Miraggi

Il bacillo pernicioso

Carlo Michelstaedter
 
1.
«Dio vi dia la salute», augurò il custode del cimitero ai due amici che uscivano. 
Nino protestò:
«Perché irridi vecchio al nostro stato mortale? Ben sai tu che a nulla ci giova la salute».
Il vecchio taceva e guardava le sue tombe.
«Pure» disse poi, crollando il capo «pure... Dio vi dia la salute».
I due amici uscirono e s'incamminarono in silenzio per la via deserta. Nino ruppe il silenzio quasi continuando.
«Parlava in buona fede — eppure il suo augurio suona irrisorio».
Rico. Tale infatti suona a noi che non l'abbiamo la salute.
Nino. Ma l'avessimo anche, non essa ci salverebbe dall'estremo passo che il vecchio ha in sua balìa.
Rico. No certo — ma è diverso per chi è sano e per chi è ammalato.
Nino. E che importa a me più esser sano o ammalato se devo morire? O se pur c'è una differenza più mi sarà doloroso abbandonare questo mondo che a me sano sarà lieto, che abbandonare un luogo di tormento per cessare nell'incoscienza il dolore del male. Ché se la morte è il supremo dei mali è per la via degli altri mali ch'io potrò prepararmi a sopportarlo.
Rico. Dici bene, ma dimmi come si fa a sopportare il male. Forse che perché io lo sopporti esso diventa meno male di quanto fosse prima o come avviene?
Nino. Certamente esso resta quale è, ma io non lo sento più come prima lo sentivo.
Rico. Così dunque come il freddo è male quando il tuo corpo s'irrigidisce e il sangue non circola più e tu senti dolore a ogni estremità, ma se tu con la ginnastica e l'abitudine indurisci il corpo prima e quando ogni volta nel freddo tu non cerchi riparo ma cerchi col movimento di far circolare il sangue, tu potrai sopportar quello senza dolore e non ti sarà più un male.
Nino. Così appunto.
Rico. E lo stesso si può dire del caldo, e delle privazioni, e della fatica, e dell'insonnia, e di tutte le altre cose simili.
Nino. Certo.
Rico. Ma dimmi se ciò che può esser male e può non esser male, può esser male per me e non esser male per te, e per me può esser male talvolta e talvolta no — lo possiamo chiamare male (per se stesso) — così da esser male sempre e per ognuno, e da ammalare chi ne sia affetto?
Nino. No certo.
Rico. Ma chiameremo invece tristo e (in sé) ammalato colui cui è male ciò che per gli altri non è male, poiché con la sua presenza fa diventar male ciò che non è male.
Nino. Così sembra anche a me.
Rico. Vedi ora se come per il corpo sano le cose delle quali parlavamo non sono mali, ma per l'ammalato, non siano così anche tutte le altre cose per le quali gli uomini si dolgono come la solitudine, l'oscurità, la povertà, la cattiva opinione del prossimo e tutti i mali del corpo e il supremo male infine, la morte, per l'uomo tristo bensì mali, per l'uomo sano cose indifferenti?
Nino. Io sono con te finché tu fai il parallelo fra le cose che il corpo sano sopporta e il corpo invalido fugge come a lui perniciose, e quelle cose del mondo esterno che se affliggono l'animo debole non toccano l'animo forte; e fin qui ben credo che la salvezza dell'uomo sia in quella salute che il vecchio ci augurava.
 
2.
Ma ci son cose che distruggono la salute stessa e del corpo e dell'anima, contro le quali né forza fisica vale né animo libero, cose che ti tolgono appunto questa libertà e questa forza e ti tengono debole e miserabile in lor balìa.
Che ti valgono le membra pronte e sicure con lungo studio a ogni lavoro esercitate e indurite a sopportar gli insulti delle intemperie, se un accidente qualsiasi, se una malattia può rendertele per sempre e deboli e dolorose, e in brev'ora toglierti del tutto la vista e il godimento di questo caro mondo? Quale forza fisica o quale virtù ti potrà mai salvare dalla morte? No: val meglio coglier l'attimo che fugge, sani o malati, e fuggire con lui, quando che voglia il caso.
 
Rico. Bene! io ammiro come ciò che dici tu assomigli così a ciò ch'io vedo, che mentre parli parmi quasi parlar io per tua bocca: e come uno per ciò che con le mani o con l'orecchio avverte si fa più sicuro di ciò che appare all'occhio, così io trovo nelle tue parole la riprova di ciò ch'io ho sempre creduto capire pur non essendo sicuro del mio possesso. — Ma per Dio, ora che ho assaporato questa gioia io non ti lascerò finché non avrò vuota la coppa. Poiché che mi giova ch'esso sia in parte sicuro il mio possesso se non è in tutto? Per piccola che sia l'apertura ci sfugge il nostro comune possesso, ed io mi sento nuovamente vuoto ora e mi pare che quanto io t'ho detto e quanto tu m'hai detto, sia tutto inutile perché non è tutto. Non pensi anche tu questo?
Nino. Sì anch'io lo sento.
Rico. In ciò che tu hai detto c'è pur sempre qualche cosa di diverso da quant'io dicevo; e io non posso a meno di sentir tutto quanto hai detto come contrario a me per quanto tu abbia detto cose simili a quanto io penso. Via! poniamo qui insieme tutto ciò che ci par giusto e cerchiamo di renderlo tutto identico, ché né io avrei più pace senza questo, ma mi sembrerebbe d'esser diverso da me stesso, anzi a me stesso contrario — né tu — com'io credo.
Nino. No di certo. Ma io ho detto or ora ciò che mi sembra giusto così che non ho che dire. Va' tu innanzi.
 
3.
Rico. Bene: tu hai parlato di accidenti, di malattie, come di mali reali, che per la loro presenza ammalano chi li ha per sano che fosse prima, e della morte come di male supremo che ci toglie non pur la salute ma insieme toglie ogni valore alla distinzione fra salute e malattia. — È così?
Nino. Appunto.
Rico. Ora dimmi: sai tu indicarmi la malattia cosa sia? Poiché se son mali bisogna bene che siano qualche cosa.
Nino. Certamente: quali la tisi o la polmonite o il tifo...
Rico. Bene — ma ognuna di queste che cos'è?
Nino. Dicono che siano bacilli...
Rico. Ma questi bacilli come sono essi dei mali, che cos'è il loro esser mali?
Nino. Perché sono perniciosi all'uomo.
Rico. Allora sono mali quando l'uomo li ha addosso?
Nino. Certo.
Rico. Ma quando non sono addosso all'uomo non sono né mali né beni.
Nino. Di necessità.
Rico. Allora nuovamente abbiamo bensì uomini ammalati, ma non abbiamo il Male. Ma dimmi, gli accidenti cosa sono?
Nino. Sono dei mali.
Rico. Ma è forse l'accidente una cosa che sta per sé, o è una qualità di qualche cosa?
Nino. No, ma è quando due cose si toccano così che una riesca perniciosa all'altra o il contatto pernicioso ad ambedue.
Rico. Anche qui dunque abbiamo una o due vite guastate in modo da non poter più vivere così come prima vivevano, ma il male non l'abbiamo. 
E la morte infine, t'è mai accaduto d'imbatterti nella morte?
Nino. Perché vuoi essere ingeneroso con me, e infierire contro il mio errore mentre io non v'insisto?
Rico. Perdonami, non era questo nelle mie intenzioni — ma combattevo — forse con troppa acrimonia — contro l'errore appunto perché lo sentivo ormai staccato da te e vedevo invece come tu procedevi con me e a volte mi precorrevi nella direzione presa.
Nino. Lo credo volentieri. Ma prosegui.
Rico. La morte dunque a sua volta ci si dissolve in mano, e crediamo parlar della «Morte», quando parliamo di questa o quella cosa alla quale è tolto di continuare nel futuro così come era prima. Non mali che colpiscono uomini sani, ma uomini tristi e mortali che secondo la loro natura, e s'ammalano e muoiono.
 
4.
Nino. E sia pure; lasciamo la morte e il male — fantasmi inconsistenti. Ma per Dio, chi si sente gelare mani e piedi, non può mettere in dubbio che il freddo non sia un male certo; e per l'uomo che ha mezzi polmoni consunti, la buona tisi è la perfida invitta nemica; e colui che le persone amate e le sue cose care si sente per sempre strappare, e questi monti luminosi, e questo azzurro del cielo, e questi verdi piani, e questo mare scintillante vede impallidire e spegnersi nel tramonto che non ha aurora — quegli non si chiede la morte che sia e se sia un male anche per gli altri o un bene — ma questo solo sa che niente gli vale più della vita, perché niente può dargli ciò che il cessar della vita gli toglie.
Rico. Tutto ciò è ben così come dici; ma da ciò quale massima trai per la vita?
Nino. Quale massima? — Nessuna massima! quando ogni argomento è impotente davanti alla sorte che ci oltraggia — ma vivete e godete, che il tempo stringe, e l'ora s'avvicina che ogni cosa vi sarà tolta!
Rico. Dunque pur sempre una massima! — Ti ricordi come hai combattuto l'augurio del buon vecchio prima giù nella valle fredda del cimitero? — Tu parlasti allora d'una vita visitata da tutti i mali che ci insegnasse a sopportar l'estremo male, la morte ineluttabile.
Nino. È vero — mi sono contraddetto, ma... ma...
Rico. Più a parole che in realtà. Difatti come prima così ancora ti ribelli all'inconcepibile passaggio dalla vita alla morte — ed è questa la giusta ribellione dell'uomo che vive. — Soltanto che nella valle senza sole adattavi secondo la tua fantasia la vita alla morte — ora che questa luminosa natura ha riaffermato in te i suoi diritti vitali, vuoi quasi col godimento esaurire la vita prima di morire.
Nino. Può ben esser così.
 
5.
Rico. Bene: è più giusta questa posizione per l'uomo. Noi abbiamo parlato del male e della morte e non siamo giunti a dire cosa sono e perché siano da maledire, ma soltanto che ci tolgono il godimento delle cose della vita. Per saper dunque il male temuto dagli uomini che sia, bisogna ben che vediamo che cos'è questo bene — che l'esserne privi è un male sì grave. — Dice il poeta che ogni uomo cerca morendo la fuggente luce. Così tu prima girando lo sguardo amoroso intorno, hai parlato del dolore d'abbandonare tutto ciò. — Abbandonare? — è forse tuo tutto ciò?
Nino. Mio no, secondo il diritto, ma mio più veramente.
Rico. Come questo? forse che s'io ne tolgo un pezzo tu non sei più quello che eri?
Nino. No certamente... È mio perché lo vedo e mi rallegro.
Rico. Se l'hai visto e ti sei rallegrato — che ti toglie più lo spegnersi della luce?
Nino. Mi toglie di vederlo ancora.
Rico. Allora quanto vedesti in passato non t'è mai bastato.
Nino. No certamente — ma è sempre come fosse una cosa nuova.
Rico. Né quanto ora vedi ti basta?
Nino. No. — Ma ho sempre desiderio di vederlo ancora.
Rico. E credi che in futuro lo potrai mai contemplare a sazietà?
Nino. Credo che la cosa non potrà mai esser diversa da quale è ora.
Rico. Bene dunque dice l'Ecclesiaste: «l'occhio non s'è mai sazio di vedere». Che hai dal più guardare se per quanto guardi non puoi mai dire: ho visto? E similmente le cose che tu dici tue come sono tue?
Nino. Sono mie perché nessuno me le può prendere.
Rico. Tue allora come sarebbe tuo un campo se lo avessi?
Nino. Così.
Rico. Pure il campo è tuo anche quando tu non lo tieni.
Nino. Ma lo tengo di diritto, lo tengo perché posso farne quello che voglio mentre gli altri non lo possono fare.
Rico. Allora tuo non è il campo ma tuo è il diritto di fare di lui quello che più ti piace — cioè la sicurezza che altri non può farlo in vece tua e impedire te dal farlo. — Ma tu solo puoi coltivarlo e trarne i frutti che ti sono utili! — Il campo ti rappresenta la sicurezza di questi frutti nel futuro.
Nino. Appunto. — E i frutti sono miei.
Rico. Tuoi come ogni altra cosa che altri non ti possa prendere: per la sicurezza che altri non ti torrà d'usarne.
Nino. Certo.
Rico. Ma ora — ammettiamo che tu viva nel paese dell'abbondanza — dove il peso delle frutta schianta i rami degli alberi, dove purché tu allunghi le braccia ed il pasto delizioso è pronto; e la terra è così ricca e il sole così generoso, che ogni cosa germoglia da sé senza la fatica dell'uomo; dove le bestie s'adagiano ai piedi dell'uomo perché questi ne faccia quanto più gli aggrada; — dove gli uomini vivono in continuo riposo godendo l'uno dell'altro e godendo ognuno della natura, senza leggi che limitino a ognuno il suo diritto, poiché la terra largisce a ognuno più di quanto gli occorra senza chieder niente. Dimmi non prenderesti ogni tua cosa con lo stesso piacere dalle mani prodighe della natura che dalle avare mani della legge umana?
Nino. Certo con più piacere.
Rico. Poiché la ricchezza della natura ti darebbe ben più valida sicurezza pel futuro che la legge degli uomini.
Nino. Certamente.
Rico. Epperò in quel beato paese ti diresti più ricco che qui, e più cose sarebbero tue.
Nino. Senza dubbio.
Rico. Dunque la questione del diritto non ci determina la proprietà che in riguardo alla sicurezza verso gli altri uomini. — Quando di questa non abbiamo più bisogno anche il diritto perde ogni significato. — Come è dunque tua una cosa tua se prescindiamo da ciò? Che ti serve che essa sia tua? che te ne fai?
Nino. È mia perché essa stessa mi rappresenta in sé la sicurezza di poter o mangiandone soddisfar la mia fame, o usandone in altro modo provvedere in futuro ai miei bisogni.
Rico. E se usatone una volta la cosa non ti serve più, ci tieni ancora a dir che è tua?
Nino. No certamente.
Rico. Dunque è tuo ciò che t'è caro e t'è caro ciò che potrà in futuro soddisfare un tuo bisogno.
Nino. Precisamente.
Rico. Tuo è ciò di cui non puoi fare a meno. Ma se tu non ne puoi fare a meno, non tu le hai in tua potestà; ma esse hanno te, e tu dipendi da loro che non puoi sussister senza di loro. — E le persone care non forse allo stesso modo ti sono necessarie e tu sei necessario a loro, ma il vostro amore non c'è chi lo possa saziare — né baci né amplessi, né quante altre dimostrazioni l'amore inventi vi possono compenetrare più l'uno dell'altro? Ma sempre vi tiene un eguale bisogno vicendevole.
Così ogni cosa è nostra solo perché ne abbiamo bisogno, solo perché ne usiamo — e mai abbiamo usato così delle cose della vita da non desiderare alcuna cosa, ma d'aver la nostra vita in noi. — Perché non possediamo mai la nostra vita, l'aspettiamo dal futuro, la cerchiamo dalle cose che ci sono care perché «contengono per noi il futuro», per essere anche in futuro vuoti in ogni presente e volgerci ancora avidamente alle cose care per soddisfar la fame insaziabile e mancare sempre di tutto. — Finché la morte togliendoci da questo gioco crudele, non so cosa ci tolga — se nulla abbiamo. Per noi la morte è come un ladro che spogli un uomo ignudo.
 
6.
Nino. La vita ci toglie: questo che tu dici crudele gioco, questo è la cara la dolce vita. Mancar di tutto sì e tutto desiderare — questa è la vita. Che se non ci volgessimo al futuro, ma avessimo tutto nel presente — appunto non vivremmo più. La vita sotto qualunque forma, come anche sia, a prezzo di qualunque dolore «si vive volentieri».
[…]
Rico. […] Dal terrore indefinito, in ogni modo la paura della morte cerca una cosa precisa sulla quale appoggiarsi per farsene uno schermo al niente che ti stringe — cerca qualunque cosa purché sia, anche un piano di suicidio... Intanto così ci si racconsola, — ci si distrae; — e poi si ricomincia — sempre avanti. 
Ma no, bisogna venir a una conclusione — o sì o no. Allora — è bello il soffrire e il lottare — allora hai in mano la vita: allora è bella la forza — e l’uomo deve tener raccolta la sua vita. Se allora egli si distrae è nuovamente perduto — che s’è rimesso nel giro delle cose consuete a cercar di fuori la vita che gli mancava, o s’è cullato nel sogno. Allora convien guardar in faccia la morte e sopportar con gli occhi aperti l’oscurità e scender nell’abisso della propria insufficienza: venir a ferri corti colla propria vita. O vivere o non vivere. Ma poiché in me qualcosa chiede ancora la vita — s’ho da continuare ma bisogna che io viva, che non abbia niente da aspettarmi dagli altri, ch’io sia libero veramente, ch’io affermi siffattamente la mia vita che da nessuno possa esser turbata, ma che anzi agli altri sia vita; bisogna che io sia giusto verso ogni cosa, che a nessuno sia ingiusto. Non un debito d’uno schiaffo, ma un infinito debito, non verso una persona ma verso la mia vita: e dalla profondità dell’abisso sorge la voce inaudita:
Niente da aspettare
niente da temere
niente chiedere — e tutto dare
non andare
ma permanere. —
Non c’è premio — non c’è posa.
La vita è tutta una dura cosa.
L’intendi? La via non è più via, poiché le vie e i modi sono l’eterno fluire e urtarsi delle cose che sono e non sono. Ma la salute è di quello che in mezzo a queste consiste — che il proprio bisogno la propria fame lascia fluire attraverso a sé e consiste — che se mille braccia l’afferrino e con sé lo vogliano trascinare, consiste e per la propria fermezza rende gli altri fermi. — Non ha niente da difendere dagli altri e niente da chieder loro poiché per lui non c’è futuro, che nulla aspetta. Non ha questa emozione e quella emozione, questo e quel sentimento, gioia, affanno, terrore, entusiasmo; ma il male della comune deficienza una sola voce gli parla e a questa con tutta la sua vita egli resiste in ogni suo punto. — Egli guarda in faccia la morte e dà vita ai cadaveri che lo attorniano. E la sua fermezza è una via vertiginosa agli altri che sono nella corrente, e l’oscurità per lui si fende in una scia luminosa. Questo è il lampo che rompe la nebbia.
E la morte, come la vita, di fronte a lui è senz’armi, che non chiede la vita e non teme la morte: ma con le parole della nebbia — vita morte, più e meno, prima e dopo, non puoi parlare di lui che nel punto della salute consistendo ha vissuto la bella morte.
 
 
[Il dialogo della salute, 1910]