oppressione ha una funzione sociale, questo schema della genesi e della morte dell'oppressione, contiene vari postulati non spiegati. Perché la divisione del lavoro si trasformerebbe necessariamente in oppressione? E per quale motivo l'oppressione dovrebbe finire? «... Giacché, se Marx ha creduto di mostrare come il regime capitalistico finisce con l'ostacolare la produzione, egli non ha neppur tentato di provare come, oggi, qualsiasi altro regime oppressivo la ostacolerebbe allo stesso modo; peggio ancora, non si capisce perché l'oppressione non potrebbe riuscire a mantenersi in atto anche quando fosse divenuta fattore di regresso economico. Soprattutto, però, Marx omette di spiegare perché l'oppressione è invincibile finché dura la sua utilità». Egli sembra ammettere che nelle società vi sia un principio di adattamento che le conduce misteriosamente ai loro fini (questo fine essendo il bene della produzione). Simone Weil fa qui un parallelo con le teorie di Lamarck, secondo cui la funzione crea l'organo, e secondo cui l'adattamento spiegherebbe tutto, senza essere esso stesso affatto spiegato. Darwin invece spiega il mistero dell'adattamento con la nozione chiara e razionale delle «condizioni di esistenza», condizioni che permettono di sopravvivere solo a quegli esseri viventi che si sono adattati, non per merito di una tendenza bensì per un insieme di felici coincidenze. Secondo Weil, Marx non ha dato una chiara formulazione di quelle che sono le condizioni di esistenza della società. In particolare, egli trascura il fenomeno della guerra, che non può essere interamente ricondotto al fatto della produzione; egli ha esaminato l'effetto della produzione sulla guerra, ma non il rapporto inverso. La capacità di produzione è una spiegazione della forza, la guerra ne è un'altra; si può dominare sia con la soggezione economica che con le armi.
Lo stesso concetto di oppressione, che sta al centro dell'opera di Marx, egli non l'ha definito o spiegato sufficientemente. I rapporti di oppressione sono meno semplici di quanto sembra: «Gli stessi uomini sono oppressi per certi riguardi e oppressori per certi altri... Non si ha quindi una battaglia in cui s'oppongono due avversari, ma un accavallarsi straordinariamente complesso di guerriglie». Marx ha intuito che, nelle società molto primitive, l'oppressione non è ancora possibile; ma «ciò che sorprende non è già che l'oppressione appaia soltanto con le forme più elevate dell'economia, bensì che le accompagni sempre».
Studiando a sua volta le cause dell'oppressione, Simone Weil osserva in primo luogo che essa deriva sempre da condizioni oggettive: prima tra esse, l'esistenza di privilegi che non dipendono dalla volontà degli uomini, ma che derivano dal fatto che certe forze, per la loro essenza stessa, sono il monopolio di alcuni. Tra queste forze si può porre l'arte di dominare la natura, arte che fu in un primo tempo monopolio dei preti (a partire dal momento in cui i riti furono troppo numerosi e complicati per essere conosciuti da tutti) e che adesso è monopolio degli scienziati. Un'altra forza è rappresentata dalle armi «dal momento in cui, da una parte esse sono sufficientemente potenti per rendere impossibile ogni difesa di uomini disarmati contro uomini armati, e dall'altra quando il loro maneggio è divenuto abbastanza perfezionato e di conseguenza piuttosto difficile, esigendo lungo esercizio e pratica continua. Da questo momento infatti i lavoratori sono impotenti a difendersi, mentre i guerrieri pur trovandosi nell'impossibilità di produrre possono sempre impadronirsi con le armi dei frutti del lavoro altrui; i lavoratori sono così alla mercé dei guerrieri, e non viceversa». Una terza forza è la moneta «dal momento in cui la divisione del lavoro è sufficientemente progredita perché nessun lavoratore possa più vivere dei propri prodotti senza averne scambiato almeno una parte». Infine, ovunque gli sforzi hanno bisogno di coordinarsi fra loro per essere efficaci «la coordinazione, non appena giunge a un certo grado di complicazione, diventa il monopolio di qualche dirigente, e la prima legge dell'esecuzione è allora l'obbedienza». Ecco i germi dell'oppressione; ma la causa principale è la lotta per il potere, lotta che purtroppo accompagna inevitabilmente l'esistenza di questi privilegi. Le due lotte a cui è costretto ogni potente — l'una contro coloro sui quali regna, l'altra contro i propri rivali — si mescolano inestricabilmente e si ravvivano senza tregua l'un l'altra. E, ciò che rende il male ancora più grave, è la natura stessa del potere che impedisce ad esso di giungere mai a un equilibrio: «Non vi è mai potere, ma solo corsa al potere... Non sono gli uomini ma le cose che danno a questa corsa vertiginosa al potere il suo limite e le sue leggi».
L'oppressione sembra dunque radicata negli elementi stessi della nostra civiltà. Sembra che «l'uomo... non possa giungere ad alleggerire il giogo delle necessità naturali senza appesantire d'altrettanto quello dell'oppressione sociale, quasi obbedendo all'esigenza d'un misterioso equilibrio». O schiavi della natura, o schiavi della società. Si pone così un problema di cui non si trova una soluzione in Marx e del quale, forse, non vi è soluzione perfetta, una soluzione cioè che renda inutile la lotta e la resistenza costante degli oppressi: «Per chiunque ama la libertà non è desiderabile che esse (le lotte) spariscano, ma soltanto che rimangano al di qua di un certo limite di violenza».
Insomma la contraddizione, anzi l'errore fondamentale che si riscontra in Marx è che al materialismo egli ha voluto aggiungere la fede in una realizzazione quasi automatica della giustizia. Si tratta di un errore filosofico. La materia, per quanto ci è dato formularne chiaramente l'idea, non contiene nulla che di per se stesso produca il bene. Il male non è di essere materialisti; vi è un campo in cui bisogna esserlo, e il metodo materialista è un metodo sano. Come abbiamo visto, Simone Weil arriva talvolta a rimproverare a Marx di non essere abbastanza fedele a questo metodo. «Il metodo materialista, questo strumento lasciatoci da Marx, è uno strumento vergine; nessun marxista se ne è realmente mai servito, a cominciare da Marx stesso». A questo mondo, essa dirà nel suo ultimo saggio, il materialismo è quasi completamente vero. Non spiega il soprannaturale (prima avrebbe detto: la libertà umana, e il cambiamento non è tanto importante quanto si può pensare) ma, a parte il soprannaturale, spiega tutto, e su questa terra il soprannaturale è un infinitamente piccolo.
Inoltre, il materialismo concepito da Marx contiene un'idea estremamente preziosa: l'idea che la necessità alla quale l'uomo è soggetto quasi in tutto è la necessità sociale. Marx ha avuto l'idea geniale di studiare la società come il fatto umano fondamentale e di studiarvi, come se si trattasse della materia, i rapporti di forze che vi sono insiti. Così ha creato l'idea di una materia non fisica, ed è verissimo che una simile materia esiste. È ugualmente vero che, fin nell'intimo dei suoi pensieri, l'uomo è soggetto al «grosso animale»: alla società. I soli che vi si sottraggono sono i santi, e probabilmente soltanto in rare occasioni. Il male non stava neppure nell'ideale di Marx. La sua concezione della giustizia «era quella del socialismo da lui stesso chiamato utopistico: poverissima in quanto a sforzo di pensiero, dal punto di vista sentimentale era generosa ed umana» (difatti l'ideale del secolo XlX ha di che far arrossire il XX). Il male non è neppure nell'aver congiunto questo materialismo e quest'idealismo, poiché è vero che essi devono andare uniti; ma è di aver posto l'unione troppo in basso. È di aver creduto che a questo stesso mondo il meccanismo della necessità avrebbe apportato la giustizia. Ma a questo mondo il bene e la necessità sono due cose irriducibilmente opposte: «Non hanno nulla in comune. Sono totalmente diversi l'uno dall'altra. Sebbene siamo costretti a attribuire ad essi un'unità, quest'unità è un mistero, rimane per noi un segreto». Colui che crede all'esistenza di questa unità in terra tradisce il bene chiamando buone le cose che non sono altro che necessarie, e tradisce la pura necessità attribuendole una direzione verso il bene. (Inoltre, come dice Simone Weil in altra occasione, costui non concepisce come ciò che è debole e vinto possa essere buono, come l'infelice possa non essere colpevole). Se si devono unire l'ideale e il materialismo, bisogna unirli in tal modo che ognuno di essi resti puro. In tal caso vi sarebbe contraddizione, ma sarebbe questa una contraddizione cosciente, accettata, inevitabile, che permetterebbe al nostro spirito di afferrare in qualche modo il trascendente. La contraddizione di due idee ugualmente necessarie non potendo essere risolta che al di là del nostro spirito ci dimostra che è al di là che ci deve essere una verità.
Un concetto di cui Marx non dubitava, e senza il quale non poteva vivere, era il pensiero dell'avvento prossimo, e su questa terra, della giustizia. È bello aver bisogno di questo pensiero per vivere, ma più bello ancora è preferire la verità al pensiero di cui si ha bisogno. «Forse la scelta suprema di ogni anima è quella tra la verità e la vita». Come abbiamo visto sin dall'articolo Prospettive, il suo coraggio le fece sopportare per tutta la durata della sua esistenza una contraddizione profonda e quasi irrimediabile tra l'ideale e il reale (contraddizione che solo il coraggio fa sopportare, quando non ci si vuole né fare illusioni sul reale, né cessare di esigere e di desiderare il quasi impossibile bene per una specie di follia di fedeltà a ciò che è bene). Una simile vita è una morte, oppure è una vita soprannaturale: è una morte preferita alla vita per amore della verità. E non era poi attenuare granché questa contraddizione pensare che essa sarà superata al di là del mondo. Giacché per Simone Weil l'altro mondo non interviene quasi affatto nei casi umani, salvo tramite la debole azione dei santi; e il concetto che essa aveva dell'immortalità non ha nulla a che fare con le volgari speranze di ricompensa.
Marx credeva, non a torto, che finché la giustizia non è realizzata noi non la possiamo conoscere, poiché siamo soggetti al sociale fino nell'intimo dei nostri pensieri. Questo difatti è il corso normale delle cose se si esclude il soprannaturale. Egli crede dunque che bisogna affrettare il meccanismo che apporterà la giustizia, senza preoccuparsi della giustizia nel presente, perché noi non la possiamo conoscere.
Ammette così che tutto è permesso ai rivoluzionari, e ricade in quella morale di gruppo che tanto odiava, la morale inumana di un gruppo che si mette al disopra del bene e del male.
Quale conclusione dobbiamo dunque trarre da tutto ciò? Che non abbiamo una dottrina. Il marxismo non è una dottrina, anche se sembra aver scosso le fondamenta di tutte le altre. Rifare le basi filosofiche, politiche ed economiche del nostro agire è un compito da metter paura, tuttavia non è possibile sottrarvisi. A venticinque anni, Simone Weil non ha indietreggiato di fronte a questo compito formidabile: lo considerava un dovere. L'abbiamo vista rielaborare l'analisi marxistica dell'oppressione, e il suo coraggio sarebbe ammirevole anche se non fosse riuscita nel suo intendimento; ma, in più, la sua teoria è convincente. Però, se le sue analisi disperdono menzogne, follie, speranze vane, esse non danno la base necessaria a un'azione d'insieme; anzi, mettono a nudo la vanità di tale azione, dimostrando che la tecnica moderna rende impossibile una rivoluzione che sia veramente una rivoluzione proletaria. Vi sono rivoluzioni possibili e probabili, ma non sono quelle che darebbero realmente il potere al proletariato.
Purtroppo, su questo punto l'argomentazione di Simone Weil è particolarmente forte. Si vorrebbe resistere, obiettare che la tecnica non è che uno strumento, che la si può utilizzare come si vuole, ma purtroppo questo è falso. La tecnica determina un modo di lavorazione e una distribuzione dei poteri, come Marx aveva intuito senza però trarre tutte le conseguenze che quest'idea comporta. Le macchine obbediscono, ma anche noi obbediamo a loro. Le analisi di Simone Weil indicano soltanto su quali punti si dovrebbe agire, se possibile. Occorrerebbe agire sulla tecnica stessa, sul modo di concepire le macchine, sul regime stesso del lavoro; bisognerebbe immaginare un altro tipo di macchine, trovare un sistema di effettiva decentralizzazione dell'industria, preparare i lavoratori a dirigere effettivamente la società mediante l'insegnamento; un tipo di lavoro più indipendente che eserciti maggiormente il pensiero, dando ai lavoratori responsabilità sempre maggiori e il controllo sempre più esteso nelle fabbriche e nelle loro organizzazioni. Questi cambiamenti non possono avvenire che lentamente e in modo poco vistoso. Certo, non si può fare a meno di notare che i testi contenuti nella raccolta Oppressione e libertà sono quasi esclusivamente critici, mentre si troverà un programma positivo in alcune parti della Condizione operaia, nella Prima radice e in altri scritti del periodo londinese. Ma sin da adesso si può prevedere che certe strade sono precluse; si può intuire che il programma positivo di Simone Weil non comporterà soluzioni semplici e globali, una liberazione totale, immediata e definitiva quale quella che va sotto il nome di rivoluzione. Per quanto riguarda la rivoluzione, non è inesatto dire che il pensiero di Simone Weil termina nel pessimismo.
Ciò non significa che bisogna rinunciare all'azione. Anzi, forse è il contrario, poiché il mito della rivoluzione permette di rimandare indefinitamente certe azioni possibili e buone, di rimandare la giustizia a una data imprecisata: lo permette, e si potrebbe quasi dire che lo impone. Come coloro che nell'attesa di saper tutto per poter giudicare finiscono col non giudicare affatto, così coloro che non si contentano di azioni parziali, e ritengono di non poter essere giusti se tutto non diventa giusto contemporaneamente, rimangono inattivi. Simone Weil, che non credeva più alla rivoluzione, non ha mai cessato di agire.
Forse essa era tornata alla politica del suo maestro Alain, il cui pensiero è pressapoco il seguente: se si resiste male alla tirannide è perché coloro che resistono vorrebbero fare due cose alla volta, cioè sconfiggere la tirannide e fare la rivoluzione. Coloro che desiderano solo la prima di queste due cose sono assai più forti. È necessario forse aver rinunciato alle grandi speranze per saper apprezzare e difendere ogni  progresso verso la giustizia, apprezzare e difendere delle libertà imperfette ma infinitamente preziose. L'esistenza della libertà permette una resistenza che non sarà mai vana, quale che sia l'organizzazione economica. È noto che per Alain, contrariamente alle tesi socialiste, la rivoluzione politica non è affatto superata, ma anzi è da farsi e da rifarsi sempre, anche in caso di rivoluzione sociale. Egli dice, in altri termini, che la resistenza del cittadino e la sua volontà di controllare i poteri dovranno sempre essere rafforzate e riaffermate, poiché vi sono sempre momenti in cui esse cedono. Come abbiamo visto, anche Simone Weil non desidera che le lotte spariscano, ma soltanto che rimangano al di qua di un certo limite di violenza. Gradualmente il suo ideale diventa un ideale di equilibrio (di perfezione sempre minacciato, sempre imperfetta e sempre da riconquistare) e non più un ideale di perfezione definitiva e assoluta.
Il mantenimento di un regime parlamentare e liberale, la conservazione dei modesti mezzi della democrazia politica, non le sembrano più cose disprezzabili. Pensa come Alain — e lo dice in una lettera scritta verso il 1937 — che perfino ii capitalismo è da preferirsi a un regime totalitario. A ragion veduta si può dire che senza eguaglianza la libertà non è niente; in un certo senso è vero, ma è ugualmente vero che senza libertà l'eguaglianza stessa non esiste. È vero che la rivoluzione politica è vana se non vi è rivoluzione economica; ma non è men vero che quest'ultima è resa inutile dalla mancanza di una rivoluzione politica. Se non è concessa la libertà di pensiero, è impossibile che il pubblico abbia sufficiente conoscenza della verità, poiché solo il governo può parlare, ed è improbabile che non presenti come vero ciò che gli è utile. Ora, là dove la verità non è conosciuta, i diritti dei poveri non sono rispettati.
Non sarà difficile trovare alcuni punti in comune tra l'ideale politico di Simone Weil e quello di Alain: l'individualismo, rifiuto della religione del potere («ogni società oppressiva è cementata da questo culto del potere»), diffidenza nei confronti delle collettività e del sociale, preferenza per le collettività piccole dove l'individuo riesce ad orientarsi su ciò che avviene, diffidenza anche verso l'amministratore che agisce sugli uomini, preferenza per il lavoro svolto direttamente a contatto con la natura e per l'uomo che lavora con le sue mani («la civiltà più pienamente umana avrebbe il lavoro manuale al centro e vedrebbe nel lavoro manuale il supremo valore»), volontà di unire il lavoro manuale a quello intellettuale (non solo per rialzare le sorti dei lavoratori, ma per permettere all'intellettuale di pensare realmente), diffidenza nei confronti del progresso anche dal punto di vista economico (a proposito del progresso nel settore delle comunicazioni, Alain aveva parlato di «quel punto di velocità a partire dal quale l'uomo comincia a perdere»), rammarico che i partiti che vogliono la giustizia sembrino aver abbandonato la morale («il marxismo ha gravemente alterato questo spirito di rivolta che, nel secolo scorso, brillava di così puro splendore nel nostro paese: esso vi ha mescolato, tutto in una volta, degli orpelli falsamente scientifici, un'eloquenza messianica e uno scatenamento di appetiti che han finito con lo sfigurarlo».
Forse a Simone Weil è costato più fatica che non a Alain il rinunciare al sogno apocalittico del socialismo ed è stato più duro diffidare di ciò che è sociale, poiché in un certo senso essa ama la vita collettiva e sogna un lavoro comune e libero. Amare la vita contadina, la saggezza contadina, era più difficile per chi aveva cominciato con l'amare appassionatamente la vita operaia. La sua critica non ne esce che più vigorosa e spietata, rivolta com'è a se stessa.
Simone Weil è forse più severa di Alain, sebbene questi lo sia più di quanto si pensi. Nello «schema teorico d'una società libera» — utopia cosciente che essa ha elaborato come sistema di riferimento nelle Riflessioni — risulta che con il termine libertà non intende la possibilità di fare ciò che piace, bensì anzitutto quella di esercitare il pensiero nel lavoro. Si è tentati di dire che la Weil confonde la libertà politica con la libertà metafisica. Tuttavia è assolutamente vero che è il pensiero a conferire dignità al lavoratore, e che è la la sua dignità a difendere, in larga misura, la sua libertà. È ugualmente vero che, dovunque nella società il pensiero è necessario, lì l'individuo ha potere su di essa; poiché la società può molto, ma non può pensare. Forse la necessità di inventare farà sì che si avrà ancora bisogno di uomini liberi. Va osservato infine che lo «schema» contiene una bella teoria sulla libertà metafisica, in cui è dimostrato che questa libertà non è separabile dal lavoro sulle cose. Da lì prende origine una dottrina del lavoro che giustifica l'importanza che Weil, come Alain, attribuiscono al lavoro manuale.
L'originalità fondamentale di Simone Weil consiste nell'aver visto che l'ammonimento di Alain non si riferisce tanto al passato (o a ciò che ne resta) quanto al futuro, al mondo che forse sta nascendo. In tale mondo la grandezza degli Stati e degli Imperi renderà difficile ogni controllo, regneranno gli amministratori, aumenterà la necessità di subordinare il lavoro alla burocrazia, la società peserà in modo schiacciante sull'individuo sempre più soggetto, e bisognerà cercare nuovi mezzi per limitare il peso del potere. Forse il solo mezzo per limitare questo peso, il solo potere che potrebbe rimanere indipendente dal centro della società, sarebbe un potere spirituale degno di questo nome. In tal caso, l'attenzione che, verso la fine della sua vita, Simone Weil ha dedicato alla religione acquisterebbe pieno significato, anche dal punto di vista politico.
Queste preoccupazioni religiose non sono forse una novità fondamentale anche dal punto di vista della sua prima dottrina? Sembra infatti che, quanto più Weil si avvicina a Alain in politica, tanto più se ne discosti in filosofia. La presente raccolta permette, più chiaramente che non le precedenti, di seguire l'evoluzione delle sue idee filosofiche, giacché la maggior parte dei testi è anteriore a quella che fu definita la sua conversione. Studiando questa raccolta, si nota che vi è stato un notevole cambiamento. Nelle analisi politiche dei primi saggi si intravede una filosofia apertamente influenzata dal pensiero di Alain, anche se le idee di questi sono ripensate con vigore. Anzi, sotto certi aspetti, Weil va forse anche più oltre di Alain. In particolare, ogni volta che essa parla di religione e di preti nelle sue opere anteriori alla guerra, è con un certo disprezzo, e l'epiteto «religioso» suona quasi un rimprovero. Invece, negli scritti ultimi, il suo pensiero coglie ogni istante e occasione per innalzarsi dalla sfera politica a quella religiosa, alla contemplazione del soprannaturale per rimanervi a lungo, come se provasse fatica a distaccarsene.
Tuttavia, pur essendo il mutamento di Weil palese e la sua originalità religiosa evidente, la diversità tra le sue prime e le sue ultime idee filosofiche, cioè tra quelle che erano ancora in gran parte quelle di Alain e le sue proprie in senso stretto, è meno rilevante di quanto non si pensi. Già nelle sue prime opere, essa parlava tranquillamente dell'anima come distinta dal corpo, o dello spirito irriducibile alla materia, e ciò rivolgendosi a un pubblico che indubbiamente non credeva né all'anima né allo spirito: per lo meno non in quel senso. (Le Riflessioni furono scritte inizialmente per la rivista Critique sociale e fu in quella stessa rivista che apparve uno degli scritti più filosofici dell'intera raccolta: l'articolo sul libro di Lenin Materialismo ed empirocriticismo). Da questo punto di vista vi è sempre stata una differenza tra lei e i suoi amici sindacalisti e anarchici.
Simone Weil ha sempre abbinato, in modo apparentemente paradossale, un pensiero politico che l'avvicinava ai materialisti insieme col rifiuto del materialismo e con una specie di religione dell'anima o dello spirito. In ciò era fedele a Alain, nel quale si trova il medesimo paradosso e il quale, come lei, deplorava la carenza e la debolezza di pensiero della sinistra in materia filosofica.
Neppure alla fine della sua vita, Simone Weil si allontana da Alain quanto potrebbe sembrare; crede in Dio, ma è un Dio assente e debole, un Dio di cui, in un certo senso, come del Dio di Lagneau e di Alain, non si può dire che esiste, poiché è al di là di quel che noi chiamiamo esistenza, al di là del mondo. Nel mondo, Dio è soltanto nell'anima degli uomini che lo amano e agisce direttamente solo per tramite di essa. Alain rifiutava il Dio onnipresente che si manifesta attraverso le forze naturali e colpisce fulminando chi non lo teme; rifiutava anche il Dio che si identifica con un gruppo sociale e punisce attraverso il potere della società. Non voleva un Dio potente, e perciò riteneva anche egli che il vero Dio fosse il crocefisso. Uno studio approfondito di queste due dottrine potrebbe rivelare che esse sono assai più vicine di quanto non appaia: forse esse costituiscono un tutto unico e solido sul quale sarebbe possibile costruire.