Brulotti

Una palude di illusioni che crollano

Kafka levò la mano in aria un paio di volte, a sottolineare la sua inquietudine, e continuò: «Viviamo in un’epoca malvagia: lo si percepisce prima di tutto dal fatto che niente viene più chiamato col suo nome preciso. Si usa la parola “internazionalismo” nel designare l’umanità, conferendo un valore morale a un termine puramente geografico. I concetti vengono adoperati come gusci di noce svuotati. Così, per esempio, si parla d patria proprio ora che le radici dell’uomo sono ormai da lungo tempo divelte dal suolo». 
«Di chi è la colpa?» chiesi. 
«Di tutti noi! Siamo tutti impegnati in quest’opera di sradicamento». 
«Ma qualcuno deve pur esserne la causa», insistei. «Chi è? A chi sta pensando?». 
«A nessuno. Non penso né a chi ne sia la causa né a chi ne subisca gli effetti. Vedo solo ciò che accade. Le persone sono del tutto secondarie. E poi, quale critico potrebbe valutare correttamente la prestazione degli attori, dal momento che tutti sono con loro sul palcoscenico? Non c’è nessuna distanza e quindi tutto diventa incerto, tutto vacilla. Viviamo in una palude di illusioni che crollano, in cui vedono la luce mostri crudeli, che sorridono amichevolmente all’obiettivo dei fotografi e, senza che nessuno lo noti, calpestano già milioni di uomini come fossero insetti fastidiosi». 
Io non sapevo che dire. 
Attraversammo in silenzio la Melantrichgasse, passammo davanti al vecchio orologio del municipio e rag­giungemmo infine l’abitazione di Kafka, all’angolo tra l’Altstädter e la Pariser Strasse. 
Quando fummo nei pressi del monumento di Hus, Kafka disse: «Tutto naviga sotto falsa bandiera, nessuna parola corrisponde alla verità. Io, per esempio, ora vado a casa. Ma non è che apparenza. In realtà mi sto recando in un carcere preparato appositamente per me e che è tanto più duro, in quanto ha l’aspetto di una normalissima abitazione borghese e nessuno eccetto me la vede come una prigione. Proprio per questo viene meno anche il senso di qualsiasi tentativo di fuga. Non si possono spezzare catene, se non ci sono catene visibili. La prigionia è organizzata come una normale esistenza quotidiana, senza troppe comodità. Tutto sembra essere fatto di materiale solido e resistente. In realtà è un ascensore che precipita verso l’abisso. Se si chiudono gli occhi si può sentire il boato della caduta». 
[…]
«È un imbroglio», mi infuriai. «La gente si fa passare per ciò che non è». 
«E allora? Che cosa c’è di straordinario?». Il suo viso assunse un’affascinante espressione di compassione, pazienza e perdono. «Quante ingiustizie si compiono in nome del diritto? Quanta stupidità naviga sotto la bandiera del progresso intellettuale? Quante volte la decadenza indossa la maschera dello sviluppo? Lo si vede chiaramente anche ora. La guerra non solo ha messo il mondo a ferro e fuoco, ma lo ha anche illuminato. Ora scorgiamo che è un labirinto edificato dagli uomini stessi, un gelido universo meccanico, la cui comodità e funzionalità apparente ci esautorano e ci privano della nostra dignità». 
[…]
Raccontai a Kafka della fame e della miseria dei produttori di pizzi e di giocattoli sui monti Erz, che avevo attraversato a piedi nel 1919 insieme a mio fratello Hans, impiegato delle ferrovie a Obergeorgenthal (in ceco: HomiJiretin) nei pressi di Brüx. Conclusi il mio racconto con le parole: «Non c’è niente che funzioni, non il commercio o l’industria, la sanità o i rifornimenti alimentari, niente. Viviamo in un mondo di distruzione». 
Ma Kafka non era d’accordo. Si mordicchiò il labbro inferiore, massaggiandolo alcuni secondi con i denti e poi disse in tono molto deciso: «Non è vero. Se fosse tutto distrutto avremmo già raggiunto anche il punto di partenza di un nuovo possibile sviluppo. Ma non siamo a questo punto. La via che ci ha condotto fin qui è scomparsa. E con essa sono scomparse anche tutte le prospettive comuni valide finora. Stiamo solo precipitando senza speranze. Un’occhiata dalla finestra le mostra il mondo. Dove corre la gente? Che cosa vuole? Non riconosciamo più la concatenazione logica delle cose che trascende l’individualità. Nonostante il brulichio, ognuno è muto e isolato in se stesso. I valori dell’individuo e quelli del mondo non combaciano più. Non viviamo in un mondo in distruzione, ma in un mondo stravolto. Tutto tintinna e cigola come l’attrezzatura di un veliero cadente. La miseria che lei ha visto con suo fratello è solo la manifestazione superficiale di un disagio molto più profondo». 
[…]
Scossi il capo: «No, dottore, su questo non posso essere d’accordo con lei. Sui monti Erz ho visto l’indigenza. Le fabbriche sono...».
Kafka mi interruppe: «Le fabbriche sono solo organi per la moltiplicazione dei profitti. Noi tutti ricopriamo solo un ruolo secondario. Quello che conta è il denaro e la macchina. L’individuo è soltanto un apparecchio antiquato di moltiplicazione del capitale, un residuo della storia, che, siccome dal punto di vista scientifico è inadeguato, verrà molto presto sostituito senza difficoltà da automi pensanti». 
Io sospirai con aria sprezzante: «Ah già, questa è una popolare fantasia di H. G. Wells». 
«No», disse Kafka con voce dura, «questa non è un’utopia ma il futuro, che sta già prendendo forma davanti ai nostri occhi». 
[…]
Kafka osservò: «Le persone sono così consapevoli, sicure di sé, ben disposte. Dominano la strada e credono con questo di dominare il mondo. Ma in realtà si sbagliano. Dietro di loro ci sono già i segretari, i funzionari, i politici di professione, tutti i sultani moderni, ai quali stanno preparando la strada». 
«Non crede alla forza delle masse?». 
«Io la vedo, questa forza informe e indomabile delle masse, che brama d'essere domata e formata. Alla fine di ogni vera rivoluzione appare un Napoleone Bonaparte». 
«Non crede a un ulteriore estendersi della rivoluzione russa?». 
Kafka tacque un momento e poi disse: «Quanto più l’inondazione si propaga, tanto più l’acqua si fa bassa e torbida. La rivoluzione evapora e resta solo il fango di una nuova burocrazia. Le catene dell’umanità sofferente sono fatte di carta d’ufficio». 
[…]
Avevo delle riserve sul fatto che Platone escludeva i poeti dal suo Stato. 
Kafka disse: «È perfettamente comprensibile. I poeti tentano di dare agli uomini occhi nuovi perché cambino la realtà. Sono veri e propri elementi sovversivi perché vogliono cambiare le cose. Lo Stato e, insieme, i suoi devoti servitori, invece, vogliono solo durare». 
 
 
[Gustav Janouch, Conversazioni con Kafka]