Fuoriporta

Un respiro profondo

«Non andartene docile in quella buona notte
Infuriati, infuriati contro il morire della luce»
Dylan Thomas
 
 
No, questa volta no. L'ennesimo omicidio di un nero da parte della polizia, avvenuto lo scorso lunedì 25 maggio a Minneapolis (Minnesota), nel «paese più libero del mondo», non passerà inosservato, non finirà anch'esso a fare numero in qualche statistica. Schiacciato sotto il peso di tre poliziotti, uno dei quali col ginocchio premuto sul suo collo, George Floyd ha inutilmente invocato pietà. Le sue ultime parole sono state: «non riesco a respirare, non riesco a respirare, per favore, signore, per favore, per favore, per favore, non riesco a respirare». Ma ai signori che compongono il braccio armato dello Stato, di qualsiasi Stato, è inutile chiedere favori. È il loro lavoro non fare respirare, calpestare e soffocare ogni slancio vitale. Si arruolano appositamente per questo, per godere del potere di togliere il respiro a chi sta sotto di loro. Vengono addestrati e pagati appositamente per questo, per impedire ogni movimento di chi sta sotto di loro. E poi, se una tale richiesta proviene per di più da un poveraccio nero ed è rivolta a sbirri bianchi, allora l'esito finale è quasi sempre scontato. Talmente scontato che l'omicidio da parte della polizia è un fatto quotidiano negli Stati Uniti, considerato quasi endemico (secondo alcune statistiche, sarebbero almeno 400 le persone finora uccise dalla polizia statunitense nel 2020). È un fatto assodato, deplorato, criticato, con la stessa prontezza con cui viene metabolizzato e dimenticato.
No, questa volta no. Non è stato possibile. Se la morte di George Floyd ha suscitato ben più delle abituali polemiche sulle «tensioni razziali» che allignano negli Stati Uniti o sul razzismo dilagante fra le forze dell'ordine, se ha provocato il più ampio sollevamento che si ricordi nel paese, ciò è dovuto fondamentalmente a due motivi. Il primo è quasi banale: questo atroce omicidio è stato ripreso e il video ha fatto immediatamente il giro del mondo (proprio come accadde nel 1991 a Los Angeles con il pestaggio di Rodney King). Davanti a quelle immagini che rimbalzavano ovunque, sbattute in faccia nella loro brutalità, non è stato possibile limitarsi a scuotere la testa, a bestemmiare, a sospirare, a stringere i pugni... e rassegnarsi. 
È questa la differenza fra la morte di George Floyd e quella di Breonna Taylor, crivellata di pallottole lo scorso 13 marzo nel suo appartamento di Louisville (Kentucky) da tre agenti in borghese che vi avevano fatto irruzione senza mandato, o quella di Mike Ramos, ucciso da un poliziotto ad Austin (Texas) lo scorso 24 aprile mentre si trovava in un parcheggio a bordo della sua macchina. Lontani dagli occhi, è stato più facile tenere i loro omicidi lontani dal cuore. Già, terrificante tautologia — nella società dell'immagine è l'immagine a fare la differenza. Lo scorso 23 febbraio, mentre stava facendo jogging in un sobborgo di Brunswick (Georgia), Ahmaud Arbery è stato ucciso da un ex-poliziotto da poco andato in pensione e da suo figlio, che lo avevano inseguito scambiandolo per un ladro. Per oltre due mesi i due responsabili di quell'omicidio non sono stati infastiditi finché il 5 maggio è stato diffuso un video che riprendeva la loro prodezza; padre e figlio sono stati arrestati 48 ore dopo. Gli uomini dell'ordine possono ben uccidere chi non ha santi in paradiso, difficilmente verranno perseguiti, ma è meglio che prestino qualche attenzione a non farsi riprendere.
Il secondo motivo che ha impedito al fatto di cronaca avvenuto a Minneapolis di venire archiviato in una triste contabilità ordinaria, rendendolo viceversa dirompente, è del tutto casuale. Non c'è nulla che si assomigli più di due gocce d'acqua, ma è solo l'ultima a far traboccare il vaso. Anche se non era diverso da altri che l'hanno preceduto, l'omicidio di George Floyd  — quest'uomo qualunque, che aveva appena perso il lavoro e che cercava solo di sopravvivere, in cui è così facile riconoscersi — ha fatto da evento catalizzatore in grado di scatenare una serie di reazioni a catena che fino ad ora niente è riuscito a fermare e che stanno rendendo sempre più incandescente la situazione sociale negli Stati Uniti.
 
Dunque, cosa è successo? Nella notte di quel tragico lunedì 25 maggio è stato postato su Facebook un video ripreso da una passante che mostra gli ultimi minuti di vita di George Floyd. Si odono i suoi lamenti, si vede lo sguardo vuoto e indifferente del suo carnefice in uniforme. Sono bastate poche ore perché quel video diventasse assai più «virale» del Covid-19, indignando milioni di persone e facendo precipitare nell'imbarazzo le autorità locali. Il sindaco della città Jacob Frey, membro del DFL (un partito vicino al Partito Democratico, ma su posizioni ancora più «liberal»), esprime il proprio cordoglio alla famiglia di George Floyd e licenzia in tronco i quattro poliziotti coinvolti nella sua morte. Un provvedimento urgente più che raro, reso necessario per allontanare dall'amministrazione ogni sospetto di complicità ed abbassare così la tensione in vista delle manifestazioni di protesta previste per quel martedì 26 maggio. Per tutto il giorno in molte zone della città si terranno infatti iniziative per denunciare quanto accaduto. L'incrocio dove è morto Floyd diventa punto di ritrovo, di discussione, ed il traffico viene più volte interrotto. Cortei partono da vari quartieri della città per confluire tutti davanti al commissariato del terzo distretto, quello a cui appartenevano i poliziotti licenziati, che viene circondato da migliaia di manifestanti in preda ad una rabbia crescente. La vetrata d'ingresso va in frantumi mentre c'è chi traccia scritte sulle volanti e sui muri, e chi lancia uova e sassi contro l'edificio. Quando alcuni manifestanti cercano di infrangere le finestre del commissariato scatta la reazione dei poliziotti che si trovano all'interno, i quali respingono la pressione della folla usando gas urticanti. Ne nascono tafferugli che si spostano nel parcheggio del commissariato, i cui mezzi vengono danneggiati. Inferocita, la polizia carica i manifestanti sommergendoli di gas lacrimogeni e sparando proiettili di gomma, ma i manifestanti si difendono e daranno battaglia per tutta la notte (saccheggiando un negozio di liquori per rifornirsi di spirito). Sempre nel corso di quel martedì altri manifestanti stanno tenendo un presidio davanti alla casa di Derek Chauvin, l'ormai ex-poliziotto che nel video preme il proprio ginocchio sul collo di George Floyd.
 
La mattina di mercoledì 27 maggio la notizia del giorno in tutto il paese è la violenza impiegata dalla polizia di Minneapolis contro i manifestanti. Qua e là cominciano a venire organizzate le prime iniziative di solidarietà. A Portland (Oregon) viene occupato il Justice Center, mentre le strade di Los Angeles sono invase da un corteo che blocca la superstrada. Una volante della polizia investe la folla dei manifestanti, che reagiscono attaccandola prima di andare a presidiare il quartier generale della polizia. L'indignazione generale è tale che lo stesso presidente degli Stati Uniti tenta di cavalcarla, scagliandosi contro il sindaco di Minneapolis accusandolo di essere un «estremista di sinistra» che reprime giuste proteste. Intanto nella città del Minnesota viene eretto un recinto di protezione attorno al commissariato del terzo distretto, mentre altre manifestazioni e presidi di protesta prendono il via. Sebbene all'inizio sia la calma a prevalere, col passare delle ore la rabbia monta, aumenta, fino a dilagare incontrollabile. Il commissariato del terzo distretto viene nuovamente attaccato e, dopo essersi scontrati con la polizia disposta anche sui tetti, i manifestanti si disperdono per la città. Decine e decine di negozi vengono saccheggiati, palazzi interi dati alle fiamme. Un manifestante sorpreso all'interno di una gioielleria viene abbattuto dal proprietario.
 
Giovedì 28 maggio gli Stati Uniti si svegliano sotto shock per quanto accaduto. A Minneapolis viene inviata la Guardia Nazionale e sulla città si alzano gli elicotteri della polizia. Se da un lato il sindaco Jacob Frey cerca di calmare i manifestanti invitandoli ad essere «migliori di quanto lo siamo stati noi», dall'altro il procuratore Mike Freeman butta benzina sul fuoco dichiarando di non intendere procedere contro gli agenti licenziati (Freeman è noto per la sua grande comprensione e la mano leggera nei confronti dei poliziotti dal grilletto facile). Le proteste si diffondono in entrambe le «città gemelle» che sorgono sulle sponde contrapposte del fiume Mississippi, Minneapolis e Saint-Paul, dove migliaia e migliaia di persone scendono in strada. Tafferugli fra polizia e manifestanti scoppiano fin dal pomeriggio. Ma è la notte, è soprattutto la notte a scatenare i rivoltosi, i quali sanno bene dove darsi appuntamento per dare battaglia. Il commissariato del terzo distretto viene nuovamente attaccato e questa volta i manifestanti riescono a penetrarvi all'interno. Davanti alla pressione di una folla furibonda, i poliziotti capiscono di avere un'unica via d'uscita e sono lieti di obbedire ad un ordine senza precedenti: abbandonano l'edificio e scappano via a bordo delle loro volanti. Il commissariato è ora vuoto, alla mercé dei rivoltosi. Prima viene saccheggiato e devastato, poi viene dato alle fiamme, da cima a fondo. Un rogo che durerà per ore, salutato da urla di gioia in una vera e propria festa di liberazione. Non soddisfatti, i manifestanti devastano, saccheggiano e incendiano negozi di ogni genere: di elettrodomestici, di alcolici, di abbigliamento, di ristorazione, di telefonia mobile, supermercati... anche qualche banca e molti uffici postali finiscono in fiamme. Secondo la polizia di Saint-Paul sarebbero oltre 170 i negozi attaccati a partire dall'inizio delle sommosse. La stessa sera alcuni autisti di autobus rifiutano di guidare i propri mezzi per trasportare poliziotti o manifestanti arrestati, esempio di non-collaborazionismo che nei giorni seguenti si estenderà ad altre categorie di lavoratori.
Non pare un'esagerazione affermare che la notte fra giovedì 28 e venerdì 29 maggio resterà nella storia. La brutale e iper-equipaggiata forza di sicurezza del paese più ricco e potente del pianeta, barricata in una sua sede, è stata letteralmente sbaragliata da migliaia di manifestanti, neri incazzati ed incazzati neri, armati con mezzi di fortuna, per lo più giovani, privi di una consapevolezza politica, provenienti dalle fasce più povere della popolazione, ma tutti uniti dall'odio per il nemico più comune, più palese e più onnipresente: la polizia.
Non solo, ma proprio mentre nell'epicentro raggiunge il suo culmine, la rivolta contro la polizia e la società che difende inizierà a divampare in altri punti del paese. Quello stesso giovedì 28 vengono infatti organizzate iniziative in solidarietà a Portland (Oregon) ed Olympia (Washington). A Phoenix (Arizona) un corteo selvaggio finisce con una sassaiola contro il commissariato locale. In California, ad Oakland viene bloccato l'ingresso di una superstrada, a Sacramento le strade vengono bloccate dai cortei, a Fontana un presidio nei pressi di un commissariato si trasforma in un blocco stradale prima di terminare con danneggiamenti e lanci di pietre contro il municipio. A Denver (Colorado) viene occupata una superstrada e scoppiano scontri fra polizia e manifestanti. A Columbus (Ohio) i tafferugli sfociano in atti di vandalismo contro il palazzo del governatore. Scontri fra manifestanti e polizia avvengono anche a Louisville (Kentucky) ed a New York.
 
L'alba di venerdì 29 maggio spunta su un paese che non sembra essere più lo stesso. Qualcosa sta accadendo, qualcosa di imprevisto fino a pochi giorni prima e che nessuno sa dove potrebbe portare. E di questo i politici si rendono ben conto, tant'è che al risveglio si ode subito il cinguettio notturno di Trump, che da simpatizzante non può che diventare avversario della protesta. Preoccupato per la fine del rispetto verso la proprietà privata, annuncia la mobilitazione della Guardia Nazionale e lancia il suo avvertimento ai rivoltosi: «quando iniziano i saccheggi, si inizia a sparare». Parole che non otterranno l'effetto desiderato, al contrario — più che scoraggiare, ecciteranno gli animi. Il procuratore di Minneapolis, travolto dagli avvenimenti, gioca il suo asso nella manica per tentare di spegnere i disordini che si stanno diffondendo incontrollabili. Dopo aver visto bruciare un commissariato di polizia della sua città assieme a decine di altri edifici, dopo che il suo ufficio è stato bombardato da migliaia di quotidiane telefonate ed e-mail di protesta, dopo che la scintilla scaturita nella sua città ha attecchito in altre parti della nazione, ordina l'arresto immediato di Derek Chauvin con l'accusa di omicidio di terzo grado (è il primo caso di un poliziotto bianco incriminato per la morte di un cittadino nero nella storia del Minnesota). Forse, se fosse stato preso subito, questo provvedimento avrebbe dato i risultati disinnescanti sperati. Ma dopo quattro giorni di sangue agli occhi, si rivela del tutto inutile. Anzi, in un certo senso peggiora pure la situazione. Perché è evidente che si tratta di un'ipocrita pezza da esibire (assieme ai risultati dell'autopsia di George Floyd, secondo i quali l'uomo non sarebbe affatto morto per asfissia ma per proprie patologie pregresse) nel disperato tentativo di coprire le vergogne istituzionali (per altro, proprio quella mattina la polizia di Minneapolis aveva arrestato in diretta un giornalista della CNN reo di avere la pelle troppo scura). La tensione non si spegne affatto, tutt'altro, è destinata ad esplodere in maniera incontrollabile ovunque quel venerdì 29, primo giorno del week-end. In tutti gli Stati Uniti sono innumerevoli le persone che scendono in strada per protestare contro la violenza poliziesca, sfidando il coprifuoco notturno.
A Minneapolis vengono erette barricate in alcuni incroci stradali per bloccare la circolazione del traffico. È la quarta notte consecutiva di scontri (almeno quattro i poliziotti rimasti feriti), saccheggi ed incendi (di una banca e di esercizi commerciali). Un altro commissariato di polizia viene assaltato e devastato, su un muro viene lasciata un'ironica domanda: «ci ascoltate adesso?».
A Washington si verifica l'incredibile: i manifestanti circondano la Casa Bianca e tentano di assaltarla. L'edificio viene chiuso in stato di massima allerta, il suo celebre inquilino viene trasferito in un bunker sotterraneo, ed il servizio di sicurezza (composto da agenti dei servizi segreti) respinge i manifestanti ricorrendo al gas urticante.
Ad Atlanta (Georgia) si apre una specie di caccia allo sbirro, diverse pattuglie della polizia vengono attaccate. Le volanti sono danneggiate e incendiate. La sede della CNN viene presa di mira dai manifestanti, che ne sfondano le vetrate.
A New York hanno luogo violenti scontri durante i quali vengono feriti almeno una decina di poliziotti. Un loro furgone viene dato alle fiamme, e si registrano centinaia di arresti. Fra questi, una manifestante accusata di tentato omicidio ai danni di quattro poliziotti per il lancio di una molotov contro il furgoncino sul quale si trovavano. La molotov non è esplosa e la ragazza viene arrestata, assieme alla sorella, dagli stessi agenti presi di mira (uno dei quali viene accolto a morsi).
A Los Angeles alcuni manifestanti attaccano un poliziotto, che riesce a fuggire. In serata viene bloccato il traffico nel centro della città e saccheggiato uno Starbucks.
A San Jose (sempre in California) i manifestanti erigono barricate con cassonetti della spazzatura poi dati alle fiamme, si scontrano con la polizia e infrangono diverse vetrine dei negozi.
A Portland (Oregon) i manifestanti danno l'assalto alla prigione e al commissariato centrale. Una galleria commerciale è saccheggiata e incendiata.
Scontri e disordini si verificano anche a Dallas (Texas), Houston (Texas), Las Vegas (Nevada), Denver (Colorado), Memphis (Tennessee)... Ma è in altre due città che avviene l'irreparabile, ciò che contribuisce ad alimentare ed estendere ulteriormente le sommosse in corso.
Ad Oakland (California) è stata una giornata di manifestazioni di protesta. In serata migliaia di persone invadono l'autostrada, bloccando il traffico. Alle 21.45 la polizia annuncia il divieto della manifestazione. I manifestanti si disperdono per la città; c'è chi incendia cassonetti della spazzatura, chi devasta e saccheggia negozi, chi penetra dentro una banca per appiccarvi il fuoco, chi fa una rude visita a qualche concessionario d'auto... davanti al municipio si può leggere la scritta «non abbiamo nulla da perdere, solo le nostre catene». Ma proprio poco dopo le 21.45, da un'auto che transita davanti al tribunale federale vengono esplosi alcuni colpi d'arma da fuoco che raggiungono due agenti di guardia, uno dei quali muore. Che il modo migliore di «stop killing black people» sia quello di «start killing white pigs»? Questa notizia viene data solo il giorno dopo e all'inizio le autorità ne enfatizzano i toni, annunciando che si tratta di un atto di «terrorismo domestico». Poche ore dopo, forse accortisi che così rischiano di indicare il cattivo esempio, gli inquirenti si affrettano a negare che ci siano collegamenti con le proteste in corso.
Invece a Detroit (Michigan) una manifestazione di protesta contro la brutalità poliziesca, iniziata nel pomeriggio nella maniera più pacifica, finisce con scontri notturni fra manifestanti e forze dell'ordine. In mezzo alla baraonda, verso le 23.30, anche qui alcuni colpi di arma da fuoco vengono sparati da un Suv. Ma questa volta contro i manifestanti, ed un ragazzo di 19 anni viene colpito a morte.
 
Con simili presupposti, è inevitabile che anche sabato 30 maggio sia una giornata infuocata in una nazione dove in almeno 25 città di 16 Stati è stato imposto il coprifuoco, e la Guardia Nazionale mobilitata in una decina di Stati. Il ministero della Difesa ordina all'esercito di prepararsi a schierare in tutto il paese le unità di polizia militare. Nel corso della giornata hanno luogo manifestazioni pacifiche (a Eureka, Des Moines, Tacoma e Geneva, dove viene chiusa la superstrada, Santa Rosa, Modesto, Houston, Bloomington, Louisville, Miami, Durham, Montgomery, Atlanta, davanti alla casa del governatore, Burlington), altre che generano scontri fra manifestanti e forze dell'ordine (a Salem, Portland, dove il sindaco ha decretato il coprifuoco dalle 20 alle 6, Salt Lake City, Oakland, Phoenix, Denver, Dallas, Oklahoma City, Columbus, Milwaukee, Tampa, Jacksonville, Little Rock, Boston, Pittsburgh).
Nell'epicentro della rivolta, Minneapolis, il governatore Tim Waltz lancia un appello ai manifestanti: «Capisco la rabbia ma tutto questo non riguarda la morte di George Floyd, né le disuguaglianze, che sono reali. Questo è il caos». Le sue parole non devono apparire molto convincenti, considerato che migliaia di manifestanti sfideranno ancora il coprifuoco e la Guardia Nazionale per andare a devastare la casa di Derek Chauvin, incendiare banche, uffici postali, ristoranti e una pompa di benzina, prima di cercare purtroppo inutilmente di bruciare il commissariato di un altro distretto.
A Washington ennesima manifestazione davanti alla Casa Bianca, protetta dalla Guardia Nazionale e — a detta del fulvo settantaquattrenne bimbominkia che vi risiede — da cani cattivissimi. Un sempre più massiccio servizio d'ordine usa nuovamente il gas urticante per disperdere la folla, ma questa volta i manifestanti resistono ed alcuni di essi riescono perfino a contrattaccare con una sassaiola. Un'auto dei servizi di sicurezza parcheggiata all'esterno viene danneggiata, così come il Ronald Regan Presidential Foundation and Institute.
A New York scoppiano ancora violenti scontri, il cui bilancio ufficiale parla chiaro: 350 manifestanti arrestati (fra cui la figlia del sindaco della città, la quale stava partecipando ad un blocco stradale), 33 agenti feriti, 47 mezzi della polizia danneggiati. Un Suv della polizia investe una barricata, ferendo alcuni manifestanti.
A Seattle (Washington), oltre a scontri con la polizia durante i quali vengono date alle fiamme alcune volanti, si verificano dei saccheggi e viene chiusa una strada interstatale.
A Reno (Nevada) la polizia fa uso di gas lacrimogeni scatenando l'ira dei manifestanti che assaltano e devastano un commissariato.
A Las Vegas (Nevada) i poliziotti vengono attaccati con bottiglie molotov mentre vengono danneggiate automobili e saccheggiati negozi.
A Jackson (Florida) durante gli scontri restano feriti diversi poliziotti, uno dei quali pugnalato al collo.
A Sacramento (California) ci sono saccheggi e scontri con la polizia. Nel pomeriggio molti manifestanti attaccano il carcere della contea, infrangendone i vetri.
Ad Emeryville (California) vengono saccheggiati grandi magazzini in diverse aree.
A San Francisco sono bloccate strade e saccheggiati negozi. Il sindaco invoca la Guardia Nazionale.
A Los Angeles scoppia una vera rivolta di massa, con negozi saccheggiati a Berverly Hills e sulla Rodeo Drive al grido di «Eat the rich!», volanti attaccate, commissariati incendiati. Viene decretato lo stato d'emergenza e mobilitate tutte le forze di polizia. 
A La Mesa (California) si verificano saccheggi e incendi di banche.
A Scottsdale (Arizona) un centro commerciale è saccheggiato.
Ad Austin (Texas) viene chiusa un'autostrada, si saccheggiano negozi, si vandalizzano i commissariati.
A San Antonio (Texas) dopo un pacifico corteo viene attaccato ed incendiato l'ufficio della libertà vigilata.
A Lincoln (Nebraska) in mezzo a proteste, blocchi stradali, scontri con la polizia, viene dato alle fiamme l'edificio delle Poste.
A Madison (Wisconsin) la protesta sfocia in scontri e saccheggi.
A Grand Rapids (Michigan) e a Kansas City (Missouri) i manifestanti riscaldano l'aria con numerosi roghi.
A Rockford (Illinois) hanno luogo scontri e saccheggi.
A Chicago i poliziotti vengono bersagliati con oggetti di ogni genere e le loro volanti fracassate.
A Cleveland (Ohio) si verificano scontri, saccheggi e molte volanti sono date alle fiamme.
A Charleston (West Virginia), Columbia (South Carolina) e Raleigh (North Carolina) le manifestazioni terminano con scontri e saccheggi, alcune volanti prendono fuoco.
A Richmond (Virginia) molti negozi vengono saccheggiati, la sede delle Daughters of the Confederacy viene incendiata. Si inizia a vandalizzare i monumenti confederali, celebrazione dello schiavismo.
A Ferguson (Missouri) viene danneggiato e fatto evacuare un commissariato, dopo che i suoi agenti sono subissati dal lancio di petardi, mattoni, sassi, bottiglie.
A Nashville (Tennessee) i manifestanti, dopo essersi scontrati con la polizia, riescono ad incendiare il tribunale.
A Syracuse (New York) viene attaccato il commissariato centrale di polizia.
A Philadelphia (Pennsylvania), dopo scontri con la polizia e incendi di volanti, alcuni manifestanti si arrampicano sulla statua di Frank Rizzo (commissario di polizia nel 1968 e successivamente sindaco della città) e le danno fuoco.
Ad Indianapolis (Indiana) viene ucciso un altro manifestante, il terzo dall'inizio delle sommosse.
 
Domenica 31 maggio la protesta contro la polizia si internazionalizza. A Rio de Janeiro si tiene una grande manifestazione contro la polizia che solo lo scorso anno in quella città ha commesso circa 1800 omicidi — una media di 5 al giorno. Sfidando le norme antipandemia, diverse manifestazioni di protesta sono organizzate anche a Londra (dove si registrano arresti), Berlino, dove l'ambasciata statunitense viene circondata dai manifestanti, Toronto e Auckland (Nuova Zelanda).
Nel frattempo le agitazioni continuano inarrestabili anche negli Stati Uniti. In una Minneapolis blindatissima tutto sembra procedere nella calma, quando un'autocisterna cerca di investire la folla di manifestanti su un ponte. Un atto che per fortuna non provocherà nessun ferito (a parte l'autista del mezzo, che viene quasi linciato sul posto).
A Washington per tutta la giornata nei pressi della Casa Bianca, soprattutto nel parco antistante, scoppiano violenti e ripetuti scontri, durante i quali rimangono feriti una cinquantina di agenti dei servizi di sicurezza. Lo scantinato della chiesa di Saint-John (chiamata «Chiesa dei Presidenti»), che si trova all'ingresso del parco, viene dato alle fiamme. Ancora una volta all'interno del palazzo governativo viene decretato lo stato di allerta e il Presidente condotto in un bunker. Altrove per la città alle manifestazioni si risponde con gas lacrimogeni e granate stordenti. La sede dell'AFL-CIO, la più potente organizzazione sindacale del paese, viene devastata e incendiata. Sul suo muro viene lasciata la scritta «il silenzio è complice». Banche e gioiellerie vengono attaccate. Molti monumenti sono vandalizzati.
A Los Angeles la polizia fa uso di gas lacrimogeni contro i manifestanti che bloccano una via commerciale nel quartiere di Santa Monica. Numerosi palazzi commerciali e negozi sono saccheggiati. Sono oltre 20 le città della California in cui avvengono saccheggi.
A New York migliaia di manifestanti invadono le strade di Manhattan per raggiungere Union Square. Scoppiano nuovamente scontri con le forze dell'ordine, sulla Broadway. In cinque quartieri della città si verificano saccheggi.
A Boston (Massachusetts) centinaia di manifestanti si scontrano con la polizia, danneggiando ed incendiando volanti. Si saccheggiano alcuni negozi.
Anche ad Atlanta (Georgia) la polizia ricorre ai lacrimogeni. Viene dato l'annuncio che due poliziotti sono stati licenziati e altri tre sospesi per «uso eccessivo della forza» durante le manifestazioni del giorno precedente.
A Philadelphia (Pennsylvania) molte volanti della polizia vengono attaccate e distrutte, e alcuni negozi saccheggiati.
Poco dopo mezzanotte un manifestante viene ucciso dalla Guardia Nazionale a Louisville (Kentucky), città che in tutto il week-end è stata teatro di violenti scontri anche perché brucia ancora il ricordo della morte di Breonna Taylor. Altri due manifestanti rimangono uccisi a Davenport (Iowa). Il capo della polizia di questa città dichiara che anche tre agenti hanno subito un agguato, e che uno di loro è rimasto ferito.
 
Oggi è lunedì 1 giugno. È trascorsa una settimana dalla morte di George Floyd e tutta l'opinione pubblica statunitense è concorde nel ritenere di trovarsi di fronte «ai peggiori disordini civili dai tempi dell'assassinio di Martin Luther King». Il che è un elegante modo di fare buon viso a cattivo gioco. È infatti evidente che non è più la «questione razziale» a scaldare gli animi, come dimostra non solo la componente multietnica dei rivoltosi (Samantha Shader, la ragazza newyorkese arrestata venerdì notte per il lancio di una molotov contro la polizia, non è nera, né nativa americana, e nemmeno latina; è bianca, il colore della pelle giusto per essere lasciati in pace dal razzismo poliziesco, cosa che non le ha impedito di rischiare oggi l'ergastolo per aver cercato di vendicare George Floyd e tutte le altre vittime degli assassini in divisa), ma anche gli stessi slogan che scandiscono le manifestazioni in corso. L'appello alle Vite nere che contano ha lasciato sempre più spazio agli universali Nessuna pace senza giustizia e Non riesco a respirare. Da sgherri quali sono, i poliziotti non fanno altro che difendere il mondo dei loro padroni. Ed è proprio questo mondo che da Los Angeles a New York, passando per Minneapolis, viene dato alle fiamme. Un incendio divampato quasi con naturalezza, con rapidità impressionante, che ha sorpreso gli abituali pompieri-recuperatori lasciandoli attoniti davanti al fatto compiuto, senza più molte possibilità di intervenire. Quando un'attivista nera avvocata dei diritti civili difende apertamente i saccheggi, quando una celebre pop-star si dichiara pronta a fare qualsiasi cosa pur di buttare fuori l'inquilino dalla Casa Bianca, significa che le classiche riluttanze stanno venendo meno.
Fra le autorità cosiddette «responsabili», quelle più attente a non far precipitare la situazione, non si sa più cosa fare per calmare le acque (agitate anche dalla nuova autopsia sul cadavere di George Floyd, che ha indicato nell'asfissia provocata dalla pressione sul collo la causa effettiva della morte). Ecco quindi salire oggi alla ribalta niente meno che i poliziotti buoni, come quelli che a New York, Washington, Miami (Florida) e Santa Cruz (California) si sono messi in ginocchio in solidarietà con i manifestanti, o quelli che a Genesee (Michigan) e Norfolk (Virginia) si sono uniti ai cortei di protesta. Spettacolo mediatico più che reale defezione, senz'altro, ma avvenimento comunque indicativo e destinato ad essere presto sovrastato dall'arroganza di un governo che sputa sul fuoco nella certezza di riuscire a spegnerlo. Questa mattina l'ex-sindaco di New York, nonché consigliere di Trump sulla sicurezza, Rudolph Giuliani, ha dichiarato: «sono 7 giorni che la teppa comanda nelle città con i sindaci più democratici, è ovvio che questi sindaci sono incapaci di proteggere i loro cittadini. Danno forza ai rivoltosi abbandonando commissariati e ordinando alla polizia di stare ferma e di farsi aggredire senza procedere ad arresti» (sebbene siano migliaia gli arrestati nel corso delle sommosse). Poche ore dopo, il suo tracotante superiore, stanco di venire rinchiuso nel bunker di una Casa Bianca da giorni sotto assedio, ha annunciato che considererà «terroristi» i militanti Antifa (che considera i fomentatori dei disordini) e sollecitato governatori, sindaci e commissari a riportare Legge & Ordine usando le maniere forti contro i manifestanti: «Se non dominate le vostre città e i vostri Stati, vi spazzeranno via... A Washington stiamo per fare qualcosa che la gente non ha mai visto».
Appellandosi all'Insurrection Act del 1807, vuole inviare l'esercito nelle strade. Successe già nel 1967 o nel 1992, dopo le rivolte di Detroit e Los Angeles. Ma quelle rivolte erano circoscritte ad una singola area, qui è tutta la nazione che andrebbe pattugliata militarmente. Una simile decisione cosa può provocare? Riporterà la pace sociale o scatenerà la guerra civile? Trattare da insurrezione una protesta generalizzata costellata da sommosse non è forse il modo migliore per materializzare ciò che si è evocato? Senza dimenticare che con somma ipocrisia è la stessa Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti a proclamare il diritto, anzi, il dovere di rovesciare un governo dispotico.
Tanto più che — qualora politici e miliardari non se ne siano ancora accorti — in tutti gli Stati Uniti sta già accadendo qualcosa che alla Casa Bianca di Washington non avevano mai visto: la diffusione della consapevolezza che sotto il peso dell'autorità non si riesce né a muoversi né a respirare, ovvero a vivere. Che è inutile chiedere favori a chi ci tiene, più o meno premuto, il piede sul collo. Che quando la sola scelta lasciata da questa società è quella fra obbedire in silenzio o venire schiacciati, non resta che rifiutare entrambe le alternative e armare questa consapevolezza con la rivolta. Sfidando coprifuoco e forze dell'ordine, gas urticanti e pallottole. Sfidando la paura e la rassegnazione, il senso di impotenza ed il realismo. Scendere in strada e battersi, con furia, senza moderazione, scoprendo che non si è affatto soli, che non si è affatto deboli, e che è possibile, è sempre possibile rovesciare la situazione. 
Cominciare a respirare, nella sola maniera possibile: non facendo più respirare l'autorità.
 
 
[1/6/2020]