Brulotti

La responsabilità del popolo tedesco

Bernard Charbonneau
 
«Wessen Schuld?».  Su tutti i muri diroccati delle città tedesche, questa domanda accompagna le immagini fotografiche dei campi di sterminio. E i giornalisti alleati la pongono ai tedeschi che incontrano. La risposta è sempre la stessa: «Io non sapevo... credete che quel vecchietto dall'aria timida, o quella casalinga che ritorna dal mercato, siano capaci di simili atrocità?». Il viaggiatore straniero non vede attorno a sé volti di assassini, ma una popolazione di persone laboriose e bonarie. Il Daily Herald ci informa: Le autorità britanniche hanno dovuto rinunciare a proiettare il film sulle atrocità di Belsen nei cinema della zona da loro amministrata; il pubblico rideva come davanti ad un'oltraggiosa propaganda e, agli stranieri esterrefatti, i tedeschi rispondevano scrollando le spalle che il film era stato girato nei campi di concentramento inglesi.
Nella maggior parte dei delitti il criminale può negare, pur sapendo nel suo intimo di essere colpevole. Ma qui la colpa non è più su scala umana e il tedesco, evidentemente, non si sente responsabile. Gli viene chiesto: «Wessen Schuld? – Di chi è la colpa? Di certo non è mia, forse dei capi, o del vicino, io ho combattuto, ho lavorato, ho dovuto lottare per sopravvivere attraverso bombardamenti e battaglie, non ho fatto altro, le mie mani non sono sporche di sangue». Come si fa a far pentire un uomo di un crimine di cui si ritiene innocente?
Eppure, le montagne di cadaveri sono là a testimoniare un'impresa di sterminio senza precedenti. Ma allora, la commedia da innocente sarebbe solo la mostruosità di un criminale incallito compenetrato in modo particolare nel suo crimine? Non lo penso e credo che la verità sia assai più terribile: è al tempo stesso negli abomini di Dachau e in questa innocenza.
La grande massa del popolo tedesco, sul piano personale, è rimasta effettivamente estranea a quel crimine. Come? Innanzitutto c'è la propaganda, nella sua forma più efficace: il silenzio organizzato. Non tutti vivono accanto ad una prigione e sono rari coloro che hanno il desiderio o il privilegio di conoscerla. È probabile che i giornali tedeschi non ponessero affatto l'accento sulle torture subite dai detenuti nei campi di concentramento; al contrario, la propaganda di Hitler li celebrava quali attività di rieducazione di individui squilibrati mediante il lavoro. E dato che la propaganda non cessava di presentare al tedesco medio i nemici del paese come criminali incalliti, nulla poteva predisporlo alla pietà nei loro confronti ed era portato a pensare che fosse già molto consentire a quegli uomini di vivere nei campi in campagna, mentre gli aerei nemici incendiavano le città tedesche e la gioventù del paese cadeva in tutti i campi di battaglia d'Europa. Dimostrare compassione verso i detenuti stranieri non sarebbe stato solo un atteggiamento di correzione passiva, ma un intervento scandalosamente attivo in un ordine di cose dal peso soverchiante. Avrebbe comportato al tempo stesso un enorme sforzo spirituale per superare l'obbligo interiore della propaganda e del «consensus omnium», ed uno sforzo di coraggio per superare una spietata costrizione fisica. Quanti uomini potevano considerarsi capaci di uno sforzo così totale?
C'è dell'altro: il carattere astratto del mostruoso massacro. Si può affermare che sia la sua stessa mostruosità ad averlo reso astratto. Un massacro così gigantesco non si è potuto verificare che grazie ad uno sterminio sistematico. E poiché lo sterminio è stato sistematico, il compito è stato minuziosamente suddiviso e la responsabilità frazionata all'infinito. Il tedesco non si è sentito criminale, non più di quanto si senta criminale l'ingranaggio di una macchina. C'era chi guidava il camion fino alla camera a gas, c'era chi aveva costruito i muri della prigione, c'era chi predisponeva la strumentazione elettrica nella stanza delle torture, c'era chi premeva il bottone, c'era il minatore che aveva estratto il carbone, c'era il soldato che aveva combattuto per impedire al nemico di arrivare a Dachau. E tutti con una risposta sola: «Abbiamo eseguito gli ordini». Grazie alla loro dedizione e coscienziosità, le cose sono state fatte bene, fino in fondo, fino al sacrificio supremo. Ovviamente, restano solo i delitti aneddotici, la vendetta dello sgherro impazzito, oppure il grande colpevole, Hitler. Ma chi può ritenere un solo uomo responsabile di Mauthausen o di Ravensbrück?
Il tedesco ha anche un'altra scusa: il carattere irresistibile dello stato di cose in cui era preso. «Io non sapevo...», «Non ero io...» si completano con «Ero costretto». Da qualche parte, molto in alto, forse era accaduto qualcosa di inquietante. Ma una cosa era certa: chi si era intromesso in quel genere di affari era stato eliminato. Non si trattava più di un rischio; la polizia era così ben organizzata che chi avesse ostacolato le attività dello Stato sarebbe stato automaticamente liquidato. Scontrarsi con la Gestapo non significava rischiare la morte, era la morte, certa quanto saltare dal quinto piano. È debolezza arretrare davanti al suicidio? Soprattutto quando l'opinione pubblica e la propaganda si uniscono alla voce oscura della codardia spirituale e fisica per convincervi che il Dovere consiste proprio nel restare tranquilli. Affinché gli uomini resistano alla forza, è necessario che sperino ancora. Lo stesso popolo francese ha iniziato a ribellarsi contro un potere che non era il suo soltanto il giorno in cui le possibilità di una sconfitta tedesca sono diventate certe. In Germania c'erano pochi uomini a portare avanti la lotta contro l'opinione e contro la speranza, e mi domando se, in circostanze analoghe, sarebbero stati più numerosi nel nostro Paese.
«Wessen Schuld?», «Di chi è la colpa?». Di nessuno. Di Hitler e dei suoi amici? Era stato il popolo tedesco a portare Hitler al potere. Del popolo tedesco? Il popolo tedesco non ha fatto che sopravvivere. Non resta che un gigantesco apparato le cui determinazioni meccaniche s'impongono agli individui sia all'interno che all'esterno, una logica mostruosa che conduce fino alla guerra, fino alla morte. L'individuo non si sente responsabile perché quella gigantesca macchina che lo trascina gli è completamente esterna. Non ci sono responsabili, non ci sono criminali. Auschwitz, Ravensbrück, Mauthausen — è colpa di tutti e di nessuno.
 
Ebbene, eccolo l'orrore del crimine, il più insondabile di tutti: che la colpa stessa non sia più personale, che non esistano più responsabili e che, per evitare che gli uomini disperino della giustizia, si sia costretti ad inventarli. La cosa più terribile è il meccanismo mostruoso e assurdo, un individuo sempre più passivo. E il crimine di questo individuo non è di aver torturato, ma per l'appunto di aver subìto, di essersi messo nella situazione di non poter che subire, sia sul piano fisico che su quello spirituale. Perché l'uomo è fondamentalmente un essere responsabile, un essere libero, libero in tutto, anche di macchiarsi della più grande delle colpe, quella a partire da cui tutte le altre sono possibili: libero di rifiutare la libertà. Non c'è dubbio che, nel segreto del proprio cuore, quasi ogni tedesco abbia compiuto tale atto di rinuncia. Questo apparato irresistibile si è costituito solo attraverso la rinuncia dell'uomo: come in un lampo subitaneo, il tedesco ad un certo punto ha dovuto scegliere se diventare un ingranaggio o rimanere un uomo.
La giustizia per la Germania consisterà nel punire i criminali: i grandi capi, o i più ignobili esecutori. Ma non dobbiamo nascondere a noi stessi che tale giustizia non potrà colpire la colpa essenziale: l'irresponsabilità dei tedeschi. Giustizia sarebbe soprattutto ristabilire una Germania in cui ogni tedesco si senta responsabile nel male come nel bene. Ciò che la profonda soluzione del problema tedesco esige non è la punizione di qualche colpevole, è la distruzione di un sistema. Una rivoluzione sia sul piano spirituale che materiale. Per un mondo in cui il crimine sia il mio o il tuo crimine. Questo è il motivo per cui alla fine la nostra capacità di risolvere la questione tedesca sarà quella che avremo di risolvere le nostre questioni. Se riusciamo ad immaginare solo una civiltà meccanica in cui la responsabilità personale si perde, se manteniamo uno stato di cose in cui la rinuncia individuale è la regola, allora non ci sarà soluzione umana al disordine germanico.
E, per mettere una parvenza di ordine in questo caos, non ci resterà che far ammettere la verità ai tedeschi con i mezzi che si sono dimostrati così efficaci nell'indurli a sbagliare. Bisognerà fabbricare dei buoni tedeschi come Hitler ha fabbricato dei cattivi tedeschi. Bisognerà formare una generazione di piccoli tedeschi liberi che credano alla perversità del Führer come i loro padri avevano creduto alle sue virtù. Poiché non vogliono farsi persuadere della realtà dei campi di sterminio, bisognerà far sì che ci credano attraverso una buona propaganda.
Se si farà così — e non ho dubbi che ciò verrà intrapreso, in particolare da parte russa — il successo sarà certo. Più facile e più sicuro. Ma ricordiamoci che è a partire da queste tecniche neutre che possono servire indifferentemente a qualsiasi cosa, che è soprattutto a partire da questo essere neutro che si forma e si deforma, che tutto è possibile. Non si tratta di fabbricare dei tedeschi democratici e virtuosi: si tratta di farne degli esseri responsabili, nel crimine come nella virtù. Non si tratta di creare il paradiso in terra, ma di stabilire un mondo in cui l'omicidio, lordando di sangue le mani del criminale, porti quest'ultimo, preso dall'orrore di se stesso, a sentirsi torturato dall'angoscia del rimorso. È questa la strada: quella della Germania, e la nostra.
 
 
[Le Semeur, novembre 1945]