Contropelo

Il rovello

Un'ossessione ventennale macerata nel fiele. Periodicamente veniamo tenuti al corrente della sua evoluzione, quand'essa si manifesta in modo pubblico. Non solo perché questa ossessione ci tocca purtroppo direttamente, ma anche e soprattutto per gli effetti che ha avuto col passare del tempo, producendo miasmi anche esilaranti. Poiché tutto ciò ha luogo in Francia, per lunghi anni non ce ne siamo occupati. In fondo, vista da tanti chilometri di distanza, si tratta null'altro che di una penosa vicenda privata di un caso umano. Il personaggio vive a Parigi e la natura gli ha giocato un brutto scherzo. Da un lato è stata generosa nei suoi confronti, dotandolo di una certa intelligenza; dall'altro è stata carogna, poiché gli ha guastato quel dono facendogli scorrere nelle vene non sangue, ma fiele. Il risultato è agghiacciante. Finché è calmo e tranquillo, in qualche caso riesce a ragionare in maniera sensata; ma non appena il fiele comincia a scorrere, salendogli agli occhi, pompandogli il cuore, irrorandogli il cervello — cosa che gli capita sempre più spesso, essendo alquanto irascibile — diventa un attaccabrighe farneticante assurdità senza capo né coda, e non ha neppure bisogno di additivi per cercare un pretesto qualsiasi pur di buttarla in rissa. L’«uomo del risentimento» descritto da Nietzsche trova una delle sue più perfette incarnazioni proprio in questo maoista pentito con pretese libertarie, in questo iper-mega-ultra critico che si atteggia a guru del pensiero sovversivo in Francia (in Europa, sulla terra, nell'universo) ed è roso dall'astio verso tutti coloro che sospetta gli possano fare ombra (poco importa se insurrezionalisti, comunizzatori, anti-industriali...). Contro tutti questi schiera la sua artiglieria pedante fatta di processi alle intenzioni, sillogismi, illazioni ed accuse strampalate, il tutto basato su un'unica strategia: strillare contro un'intrusione aprendo un fuoco di sbarramento composto da accuse di riduzionismo (sempre), opportunismo (spesso), negazionismo (talvolta). Il nome reale di costui è qui irrilevante, dato che l’A.D. della sovversione utilizza più nomi virtuali; ma da molti anni noi lo chiamiamo semplicemente il Poveretto.
Alcuni giorni fa ha avuto la pessima idea di bussare per l'ennesima volta alla nostra porta, e non per regalarci qualche chicca mai richiesta della sua sapienza da tuttologo (dalla fisica alla storia, dalla filosofia all'economia, non c'è campo in cui non si professi campione), bensì per consegnarci di persona il frutto maturo della sua ossessione nei nostri riguardi. Francamente, ci è sembrato troppo. Sì, sappiamo che certi casi umani andrebbero ignorati per non eccitarli ulteriormente, ma insomma... c'è pur sempre un lockdown da rallegrare. Che i nostri lettori prendano ciò che segue mooolto alla leggera, come un semplice intervallo comico che non si ripeterà più.
Cominciamo quindi dalla mail e dall'allegato che l’A.D. ci ha da poco inviato, che qui traduciamo integralmente, e che ha intitolato sobriamente Il mito Thuillier :
 
Buongiorno a tutte e a tutti.
Recentemente, le Edizioni “L'Impatience” di Marsiglia hanno rieditato uno degli opuscoli di Pierre Thuillier, datato 1980, storico delle scienze al CNRS negli anni 1970. Lo presentano come una delle principali critiche allo “scientismo”. Ora, come diceva allora uno dei miei amici libertari dell'epoca, oggi scomparso, feroce critico della tecnoscienza, “la critica della scienza e della tecnologia è troppo importante per essere lasciata nelle mani dei recuperatori universitari”. Cosa che può essere applicata senza rischio a Thuillier. Ecco la ragione per cui sto facendo circolare quello che segue, modesto contributo a discussioni formali e informali, in Francia e altrove. Ovviamente, a ciascuno e ciascuna di formarsi la propria opinione su questioni così importanti.
 
*
Buongiorno.

Per quanto riguarda Pierre Thuillier, ho avuto occasione di incontrarlo negli anni 70. Era l'epoca in cui, da parte del CNRS, sulla scia del Maggio 68, alcuni ricercatori, anche quelli in epistemologia come lui, prendevano le distanze dalla doxa ufficiale, in particolare dall’incallito scientismo dell'epoca. Ma rimanevano all'interno del quadro universitario, diciamo tollerati dall'istituzione perché allora non poteva fare diversamente. Ad ogni modo non eravamo pochi ad aver criticato la ricerca e ad aver interrotto i rapporti con essa, Alexandre Grothendieck in testa. Per quanto mi riguarda, visto che i miei studi universitari mi portavano a partecipare al cenacolo nuclearista, insomma al CEA, ho deciso fin dal 1970 di troncare ogni rapporto con il mondo della ricerca. Era il minimo che si potesse fare per dare prova di coerenza. Questa non fu la posizione di Thuillier che, come molti altri ricercatori del CNRS, contestatori della domenica, intendeva rimanervi e riformarlo. Per questo motivo partecipò, nel 1970, alla creazione della rivista del CNRS, "La Recherche", che all'epoca accettava talvolta articoli contestatori in mezzo a una massa di articoli discretamente apologetici della scienza e della tecnologia. Egli vi partecipò senza problemi fino al 1994, allorché la rivista non era altro, e ormai da tempo, che portavoce dello Stato, in particolare sul nucleare. Vedi gli infami articoli dei nucleocrati su Chernobyl. Ricordo che alcuni redattori di "La Recherche", già nel 1988, furono attaccati in maniera non molto "bonaria", viste le schifezze scritte sulla catastrofe. Insomma, Thuillier non lasciò mai il campo dell'epistemologia "contestatrice” all'interno stesso dell'istituzione e considerava come "dimissioni", uso il termine che egli usò davanti a me alla fine degli anni 70, l'idea stessa di lasciarla, compreso il CEA, il tempio del nuclearismo esagonale! Nel suo Précis de récupération Jaime Semprun illustra abbastanza bene l'atmosfera che regnava allora nei circoli della ricerca: "Psichiatri che fanno l'apologia della follia, medici che mettono in discussione ogni terapia, economisti che sfidano i rapporti mercantili, giornalisti che insultano l'informazione, scienziati che scoprono di essere al servizio del potere, professori che proclamano l'inutilità di ogni insegnamento, dirigenti sindacali che hanno in bocca solo l'autogestione, sono tutti sul modello dell’improbabile prete maoista di nome Cardonnel che nega freddamente ma teologicamente l'esistenza di Dio”. In realtà, siamo seri, gli articoli e i libri "contestatori" di Thuillier non vanno oltre quanto allora già mille volte affermato, ad esempio sullo scientismo dell'epoca, da molti critici, in teoria come in pratica. Ma non nei cenacoli accademici che egli non lasciò mai. È perlomeno strano che degli anarchici, come quelli di "Finimondo", vedano nei testi di Thuillier & C. delle espressioni di critiche radicali senza pari quando, per chiunque conosca la storia, rivelano solo l'opportunismo recuperatore degli accademici negli anni Settanta. Opportunismo oggi digerito e riciclato dai gestori del dominio. Solo per renderlo più accettabile.

André Dréan
 
No, no, no, aspettate prima di sbattere gli occhi sbalorditi, non è finita qui! Per cogliere fino in fondo il personaggio ed il suo stile — l'indignazione iperbolica buona per lasciare dietro di sé almeno l'ombra di un sospetto — c’è da aggiungere che non ha scritto una sola lettera di accompagnamento al suo «modesto contributo a discussioni formali e informali». Ad altri compagni ha offerto quest'altra presentazione:
 
Buongiorno,
Avevo già visto che “Finimondo” faceva riferimento a Thuillier. Ne sono stato molto stupito, ma insomma, a priori “Contro lo scientismo” può apparire, da lontano e staccato dal contesto dell'epoca, critico verso la scienza e la tecnologia, quantomeno verso l'ideologia scientista che dominava negli ambienti dei ricercatori più ottusi in Francia, cioè dalla parte del CNRS, ideologia che, sulla base del recupero delle contestazioni uscite dal Maggio 68, non esiste più in quanto tale, se non presso gli ultimi dinosauri del CEA. Ma da lì a rieditare “Contro lo scientismo”, per di più presentandolo in modo ditirambico, stando alla breve presentazione sul sito! Non ho letto la presentazione che ha realizzato “L'Impatience”. Viceversa, Io faccio parte dei critici che, in teoria come in pratica, combattono la scienza e la tecnologia da lustri. Non ci sarebbe mai venuto in mente di considerare Thuillier, o altri personaggi dello stesso stampo come Lévy Leblond, dei potenziali complici. Le loro motivazioni, i loro obiettivi, ecc. erano agli antipodi dei nostri. Ecco perché vi allego qui il commento che ho inviato ieri a “Indymedia”.
André Dréan 
 
Da non crederci, vero? L’A.D. della sovversione è riuscito ad intervenire nella cloaca della sezione rutti & commenti di Indymedia francese solo per manifestare la propria meraviglia che un sito italiano abbia potuto vedere in Thuillier addirittura un critico radicale senza pari! E poco gli importa che la stragrande maggioranza dei lettori francesi di Indymedia non sappia nemmeno cosa sia Finimondo; o che noi nemmeno sapessimo chi fosse Thuillier prima che venisse pubblicato il libro; o che questo sia stato editato sia in Italia che in Francia da compagni che non fanno parte di Finimondo; o che in realtà l’A.D. non abbia neppure letto cosa Finimondo abbia pubblicato del libro, ovvero la postfazione (postfazione nient’affatto breve e in cui non si accenna mai a Thuillier, se non per riportarne una brevissima citazione). Per questo invasato noi facciamo «riferimento», di più, facciamo un «mito» di un autore la cui vita nulla avrebbe di sovversivo. Che scandalo! Ah, va beh, ma allora, se proprio bisogna scendere a questo livello, siamo colpevoli di molto peggio! Abbiamo noi stessi tradotto e pubblicato testi di Ellul, Orwell, Mumford, Charbonneau... e quindi siamo responsabili di procurata idolatria nei confronti di pensatori cattolici, socialisti liberali, sociologi medagliettati, precursori della decrescita... 
Ora, a parte ogni altra considerazione, come si fa a dare per scontato che si debbano pubblicare esclusivamente testi di cui si condivide ogni singola parola, scritti da autori con cui si sia assolutamente affini? Se una simile pretesa è già assurda per un editore, figuriamoci per chi annuncia la pubblicazione di un libro realizzato da altri riprendendone la postfazione. Il povero A.D. pensa che tutti i veri rivoluzionari (quelli come lui, insomma) debbano seguire l'esempio situazionista, pubblicando solo testi originali di cui condividono l’intero contenuto? Se così è, si tratta di un problema tutto suo; pazienza, vorrà dire che non siamo veri rivoluzionari. Resta il fatto che a nostro avviso anche testi scritti da autori privi di aspirazioni sovversive possano talvolta offrire interessanti spunti di riflessione, regalando concetti da riprendere, perfino trasformare o alterare (in tal caso omettendone il nome), per far sì che un'opinione disarmante e disarmata diventi un'idea pericolosa. In questo senso le vie del Signore sono davvero infinite se un autore pacifico e pacioso come Ellul ha trovato fra i suoi lettori non solo un Latouche, ma anche un Kaczynski. Ebbene, presumiamo siano queste le ragioni che hanno spinto alcuni anarchici a rieditare il testo di Thuillier, non certo l'intenzione di creare un mito attorno a un docente universitario o di attribuire il premio al più radicale critico della tecnoscienza degli anni 70. Tanta acredine siamo certi che non sia affatto generata dal disinteresse che Finimondo ha sempre dimostrato nei confronti dei testi dell’A.D. della sovversione, quella vera.
Non possiamo poi fare a meno di osservare come, nonostante ami darsi arie da libertario, il povero A.D. sia rimasto l'autoritario che era in gioventù: non ce la fa proprio a capire cosa sia la responsabilità individuale, non riuscendo a concepire l’esistenza di individui autentici. Se due edizioni, una italiana e una francese, pubblicano il libro di Thuillier, lui cosa fa? Fa le pulci a Finimondo! Ovvio... Evidentemente, ritiene che le suddette edizioni non siano altro che succursali di una delle sue tante bestie nere, emanazioni di un Partito composto da capi e gregari, ovvero l'unica forma di rapporti umani fra compagni che è in grado di concepire.
Nel suo delirio da pubblico ministero a caccia di moventi riesce addirittura a suggerire che l'intento di (Finimondo tramite) chi ha pubblicato Thuillier sia quello di cercare «potenziali complici»!?! E sì che non ci vuole molto a capire che i potenziali complici si cercano fra i vivi e che quindi Thuillier, venuto a mancare nel 1998, non può rientrare fra questi. L’A.D. si è talmente sovreccitato da non rendersi conto di quanto ha scritto, considerati i ricordi che lui stesso riporta. Infatti è proprio lui, anzi, Lui a far «parte dei critici che, in teoria come in pratica, combattono la scienza e la tecnologia da lustri» («Sono un vecchio combattente/guardate come sono bello», rideva Péret), a rivelare di aver frequentato quel mondo, il tempio del nuclearismo francese, e di aver conosciuto Thuillier al punto da discutere insieme l'ipotesi di abbandonare l'istituzione accademica. Per di più, non possedendo pensieri a cui dare corpo, l’A.D. ci tiene a precisare di aver troncato i rapporti con la ricerca scientifica «per dare prova di coerenza». Per ideologia, insomma. Che peccato, rinunciare a una sì promettente carriera solo per compiacere qualcun altro...
 
Ma, come dicevamo, l'ossessione del povero A.D. nei nostri confronti è di vecchia data, risalendo alla fine dello scorso millennio. All'epoca aveva conosciuto a Parigi un redattore del settimanale Canenero, costretto alla latitanza dall'inchiesta Marini, il quale gli aveva fatto una pessima impressione per via delle idee anarchiche che allora sosteneva. Non potendo contare su un esercito popolare per regolare i propri conti, cosa fece questa piccola Guardia Rossa per debellare la minaccia anarchica insurrezionalista che vedeva spuntare da fogli come Loup garou e Les Indésiderables? Ricorse alla sua arma preferita, la lettre de cachet. L’A.D. ha infatti l’inveterata abitudine di inviare lettere private ai suoi contatti per metterli in guardia contro Tizio o Caio, a cui attribuisce ogni genere di nefandezza teorica. In quell’occasione scrisse un testo di una decina di pagine intitolato Notes d'humeur sur "Canenero" and Co, il cui contenuto conferma in pieno il titolo. In effetti le note sul conto di un giornale italiano scritte da un francese che non conosce la lingua di Dante, e che quindi non lo hai mai letto, non possono che essere stizzose. L'incipit di quelle Note, divise in undici punti, ne annunciava fin da subito forma e contenuto: «Negli insurrezionalisti l'orientamento ufficiale è anarchico e nient'altro che anarchico. In realtà i discepoli di Bonanno proseguono il bracconaggio ideologico del maestro sul versante di Marx, Adorno, Debord, ecc., ma, contrariamente a lui, senza averne consapevolezza, visto il lavaggio di cervello organizzato dallo Stato al quale le loro giovani teste sono state sottoposte e vista l'amnesia che ne risulta». Da lì va all'assalto di Bonanno, del suo «nipotino» (è con questo termine sprezzante, messo tra virgolette, che chiama il latitante a Parigi), di Canenero, dell'anarchismo insurrezionalista italiano — di chi insomma non è proprio disposto a servire il popolo — in cui il suo grande fiuto da segugio anti-controrivoluzionario è riuscito a rinvenire tracce di «schizofrenia», «gerarchia», «riduzionismo», «marxismo ortodosso», «marxismo-leninismo», «gradualismo», «leninismo», «avanguardismo», «morale cristiana», «ideologia maoista»... Ciliegina sulla torta, egli ricorda che questi anarchici hanno pure l'aggravante di vivere in Italia, ovvero di essere per forza di cose infettati da Santa Madre Chiesa, e quindi la conclusione delle sue Note non può che essere secca e perentoria: «Tutto ciò è abbastanza ripugnante, regressivo e pure mortifero in rapporto allo spirito rivoluzionario, pieno di vita, degli anni 70, in Europa e negli Stati Uniti. E a questo titolo deve essere combattuto». Ogni ulteriore commento ci pare superfluo. 
Ma il suo rancore non si acquieta. Perché nel 2008, quando vede la luce in Europa e in Francia la rivista  A corps perdu, il Poveretto vi ritrova quelle stesse idee da lui aborrite e combattute, non esattamente a viso aperto. Per questo motivo decide di pubblicare nel dicembre 2010 le sue vecchie Note umorali, a firma Peter Vener, arricchite con un sottotitolo («Da Bakunin a Deleuze, passando per Lenin: breve sorvolo del percorso eclettico, iniziato in Italia, della cosiddetta tendenza anarchica insurrezionalista»), una citazione iniziale di Dostoevskij («Partendo dall'idea di libertà illimitata, sono giunto a quella di dispotismo illimitato») e un'introduzione di sei pagine in cui prosegue la vivisezione delle idee anarchiche insurrezionaliste italiane, aggiornandone i risultati. A dieci anni di distanza dalla sua lettre de cachet, e forte della lettura dell'articolo Al centro del vulcano e dell'opuscolo Ai ferri corti, il suo occhiuto acume è riuscito a cogliere in essi anche l'influenza di Deleuze, di Heidegger e... di Bifo! Avesse avuto più tempo da dedicare ai suoi sorvoli perlustrativi sulle linee nemiche da debellare, siamo certi che vi avrebbe ravvisato anche un pizzico di bordighismo, di stalinismo, di trotskismo, di terzomondismo e, perché no?, di nazimaoismo. 
Purtroppo, una tale critica bavosa rende impossibile ogni confronto. D'altronde, come e di cosa discutere con chi, dovendo tradurre il volontarismo anarchico nella propria lingua autoritaria, pensa subito ad una forma di avanguardismo leninista? Che un simile abbaglio sia frutto di cecità — come presumiamo sia il caso di questo poveretto offuscato dal rancore — o di calcolo — come pensiamo sia invece il caso dell'amico di Blanqui, lo stratega del Comitato Invisibile, l'allievo prediletto di Agamben, quello che ammutoliva chi gli domandava perché considerasse Bonanno un leninista con una risposta indimenticabile per erudizione, logica e dialettica: «perché nessuno lo dice, nessuno lo vede, ma a noi di Francia ci sembra evidente» — non fa molta differenza. 
Dopo aver letto le sue Note umorali, relegammo nell'oblio il loro autore. L'imbarazzo che ci suscitava la sua persona era tale da farci desistere dal continuare a tradurre e pubblicare i suoi scritti critici extra-polemici (come era accaduto per un testo sulla scienza sperimentale, apparso nel maggio del 2000 sul secondo numero della rivista Diavolo in corpo). Peccato non essere stati ricambiati, dato che l’A.D. non si scordò affatto di noi, e pochi mesi dopo tornò alla carica. Nell'agosto 2011, sull'onda della pubblicazione di una antologia di articoli tratti proprio dal Diavolo in corpo, pubblicata in Francia dalle edizioni Mutines Séditions, fece uscire l’ennesimo pamphlet polemico sempre con lo pseudonimo di Peter Vener. Titolo: Commentari su «La fine del mondo»; sottotitolo: avatar dell'escatologia cristiana a mo' di critica al nucleare. Venti pagine per scagliarsi contro un unico articolo, intitolato per l'appunto «La fine del mondo», e contro due righe scritte nell'introduzione dell'editore. L’A.D. comincia con una lunga tiritera contro Günther Anders, che a suo dire avrebbe ispirato quell'articolo, per poi passare al suo autore, Maré Almani, mettendolo alla gogna per il suo cristianesimo, il suo riduzionismo, il suo messianesimo, il suo hegelismo tutto italiota (tributo a quel Croce ispiratore di Gentile e del fascismo), il suo marxismo ortodosso, il suo post-modernismo, la sua passione per un Sade teorico del dispotismo, il suo nichilismo escatologico preludio al massacro e ai campi di sterminio nazisti... e così via in un crescendo di delirio allucinatorio. 
Inutile, il povero A.D. non ne azzecca una. Quell'articolo era infatti null'altro che un pastiche, un plagio in minima parte rielaborato di uno stralcio di un libro della surrealista Annie Le Brun, apparso nel 1991. Considerato che l'opera di Anders che a suo dire l'avrebbe dovuta ispirare è uscita in francese solo nel 2002 (a causa della censura di Sartre prima e di Debord poi), considerata la sua nota ostilità per la french theory, considerato che Croce non deve essere stato esattamente il suo maestro di hegelismo, considerato il suo ateismo più volte dichiarato... si capisce il motivo per cui quando leggemmo quei Commentari rischiammo seriamente di restare soffocati dalle risate. Costui appena vede verdognolo, parte all'attacco a testa bassa, senza vedere dove e contro chi stia andando, finendo ingolfato dai suoi stessi umori. Con gli spassosi risultati che ne conseguono. Così, nel giro di solo otto mesi ci diede prima la dimostrazione e poi la conferma di come il livello delle sue capacità critico-polemiche non riuscisse a superare lo sproloquio saputello. All'epoca ci dispiacque quasi non rivelargli chi fosse la vera autrice della quasi totalità di «La fine del mondo». Dopo tutto, vivevano nella stessa città... ahh, cosa avremmo dato per assistere all'incontro fra la grande appassionata di Sade ed il minuscolo calunniatore di Sade! 
L’A.D. deve comunque aver scoperto la cantonata presa nei suoi Commentari su «La fine del mondo», poiché nel dicembre del 2017 decise di tornarci sopra diffondendo un testo di otto pagine (questa volta firmato André Dréan) presentato come l'«Autopsia del cadavere di Annie Le Brun» ed intitolato «Per combattere il nazional-conservatorismo sotto copertura rivoluzionaria». Seguendo il solito canovaccio, inizia stracciandosi le vesti davanti all'«estetizzazione della rivolta da parte di intellettuali con pretese rivoluzionarie», per poi aprire il fuoco su Annie Le Brun la quale a suo avviso sarebbe «incontestabilmente uno degli esempi caratteristici di quell’inversione del reale che ci porta, se non stiamo attenti, a prendere lucciole per lanterne». Perché mai se la prende tanto? Beh, perché «molti rivoluzionari, compresi alcuni anarchici, in particolare in Italia, la citano in maniera elogiativa»: a chi si starà riferendo? Conclusa la premessa, arriva al sodo presentando il suo referto da coroner: la sovversiva Annie Le Brun è morta nel 1991, venendo poi sostituita dalla reazionaria nazionalista pro-croata autrice due anni dopo di Gli assassini e i loro specchi (opuscolo sulla guerra che all'epoca imperversava nell'ex-Jugoslavia), nonché abituale frequentatrice di ambasciate croate (ricordiamo che Annie Le Brun è stata per decenni la compagna del poeta croato Radovan Ivisic). E poiché il nazionalismo è incompatibile con la vera rivolta, va da sé che questa surrealista «pratica lei stessa ciò che denuncia in altri: il doppio pensiero, il doppio linguaggio, ecc». Ringalluzzito da una simile constatazione e fiero di aver impiegato a malapena 26 anni per formularla, il poveretto può quindi riprendere il ritornello dei vecchi Commentari del suo alter-ego virtuale, al fine di correggerli col senno del poi. Ed eccolo quindi biasimare proprio il libro della Le Brun poi saccheggiato dal Diavolo in corpo, paragonandolo di nuovo all'«ideologia catastrofista» ed alle «critiche riduzioniste» di Anders. 
Ora, noi non conosciamo questo testo «nazionalista» di Annie le Brun, che sappiamo per altro essere stato pubblicato qui in Italia da una piccola casa editrice triestina. Non abbiamo mai avuto la curiosità di leggerlo, anche perché è noto come l'impegno politico dei surrealisti sia sempre stato il loro punto più debole e risibile. Anche ammesso che quanto sostenuto dall’A.D. sia vero, e allora? Forse che un Breton scodinzolante ai piedi di Trotsky era meglio? Forse che il sostegno dato dai surrealisti al neonato Stato di Israele, o la loro visita alla Cuba di Fidel Castro, era meglio? Che una intellettuale rivoluzionaria contemporanea sia assai più una intellettuale che una rivoluzionaria, può sorprendere solo un ingenuo o qualcuno a corto di argomenti. Inoltre, seguendo questa logica, bisognerebbe buttare al macero anche Kropotkin (l’interventista), Proudhon (il misogino antisemita), Libertad (il candidato alle elezioni municipali), Malatesta (l’omofobo), Di Giovanni (il pedofilo), Déjacque (il nemico del luddismo)... 
Alla fine rimarrebbe solo l’A.D. a stagliarsi all'orizzonte, la quintessenza della radicalità, Lui, alias …, alias …, questi due impareggiabili critici radicali che nonostante vivano nella stessa testa non si incontrano mai e nemmeno si conoscono. Infatti il primo deve essere all'oscuro del fatto che nel gennaio 2010 il secondo ha diffuso un opuscolo di oltre 40 pagine, intitolato «Alcune note critiche su “En catimini”» (un libro sull'esperienza armata di Rote Zora e delle Cellule Rivoluzionarie in Germania), che si conclude rinviando, a proposito di femminismo, «alle critiche pertinenti e più globali, effettuate nel 1977 da Annie Le Brun». Come, come? Fa riferimento ad una sporca nazionalista? Non vorrà mica farne un mito? Prende anche lui lucciole per lanterne!? Ma queste son cose da anarchici italiani, decerebrati, papalini e schizofrenici! Ah, già, è vero, nel 2010 il cadavere di Annie Le Brun non puzzava ancora, essendo la sua autopsia ancora in corso...
 
E si può dire che a noi sia andata bene, sapete? Perché agli anarchici che sostengono certe cattive intenzioni in Francia, fuori dalla soglia di casa dell’AD della sovversione, è capitato assai di peggio. L'apice è stato probabilmente toccato all'indomani della strage al Bataclan, allorché a 24 ore dai sanguinosi fatti venne diffuso il volantino Né della loro guerra, né della loro pace. Ripreso da alcuni siti di movimento, questo testo fece andare su tutte le furie l’A.D. il quale non scrisse né un proprio articolo sull'accaduto, né una critica di ciò che non condivideva di quello scritto al fine di aprire un dibattito, nossignori: inviò la sua solita letterina ai siti che avevano indebitamente pubblicato Né della loro guerra né della loro pace tirando loro le orecchie per averlo riprodotto integralmente. Ma non potendo rimproverargli un contenuto che condivideva e che considerava banalità di base che Lui andava ripetendo da una vita, non gli rimase altro da fare che prendersela con quanto non c'era scritto, lanciandosi in un dietrologico processo alle intenzioni per stanare ciò che veniva taciuto e perché! Come si fa — interrogava l’A.D. — a pubblicare un testo privo di empatia verso le vittime della strage (per freddezza di pseudo-analisi critica geopolitica, chiaro!), privo di critiche verso la religione (perché si vuole fare opera di reclutamento fra giovani islamizzati, ovvio!), e quindi di per sé falso, riduzionista, nonché — udite, udite! — in odore di negazionismo antisemita? Tra i destinatari di questa letterina, oscillante fra la demenzialità senile ed il miserabilismo politico, ci fu chi la ignorò bellamente e chi invece scattò sull'attenti al richiamo del maestro, prendendo comicamente le distanze da quanto aveva pubblicato solo poche ore prima. Con ammirevole calma e freddezza, chi aveva scritto Né della loro guerra, né della loro pace ignorò il colpo basso sferrato da questo caso umano, tristemente noto in tutto il movimento francese e più volte insultato da altre sue bestie nere assai meno pazienti (come ad esempio alcuni esponenti della critica anti-industriale).
Basta così, inutile prolungare lo spiacevole intervallo.
 
[31/3/21]